Oltre l'età di Rita Rambelli

Oltre l'età di Rita Rambelli

il blog di Rita Rambelli

rita rambelliIn Italia abbiamo uno strano concetto del significato di “libertà”, perché da una parte ascoltiamo da mesi persone che protestano contro l’obbligo del greenpass perché lede il loro diritto alla libertà di decisione se vaccinarsi o meno, questo a fronte di un grave problema di salute pubblica e nello stesso tempo apprendiamo che la Corte Costituzionale nega a persone gravemente malate e costrette a gravi sofferenze senza speranza di miglioramento, il diritto e la libertà di porre fine alla loro vita in modo dignitoso in nome della difesa delle persone deboli e vulnerabili!?
Tutto questo è un controsenso perché se queste persone non fossero deboli e fragili e quindi incapaci di realizzare da sole questo desiderio, non chiederebbero aiuto per poter mettere fine alle loro sofferenze perché lo avrebbero già fatto da sole senza chiedere il permesso a nessuno!!
Il testo della proposta di referendum prevede una parziale abrogazione dell'art. 579 del codice penale -omicidio del consenziente - che impedisce la realizzazione di quella che viene chiamata “eutanasia attiva”, sul modello adottato in Belgio e nei Paesi Bassi. L’eutanasia è attiva quando il decesso di una persona è indotto attraverso la somministrazione di farmaci che inducono la morte, oppure dallo stop alle cure necessarie per mantenere in vita il malato.
Il laconico e asettico comunicato con il quale, ieri sera, l’Ufficio comunicazione e stampa della Corte Costituzionale ha divulgato la decisione di dichiarare inammissibile il quesito referendario sull’eutanasia lascia trapelare con chiarezza le ragioni che hanno ispirato la decisione di non lasciar votare i cittadini.
Un milione e 240 mila le sottoscrizioni a favore della proposta referendaria durante una delle campagne di raccolta più animate e più seguite della storia repubblicana. Numeri che rendono con chiarezza quanto la questione sia sentita dalla popolazione e che dimostrano quanto il tema del fine vita assuma una trasversalità ideologica e generazionale.
L’inammissibilità è stata decisa “perché, a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili
Il richiamo alla tutela minima della vita umana rende evidente che, a parere della Consulta, l’eventuale (e probabile, se si fosse votato) approvazione del referendum avrebbe limitato il diritto fondamentale della tutela della salute previsto dall’art. 32 della Carta costituzionale ed il dovere di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’individuo (tra questi, appunto, il diritto alla salute e alla vita) contenuto nell’art. 2.
Con la pretesa, o il pretesto, di tutelare le persone deboli e vulnerabili, in realtà si vuole mantenere ferma una ingiustificabile disparità di trattamento tra quei cittadini che possono darsi la morte da sé, così esercitando liberamente il proprio diritto all’autodeterminazione, e quelli che, per le proprie particolari condizioni psicofisiche (ad esempio, persone affette da tetraplegia o da SLA), non sono materialmente in condizioni di dare seguito in prima persona al proprio proposito di concludere la propria vita.
La Consulta ha preferito mantenere lo status quo, ritenendo queste persone, vittime incolpevoli di gravi malattie, non meritevoli di quella stessa tutela dei diritti inviolabili previsti dall’art.2 della Costituzione.

rita rambelliMolte cose oggi di moda vengono dal Giappone: dal cibo (sushi, tempura, ramen, ecc), ai fumetti Manga che sempre di più incontrano il favore dei nostri adolescenti, ai video giochi, alle arti marziali, alle auto elettriche o alle moto più veloci, ecc.
Tra tutte queste cose che ci arrivano dal Giappone e che hanno suscitato interesse in Italia c’è anche un concetto che dovrebbe aiutarci a vivere meglio.
Parlo dell’Ikigai, ovvero il concetto giapponese dell’importanza di “trovare la ragione per vivere e per cui svegliarsi la mattina.”
Tutti noi in diversi momenti della nostra vita ci siamo posti la fatidica domanda: cosa ci facciamo qui? Qual è lo scopo del nostro essere al mondo?
In Giappone l’idea di avere uno scopo nella vita è racchiusa nel termine Ikigai che possiamo sintetizzare con le nostre più famigliari frasi “ragione per vivere” o “ragione della propria esistenza“.
I giapponesi ritengono che ogni persona abbia il suo scopo nella vita e arriva il momento in cui è necessario farci i conti andando a ricercarlo attivamente, per questo questa teoria si sforza di spiegare l’importanza per una vita lunga e felice, di trovare il proprio scopo nella vita, cosa si vuole davvero fare e su cosa investire energie e tempo.
Prendere coscienza di questo e portarlo avanti nella propria quotidianità si ritiene possano migliorare l’esistenza sotto diversi aspetti: non solo soddisfazione e senso di appagamento ma anche maggiore salute e soldi.
Nel paese del Sol Levante il concetto di ikigai è di fondamentale importanza e sull’isola di Okinawa, la regione più meridionale e soleggiata del Giappone nota perché lì risiede una delle popolazioni più longeve al mondo, il termine “ikigai” viene tradotto come “un motivo per alzarsi la mattina”.
Il termine è formato da due parole ikiru (vita) e kai (la realizzazione di ciò che si spera) ma può indicare anche genericamente la persona che si ama (in effetti anche questa è un’ottima ragione per cui svegliarsi la mattina!).
L’ikigai è per la maggior parte dei giapponesi un qualcosa su cui vale davvero la pena investire anche se scoprire il proprio scopo nella vita può richiedere tempo e fatica.
C’è chi quasi subito riconosce le proprie aspirazioni e attitudini, chi invece piano piano deve farle emergere per poter prenderne coscienza.
Per trovare il proprio ikigai dobbiamo porci e rispondere a queste 4 domande:
1. Che cosa ami, qual è la tua passione?
Questa è una domanda fondamentale da porci che può essere lo stimolo fondamentale e il vero “motivatore” della nostra esistenza anche e soprattutto nel mondo moderno quando spesso siamo portati invece a concentrarci sulla soddisfazione troppo rapida di desideri spesso del tutto materiali. Chiedetevi dunque: cosa mi piace veramente?
Cosa farei se non avessi il problema di dover guadagnare e potessi davvero seguire il mio cuore in completa libertà?
2. In cosa sei bravo?
Questa potrebbe essere la domanda chiave per tirare fuori la propria vocazione. Per molti, la risposta può essere la stessa della prima domanda ma per altrettanti non lo è. Si tratta di una questione più pratica e meno emotiva, perché tutti sappiamo, almeno in parte, per cosa siamo portati. Passione e talento non sempre coincidono: potremmo ad esempio voler essere un attore perché magari questa è la nostra passione ma ci troviamo spinti ad essere invece un organizzatore di spettacoli perché è ciò che facciamo meglio. Questa è la nostra vocazione.
3. Cosa vuole il mondo da te?
Questa è probabilmente la domanda più difficile. In sostanza si tratta di capire qual è la vera missione o compito che abbiamo sulla terra. Quel qualcosa utile non solo a noi stessi per evolvere ma che aiuterà anche gli altri e il pianeta stesso a diventare un posto migliore.
4. Con cosa puoi procurarti da vivere? Qual è la tua professione?
L’ultima domanda è la più pratica e anche abbastanza semplice perché tutti (o quasi) ad un certo punto della propria vita hanno dovuto lavorare per potersi procurare i soldi necessari a vivere.
Naturalmente le risposte a queste domande possono sovrapporsi ma possono essere anche molto diverse quindi è necessario trovare un equilibrio tra tutte le cose anche se non è sempre facile ad esempio seguire la propria passione e allo stesso tempo procurarsi del denaro con qualcosa in cui si è realmente bravi. Anche seguire la propria missione ma non essere in grado di contribuire alle spese della propria famiglia o al contrario avere molti soldi ma sentirsi insoddisfatti in quanto a passioni e aspirazioni, sono strade che non funzionano e non portano a raggiungere l’ikigai.
Ho cercato di pensare a quale età avrei dovuto pormi queste domande, forse se me le fossi poste in tempo avrei fatto scelte diverse, ma, come si dice, ormai è tardi !!
La cosa che mi ha consolato è rendermi comunque conto che mi sono sempre alzata volentieri la mattina felice di affrontare gli impegni di quella nuova giornata e quindi forse non tutto è stato sbagliato..!!!

 

 

rita rambelliÈ vero che abbiamo poco tempo e che, se ne avessimo in misura maggiore, riusciremmo a fare di più e meglio? Ci lamentiamo sempre di avere poco tempo e di non riuscire a fare ciò che vorremmo. Ma è veramente così?
Secondo Seneca nel De Brevitate Vitae, non è vero che abbiamo poco tempo: la verità è che ne sprechiamo molto. Il filosofo latino ribalta il paradigma: la vita non è breve, siamo noi a renderla tale, sprecando il tempo che abbiamo a disposizione.
La vita infatti è lunga a sufficienza, per compiere mirabili imprese, se solo imparassimo a farne buon uso ed a viverla in modo proficuo. Soltanto quando giungiamo alla fine, ci rendiamo conto che la vita è passata, senza che ce ne siamo accorti. Per il filosofo latino perciò è breve la vita che viviamo davvero. Tutto il resto è tempo, che passa, ma non è vita. Questo concetto si ricollega a quanto sosteneva anche Rita Levi Montalcini che parlando della durata della vita che si allungava grazie alle nuove scoperte della medicina, sosteneva che non dobbiamo solo aggiungere anni alla vita, ma dobbiamo aggiungere vita agli anni.
Per la psicologia il tempo si dilata o si comprime, perché cambia la nostra percezione temporale. Questa sensazione è causata da vari fattori, quali per esempio l’età, le aspettative, le emozioni, la cultura. Il tempo della vita non è parcellizzato in ore e minuti ma invece è un continuum, in cui ogni istante può avere per ciascuno di noi una durata diversa. La percezione del tempo infatti è soggettiva e deriva dall’esperienza di ciascuno: è innegabile che un’ora sulla sedia del dentista sembra infinita, mentre un’ora passata in piacevole compagnia appare brevissima.
La sensazione soggettiva del tempo poi dipende anche da altri fattori, quali l’età, le aspettative, le emozioni e anche la cultura.
Pensiamo per un momento come anche le diverse emozioni ci diano l’impressione che il tempo si dilati o si comprima. Quando ci si sente tristi, si ha l’impressione che il tempo non passi mai, nella gioia invece sembra che il ritmo temporale sia accelerato. Per non parlare poi di come le nostre paure, le nostre insicurezze e le nostre contraddizioni influiscano sulla nostra percezione del tempo.
Un’altra osservazione importante è che la persona più anziana ha una percezione del tempo diversa rispetto a quella più giovane. Proprio con l’avanzare dell’età si ha effettivamente l’impressione che il tempo fugga.
Ciò è dovuto non solo al fatto che si ha la consapevolezza di averne meno a disposizione, ma, secondo la scienza, dipende dalla velocità o dalla lentezza con cui le immagini vengono elaborate dal nostro cervello.
Come dimostrato dalle ricerche scientifiche la mente giovane riceve più immagini in un giorno della stessa mente in età avanzata. Detto in altro modo, se la durata della vita è misurata in termini di numero di immagini percepite durante la vita, allora la frequenza delle immagini mentali in giovane età è maggiore che in vecchiaia.
La mente quindi percepisce il “cambio di tempo”, quando l’immagine percepita cambia. Oltre al limite organico bisogna considerare anche la differenza del tipo di vita di un giovane e di quella di un anziano. Quest’ultimo infatti ha meno sollecitazioni. La consapevolezza del fatto che il tempo passa in fretta solo quando si è privi di nuovi stimoli può permetterci di capire il motivo del nostro disagio con l’aumentare dell’età e di trovare delle possibili soluzioni alla nostra sensazione di insufficienza del tempo. Dovremo, per esempio, ricercare nuove esperienze, come viaggiare in posti nuovi, intraprendere nuove attività, frequentare gente diversa, per continuare a riempire di immagini il nostro cervello. Anche se proprio i limiti imposti dall’età non rendono tutto questo sempre possibile, è comunque importante che ci si impegni al massimo per ricercare, nella propria quotidianità, stimoli nuovi ed attività diversificate. Una vita attiva tra l’altro genera sempre nuovi stimoli, come in una reazione a catena.
Se per esempio decido di andare a vedere una mostra d’arte sull’impressionismo, sono stimolata a prepararmi prima, leggendo vari studi sulla corrente e sui suoi rappresentanti, e dopo sono spinta a parlarne o ad approfondire eventuali stimoli ricevuti, arricchendo così la mia vita.
Quindi, spesso non è il tempo che manca, ma l’interesse, la voglia di impegnarci.
Quante volte abbiamo sentito dire questa frase e probabilmente l’abbiamo usata anche noi: “Mi dispiace, non ho tempo”.
In realtà a volte è una scusa per non fare determinate cose e stiamo prendendo in giro noi e gli altri. Lo dimostra il fatto che, quando qualcosa ci sta a cuore, troviamo subito il tempo per farla: non esiste la mancanza di tempo, esiste la mancanza di volontà e di motivazione ed è questa che ci fa stabilire le priorità: quando diciamo di non avere tempo, in realtà affermiamo che quella determinata cosa non è per noi una priorità.
Dicendo di non aver tempo, si vuole giustificare la vita frenetica e l’accumularsi degli impegni, quando invece è solo una scusa per non affrontare i problemi o per sfuggire alle proprie responsabilità. Anche quando procrastiniamo, giustificandoci con la mancanza di tempo, in realtà è il nostro io più profondo che teme di affrontare quella questione o magari ha paura del cambiamento e ci spinge a rimanere nella zona di comfort.
Ciò di cui abbiamo bisogno infatti non è il tempo, ma un dialogo onesto e sincero con noi stessi per affrontare con coraggio nuove esperienze di vita.

rita rambelliIl 2 ottobre si celebra la festa dei nonni e mi dispiace che quando ero bambina questa festa non esisteva perché sicuramente i miei nonni meritavano di essere festeggiati e io non li ho mai dimenticati.
Oggi anch’io sono nonna e sinceramente mi fa molto piacere che mia nipote mi faccia gli auguri in questa ricorrenza.
La festa dei nonni non è diffusa in tutto il mondo e, nei paesi in cui esiste, non cade necessariamente il 2 ottobre di ogni anno.
Per esempio, negli Stati Uniti si festeggia la prima domenica di settembre, in Canada il 25 ottobre, in Francia e Polonia esistono due ricorrenze separate, una per le nonne e una per i nonni.
La data italiana è stata fissata ufficialmente il 2 ottobre con la legge numero 159 del 31 luglio 2005. Vi si legge che l'intenzione è "celebrare l'importanza del ruolo svolto dai nonni all'interno delle famiglie e della società in generale".
La scelta del 2 ottobre è legata al fatto che nel medesimo giorno il calendario cattolico dei Santi posiziona il ricordo liturgico degli angeli custodi: il collegamento implicito con i nonni è che sono gli angeli custodi dell'infanzia. Quindi lo Stato italiano ha privilegiato questo aspetto, piuttosto che tracciare un parallelo con i genitori di Maria e nonni di Gesù, cioè i santi Gioacchino e Anna, che sono invece i santi patroni dei nonni e che vengono celebrati però il 26 luglio.
Al di là delle ricorrenze religiose, la prima istituzionalizzazione civile della festa dei nonni è avvenuta negli Stati Uniti, nel 1978, per iniziativa della presidenza di Jimmy Carter e su proposta di una casalinga della Virginia Occidentale di nome Marian McQuade, madre di quindici figli e nonna di quaranta nipoti. Insomma, una che aveva tutte le carte in regola per dire la sua sul ruolo sociale e famigliare delle persone come lei, convinta che la relazione con i nonni fosse fondamentale per la buona educazione delle nuove generazioni.
L’importanza dei nonni è rilevata anche a livello scientifico: i ricercatori della Concordia University e della Wilfrid Laurier University, esaminando il legame che univa alcune coppie di nonni e nipoti, hanno dimostrato che trascorrere del tempo libero con i nonni aiuta a rafforzare i legami familiari, che rimarranno forti per tutta la vita.
L’Italia, per tradizione e cultura, è uno dei Paesi con il tasso più alto di anziani che si prendono cura dei propri nipoti. Nel nostro Paese, infatti, il 33% dei nonni quotidianamente si occupa dei nipoti, e io sono tra quelli, contro l’1,6% della Danimarca o il 2,9% della Svezia.
In Italia i nonni sono sempre stati quella figura su cui contare, basti pensare al microcosmo della vita di paese o di quartiere, nel quale gli anziani erano un forte sostegno alle famiglie e si aiutavano l’un l’altro, dove ci si conosceva tutti e dove spesso i bambini diventavano nipoti acquisiti di tutti. " Anche qui però le cose stanno cambiando, a causa dell' aumento dell'età pensionabile, agli spostamenti geografici dei figli per motivi di lavoro, ad un tessuto sociale notevolmente modificato, la percentuale dei nonni che può aiutare le famiglie nella gestione dei figli è molto diminuita." 
Oggi anche i nonni che non riescono ad essere presenti quotidianamente nella vita dei nipoti perché vivono lontano, hanno imparato ad utilizzare le nuove tecnologie come i computer e gli smartphone per fare videochiamate e prendono treni e voli aerei per poter stare con i propri figli e nipoti.
Ho amici che volano periodicamente a Londra o a Zurigo per vedere i nipoti e altri che settimanalmente percorrono molti chilometri per vivere qualche giorno con la famiglia ed prendersi cura dei bambini.
Il ‘nontiscordardimè’, è il fiore ufficiale di questa festa e in qualche modo sembra voler lanciare un messaggio al mondo per non essere dimenticati.

rita rambelliLa settima arte ha spesso affrontato la difficile tematica dell’Alzheimer, mostrandone le diverse sfaccettature e ne sono un valido esempio due film usciti nel 2020 ma che ho potuto vedere solamente quest’anno, causa Covid-19 che comunque vi consiglio anche se guardare i film che trattano questo tema è in alcuni momenti molto faticoso per chi, come me, ha visto e assistito persone amate colpite da questa terribile malattia, ma nello stesso tempo è anche in qualche modo “consolatorio” capire come questa difficile esperienza sia condivisa da tante altre persone.
Il primo film “Supernova” racconta una storia curiosamente simile a quella di Ella & John di Paolo Virzì e anche in questo caso il punto di forza del film è la bravura dei due protagonisti. Là erano Helen Mirren e Donald Sutherland, qui sono Stanley Tucci e Colin Firth. Nella sua semplicità il film riesce a fare la differenza, perché il regista Macqueen, confeziona un prodotto delicato, che regala emozioni, e fa riflettere sulle diverse sfaccettature dell’amore che si confronta col dolore e la malattia. Valore aggiunto di questo film è l’aver reso irrilevante la natura gay del rapporto d’amore, che appare un sentimento totalizzante, senza quelle distinzioni di orientamento sessuale che a volte ne sviliscono l’essenza. Sam e Tusker potrebbero essere Maria e Sonia, Aldo e Giovanna, qualsiasi coppia innamorata e l’essenza del film non muterebbe.
Stanley Tucci, nei panni di Tusker, è un uomo che non riesce ad accettare l’idea di perdere un domani il controllo di se stesso, arrivando a non riconoscere chi ha sempre amato per poi perdere anche la coscienza della propria persona.
Dall’altra parte c’è la dedizione di Sam, interpretato da Colin Firth, disposto a tutto pur di guadagnare attimi di vita al loro rapporto. Sam e Tusker, sessantenni, sono compagni di vita da molto tempo: Sam è un pianista, Tucker uno scrittore, e hanno condiviso la loro passione per l'arte durante tutta la loro lunga storia d'amore. Tusker ha scoperto di essere affetto da demenza precoce e decide di prendersi una vacanza dalla realtà prima che sia tardi, insieme a Sam, a bordo di un camper con cui rivisitare luoghi e rivedere persone importanti del loro passato comune. Nel corso del viaggio però entrambi dovranno affrontare il diverso modo individuale di affrontare la malattia e l'imminente trasformazione del loro rapporto che sarà la inevitabile conseguenza della perdita della memoria. Tusker, un uomo abituato ad esercitare il controllo sulla propria vita, che ha sempre vissuto con indipendenza e ironia, non può sopportare di diventare un peso per Sam. Nello stesso tempo Sam ha grandi difficoltà nel fare i conti con un declino progressivo e inesorabile di Tusker, che significa anche la perdita graduale della reciproca identità e la scomparsa del loro mondo.
Lo sguardo con cui Sam abbraccia e custodisce Tusker è una testimonianza visiva di quanto desideri trattenerlo accanto a sé, proprio mentre a poco a poco lo vede scivolare via.
"Non si dovrebbe piangere qualcuno quando è ancora in vita", afferma Tusker, ed è questa la constatazione più amara che fa chiunque si veda portare via la propria mente, o assista allo sgomento di chi resta lucido a guardare.
Questo film parla del coraggio di accettare le cose come sono e non come vorremmo che fossero e della libertà di prendere decisioni che riguardano la nostra vita, anche la libertà di morire, anche quando sembra essere la vita stessa a sottrarci questo diritto togliendoci le facoltà mentali e soprattutto parla del rispetto per l'altro, che è la componente fondamentale dell'amore, e non consente ricatti o imposizioni.

Il secondo film è “The father” del regista Zeller, che all’inizio assomiglia a un puzzle ricostruito da un narratore inaffidabile, e all’inizio ci lascia perplessi e sconcertati perché non si riesce subito a capire che quella che vediamo non è la realtà ma un insieme di percezioni viste con gli occhi di una persona che, a causa di una demenza senile, tende ad aggrovigliare, rimescolare e sovrapporre i contesti, le persone, i ricordi, gli eventi e per rendere l'operazione ancora più complessa, toglie qualche frammento lasciando dei vuoti nel racconto.
Ne verrà fuori un insieme un po' diverso, all'interno di una composizione che ha già alterato i rapporti spaziali tra persone ed elementi del quadro. Il protagonista del film- Anthony, un ex ingegnere ottantenne interpretato da uno straordinario Anthony Hopkins- vive in una casa elegante in un quartiere residenziale di Londra, ha rapporti conflittuali con le collaboratrici che lo assistono e viene visitato regolarmente dalla figlia - Anne, impersonata da Olivia Colman.
Ha alcune manie compulsive, come quella di nascondere l'orologio in luoghi di cui si dimentica e qualche vissuto persecutorio nei confronti delle badanti, accusate di sottrargli oggetti di valore. La fissazione sull'orologio è significativa, in realtà la percezione del tempo da parte di Anthony si sta sgretolando, tende a sovrapporre il "prima" e il "dopo", il qui e il là, mescola gli eventi come fossero un mazzo di carte, rimodella la realtà sulla base dei suoi desideri e timori. Una figlia morta in un incidente continua a vivere nella mente dell'anziano, confonde il proprio appartamento con quello di Anne, rivendica un'autonomia di pensiero e di decisione che viene azzerata dalla sua condizione.
Ma non è solo il tempo a sgretolarsi, anche lo stato emotivo di Anthony subisce brusche variazioni e oscillazioni in un range che spazia dall'arroganza, all'aggressività persecutoria, dall'affabilità all'invettiva, dalla fragilità e al pianto.
In The Father, Anthony Hopkins incarna un ottuagenario che rifiuta tutte le badanti che la figlia gli propone, aggrappandosi al suo diritto di vivere da solo. L’uomo ha perso la ragione o è vittima di un complotto che mira alla sua eredità? Vive nell’appartamento della figlia o è ricoverato in una clinica privata?
Attore magistrale, Hopkins disegna un protagonista adorabile quanto odioso, in preda ai capricci della memoria e pieno di una vulnerabilità disarmante. L’interpretazione di The Father gli vale l’Oscar trent’anni dopo quello del "Silenzio degli innocenti".

rita rambelliNello scorrere le notizie dei giornali, mi sono ritrovata a leggere la lettera di Francesca Parolari, presidente dell'ente che gestisce la gran parte delle case di riposo trentine, che due mesi fa, dopo averla inviata, si è dimessa.
Mi ha colpito perché anch’io, che frequento regolarmente una RSA dove è alloggiata mia sorella Anna, resa gravemente disabile da una malattia vent’anni fa, mi sono chiesta più volte in questi ultimi mesi a cosa è servito essere tutti vaccinati, sia chi sta dentro che noi che stiamo fuori e che andiamo in visita, se la regola è ancora quella che puoi restare 30 minuti, che devi stare a distanza e non li puoi toccare e soprattutto loro non possono uscire da oltre un anno dalla struttura per tornare nel mondo reale, facendo tutte le cose che facevamo prima del Covid: andare nei negozi, al bar per un caffè o un aperitivo, al ristorante per un pranzo o per una pizza. Se lo posso fare io, che sono vaccinata, perché non lo può fare lei che è altrettanto vaccinata??
Essere anziani o disabili significa perdere i diritti civili?? Eppure votano.
Se potessi fare quello che penso io oggi mi assumerei tranquillamente la responsabilità di portarla fuori dalla struttura, certa che con le dovute attenzioni non succederebbe niente di grave per la sua salute, ma il problema è che se la porto fuori non la posso più riportare dentro, e Anna non può vivere da sola senza assistenza continua per vivere.
Quella di Francesca è una lettera dai toni molto duri in cui spiega di aver abbandonato il ruolo perché le vaccinazioni a cui sono stati sottoposti anziani e personale delle RSA non hanno avuto la conseguenza sperata di riaprire le strutture, sempre in sicurezza, alle visite ai familiari e tanto meno si prospetta a breve un ritorno alla normalità.
Qui sotto la lettera riportata integralmente nei passaggi più significativi:

“Con la presente rassegno le mie dimissioni dalla carica di Presidente UPIPA, (Unione Provinciale dei Servizi per l’Assistenza di Trento). Si tratta di una decisione maturata sulla base di riflessioni che, con la presente, intendo rendere pubbliche. L’evolversi della vicenda, che ha visto coinvolte alcune APSP (Associazioni di servizi) del sistema UPIPA (tra cui quella che presiedo) che hanno autorizzato le visite dei familiari in presenza, dopo un anno di chiusura delle RSA, ha messo in evidenza le grandi contraddizioni latenti nel nostro sistema. A partire dalla concezione di Autonomia delle APSP riconosciuta dal legislatore regionale, purtroppo vuota e priva di concretezza, portata solo come bandiera se non è associata al concetto di Responsabilità. …………………………, far seguire al grande lavoro messo in campo per le vaccinazioni di ospiti e personale un conseguente allentamento delle misure di protezione nelle nostre RSA, arrivando collettivamente ad autorizzare le visite in presenza su indicazione dei nostri direttori sanitari.
Se lo avessimo fatto come sistema, saremmo state l’esempio in Italia di strutture organizzate che hanno vaccinato appena possibile e che hanno fatto seguire alla vaccinazione una immediata revisione e riorganizzazione del proprio modello assistenziale, coerentemente con il mutare della tipologia di ospiti, passati da suscettibili a vaccinati. Avremmo cioè fatto il nostro dovere di salvaguardare la salute, psichica e fisica insieme, dei nostri anziani.
Assistiamo invece ad un immobilismo fondato su concezioni che non hanno nulla di scientifico, a richieste reiterate alla Provincia Autonoma di Trento ( PAT) di provvedimenti che garantiscano la tutela degli amministratori, alla ricerca di protezioni esterne che indichino puntualmente la strada da percorrere, arrivando persino ad affermare che la condizione imprescindibile per aprire alle visite sarebbe quella di ottenere il benestare da Roma.
Tutto ciò rifiutandosi, a prescindere, di esaminare insieme il protocollo elaborato da alcune nostre Associazioni di Servizi APSP, validato sotto il profilo tecnico dall’Azienda Sanitaria Provinciale, sulla base del quale già da due settimane alcune RSA hanno aperto, in sicurezza, alle visite in presenza. Ebbene, dopo aver accettato l’incarico di presidente di una APSP, avevo accettato l’incarico di presiedere l’Unione provinciale delle Istituzioni per l’Assistenza (UPIPA) non solo per prendere atto di direttive provinciali o per ratificare accordi sindacali, ma per esercitare, con competenza e Autonomia, anche azioni di Responsabilità. Ma se le concezioni di Autonomia e Responsabilità che si vogliono esercitare nel sistema UPIPA sono quelle sopra descritte, se viene chiesto di abdicare a scelte di Responsabilità che comportano conseguenze sulla salute psicofisica delle persone affidate, personalmente non mi sento più di rappresentare il comparto.
Sappiamo come hanno vissuto i nostri anziani nelle RSA in questo lungo anno. Conosciamo le sofferenze che hanno provato, i drammi che hanno sopportato, cosa è significato per loro veder andarsene uno dopo l’altro i compagni di stanza o di piano. Sappiamo quali conseguenze psico-fisiche hanno subìto e subiscono ancora, l’ansia, la depressione, in alcuni casi la morte di chi non ce la fa più e si lascia andare. Conosciamo bene anche le grandi sofferenze dei familiari in questa lunga e, per molti, inaccettabile distanza forzata. Conosciamo infine bene lo stato d’animo dei nostri bravissimi operatori che si sono trovati ad essere, nello stesso tempo, lavoratori e figli, nipoti e psicologi, accompagnatori e confessori, mediatori e portatori di notizie tra anziani e familiari. Eppure, nonostante ciò, molti di Voi si ostinano ancora ad aspettare. Ora, dopo un anno di segregazione forzata dei nostri anziani, è arrivato finalmente il vaccino. Un vaccino che sugli anziani funziona benissimo, come ha detto recentemente anche il Dirigente generale di APSS, dott. Benetollo. Un vaccino che i nostri anziani si sono fatti inoculare con la speranza di poter tornare, grazie a quello, a rivedere presto ed abbracciare i loro cari. Eppure, nonostante ciò, molti di Voi si ostinano a negare loro questa speranza. Credo sia giunto il momento per me di scegliere da che parte stare. Lo sento come un dovere etico e morale. Non me la sento di stare con chi si ostina ancora, ingiustificatamente, ad aspettare, a negare agli anziani questi loro basilari diritti ....................fare di tutto per riportare i nostri anziani e le loro famiglie alla normalità di relazione, fatta dell’odore che emana un corpo conosciuto, di voci che arrivano chiare, di incroci di sguardi limpidi. Cose che solo le visite in presenza permettono, non certo il vetro e nemmeno il nylon, surrogati artificiali ed ora anche inutili. ………Concludo ringraziando………
Francesca Parolari

 

rita rambelliLa pandemia è stata sicuramente una cartina di tornasole che ha messo a nudo e amplificato le inefficienze e le gravi carenze organizzative e di risorse umane a tutti i livelli, con le conseguenze sul piano sanitario e socioeconomico che tutti abbiamo avuto modo di vedere, sentire o sperimentare.
Il mancato aggiornamento del piano pandemico, l’alto numero di pazienti COVID scarsamente assistiti o deceduti a domicilio e nelle CRA, l’alto afflusso negli ospedali, a loro volta colti impreparati dal punto di vista organizzativo e tecnologico, e spesso sguarniti di personale specialistico, hanno evidenziato l’urgenza di un rifinanziamento congruo e di un ripensamento organizzativo complessivo dell’assistenza sia territoriale che ospedaliera.
L’Italia, assieme alla Germania, ha la più alta percentuale di popolazione over 65 in Europa. Nel mio Comune, Ravenna, gli ultra 65 rappresentano nel 2020 il 25% della popolazione e l’indice di vecchiaia è 207,8 (cioè ci sono 207,8 over 65 ogni 100 di età 0-14). Tenendo conto che con l’aumentare dell’età aumentano le patologie, le disabilità e le fragilità socioeconomiche, è evidente che il problema assistenziale di anziani con riduzione più o meno elevata dell’autonomia interessa molte famiglie.
Nelle Ausl dell’Emilia-Romagna il NUCOT, Nucleo di Continuità Ospedale-Territorio, servizio di collegamento fra ospedale e territorio, ha il compito di rapportarsi coi famigliari per attivare diverse possibilità assistenziali che garantiscano la continuità delle cure alla dimissione:
1) cure intermedie: Post acuti, Lungodegenza o OsCo
2) assistenza domiciliare sanitaria e/o socio assistenziale
3) assistenza semiresidenziale (diurna) e residenziale temporanea (RSA) o definitiva (CRA).
Moltissimi cittadini però si lamentano per le molte difficoltà incontrate quando si sono trovati in questa situazione: la prima che si incontra in ordine di tempo è la impossibilità di avere risposte complete e coordinate in un momento di grave difficoltà e la principale motivazione e che oggi sicuramente manca un luogo dove la complessità dei bisogni possa ricevere risposte complete mentre invece occorre districarsi nei meandri di Enti diversi ed uffici diversi, ciascuno dei quali risolve solamente una piccola parte del quadro complessivo dei bisogni.
Purtroppo, anche l’assistenza domiciliare che viene fornita è largamente insufficiente ai bisogni dell’anziano e della sua famiglia, che sono obbligati a ricorrere alle ”badanti”, spesso assunte col “passaparola” senza regolare contratto e senza formazione.
Il PNRR prevede investimenti per potenziare le prestazioni domiciliari, fino a coprire il 10%della popolazione over 65 con una o due patologie croniche e/o non autosufficienti (oggi siamo al 2%). La possibilità di rimanere a domicilio per chi ha perso l’autosufficienza è legata a un insieme di interventi che non sono solo di tipo sanitario e/o sociosanitario, ma volti alla presa in carico della persona nella sua globalità e nel suo percorso di vita (pasti, spesa, pulizie, ecc.). Oltre agli anziani, pensiamo a gravi malattie croniche (es. SLA, malattia di Alzheimer, pazienti intubati per varie cause), bambini con gravi disabilità, giovani adulti disabili che desidererebbero vivere in autonomia, e tanti altri.
L’attuale frammentazione dei servizi, la scarsità di strumenti tecnologici di supporto, le barriere architettoniche, rendono attualmente difficile e faticosa la vita di queste persone e delle loro famiglie.
L’ accesso alle RSA e in particolare alle CRA prima della pandemia COVIS era molto difficile, con lunghe liste di attesa e con la possibilità di accedere limitata ai livelli più alti di disabilità (valutati tramite la scala “BINA” o altre scale).
Oggi probabilmente molti posti letto si sono liberati visto l’alto numero di decessi che sono avvenuti in queste strutture.
Il rapporto anziani/posti letto raccomandato dalla Regione Emilia-Romagna (3% per i residenti over 75) -relativamente alle strutture accreditate per i non autosufficienti (CRA) - non è ancora stato raggiunto e per questo, soprattutto in alcune province, come Ravenna, sono nate molte Case-famiglia (80 nel territorio ravennate, in costante aumento), che possono ospitare al massimo 6 anziani autosufficienti o parzialmente autosufficienti. L’ accesso e la possibilità di rimanere in una Casa famiglia è legato a un basso livello di non autosufficienza, superato il quale però dovrebbe scattare la dimissione e l’accesso a strutture adeguate al livello di disabilità. Se non ci sono i requisiti o un posto in una CRA accreditata, si crea così un vuoto, una interruzione della presa in carico.
L’alto numero di decessi nelle CRA dovute al Covid ha evidenziato la necessità di ripensare queste strutture dal punto di vista strutturale e organizzativo in luoghi più ampi e aperti alla comunità di appartenenza. Tale riprogettazione chiama in causa futuri piani urbanistici, enti pubblici, cooperazione, e privato sociale che dovrebbero lavorare in rete.
Ancora una volta il PNRR potrebbe essere di aiuto perché prevede finanziamenti per l’ istituzione di una Centrale Operativa Territoriale(COT) per ogni Distretto, con la funzione di coordinare i servizi domiciliari con gli altri servizi sanitari (ospedali e 118) e un Punto Unico di Accesso (PUA) per ogni Casa di Comunità per le valutazioni multidimensionali dei bisogni sociosanitari, dove il cittadino può ricevere informazioni, orientamento, e accompagnamento, in maniera qualificata rispetto a tutto il problema da affrontare, semplificando l’accesso ai servizi socio-sanitari, senza rischiare di generare vuoti, o sovrapposizioni.
E’ certo che persone informate usano al meglio i servizi. Siamo però altrettanto consapevoli che semplificare l’accesso alle informazioni richiede un totale cambiamento delle logiche di collaborazione e di gestione tra sanitario e sociale.
La pandemia nella nostra realtà ha attivato le numerose risorse presenti: oltre a iniziative direttamente messe in campo dal Comune e dai Servizi Sociali, innumerevoli associazioni di volontariato laiche e caritatevoli hanno supportato le tante esigenze dei cittadini dovute sia all’ isolamento che all’ impoverimento economico. Le file davanti alla Caritas e i numerosi accessi agli Sportelli sociali sono tuttora presenti ed evidenziano la necessità, nel post Covid, di una approfondita analisi del fenomeno emergente di povertà, carenze educative, marginalità e disagio sociale. Lo scopo dell’ analisi dei dati è quello di rivedere ed eventualmente ripensare l’organizzazione dei servizi, indirizzando al meglio risorse economiche e umane.

 

Il processo di invecchiamento della popolazione sta assumendo dimensioni rilevanti ed una prima conseguenza è la domanda sempre più frequente di servizi legati alla non autosufficienza e quindi alla necessità di continuità assistenziale a domicilio e di una maggiore contiguità tra ospedale e territorio.
Il quadro epidemiologico che abbiamo di fronte è composito: patologie cronico-stabilizzate, cronico-degenerative, patologie di origine sociale, ecc. dando origine ad una domanda multidimensionale che rende incerto il confine tra intervento sociale e sanitario e rende necessario un intervento sempre più integrato tra servizi gestiti da Enti diversi.
L’integrazione delle politiche sociali e delle politiche per la salute diventa uno strumento per rispondere a bisogni sempre più complessi, multidimensionali e differenziati: con la consapevolezza che a ciascun problema sociale non risolto si associa un problema sanitario e viceversa.
L’obiettivo finale è quello di lavorare a un progetto di welfare dove la domiciliarità e la prevenzione precoce siano le parole chiave di una sostenibilità perseguibile.
Nella nostra regione possiamo offrire alla popolazione, sul versante sociale e sanitario, una molteplicità di interventi e servizi di diversa natura forniti e gestiti da enti diversi, Servizi sociali comunali, Aziende sanitarie, privato sociale autorizzato e/o accreditato, cooperative di servizi, etc. le cui attività però non fanno capo ad un unico sistema informativo, ma alle singole istituzioni, in luoghi diversi, con orari diversi, con modalità diverse, mentre i bisogni sono relativi ad un unico soggetto, che si trova in un momento di particolare difficoltà sanitaria e sociale ed a volte anche economica.
Scaricando sul cittadino l’onere di muoversi tra uffici ed enti diversi, oltre a generare ulteriore stress emotivo, rischiamo anche di generare inappropriatezza negli interventi e scarsa possibilità di valutarne gli esiti.
I vincoli economico-finanziari sempre più stringenti a fronte di un trend di costi in costante crescita, impongono di pensare e realizzare modalità operative in grado di garantire la sostenibilità del sistema di offerta di servizi sanitari e sociali.
Cosa manca quindi all’attuale sistema informativo per i cittadini?
Per dirlo con uno slogan direi:
“Un luogo dove la complessità dei bisogni riceve unitarietà di risposte”
Marshal McLuhan, sociologo della comunicazione, sosteneva a ragione, che il mezzo e più importante del contenuto, cioè che noi possiamo voler trasmettere anche tante informazioni importantissime ma se lo facciamo utilizzando un mezzo di comunicazione sbagliato, le nostre informazioni NON arriveranno ai destinatari e NON si otterranno i comportamenti sperati da parte delle persone a cui doveva arrivare il messaggio, vanificando in gran parte gli sforzi fatti per realizzare servizi di qualità.
Durante questo periodo di ristrettezze nelle nostre possibilità di movimento causa la pandemia, ci siamo resi conto come la tecnologia ha radicalmente modificato la nostra società, le nostre abitudini e i nostri modi di comunicare. Questa rivoluzione è avvenuta non solo nei comportamenti ma anche nei modi di acquisizione le informazioni. Grazie a social network, mass media, computer e smartphone le informazioni, almeno quelle giornalistiche, sono oggi ad immediata disposizione dei cittadini che di conseguenza si aspettano di avere la stessa velocità di informazione anche in relazione ai servizi pubblici ed in particolare ai servizi sociali e sanitari.
Se però pensiamo a cosa succede quando abbiamo necessità di informazioni urgenti ed esaustive su problemi che riguardano gravi eventi che investono e sconvolgono la vita delle persone e delle loro famiglie (ictus, gravi incidenti stradali, demenza senile, infortuni e traumi a persone anziane che diventano improvvisamente non autosufficienti, ecc. ) ci rendiamo conto che la difficoltà di avere le informazioni da tutti gli Enti coinvolti nel problema può condizionare le scelte che si compiono, con gravi ripercussioni sulla qualità della vita degli interessati e dei loro familiari.
Un’onesta riflessione sulle asimmetrie informative, che sappiamo esistere perché c’è chi per conoscenze personali, riesce ad avere le indicazioni giuste prima di altri, può aiutarci a capire quali sono le difficoltà che sempre più persone denunciano di avere quando devono reperire le informazioni necessarie per affrontare i momenti più difficili della vita soprattutto se si tratta di nuclei familiari formati da 1 o 2 persone anziane. Rendere accessibili a tutti le informazioni giuste rispetto a problemi sanitari e sociali, oggi è sicuramente una priorità per chi amministra una comunità, perché migliore è l’informazione, migliore e più corretto sarà il comportamento delle persone.
Se teniamo conto che solo nel Comune di Ravenna, dove abito, su 160.000 abitanti circa, ci sono 25.000 nuclei familiari composti da 1o 2 persone over 60, e se moltiplichiamo la situazione per le 9 province della nostra regione, ci rendiamo conto della enorme quantità di persone che nei prossimi anni avrà bisogno di aiuto perché sarà sola ad affrontare gli inevitabili problemi dell’età.
Per raggiungere l’obiettivo di fornire corrette informazioni facilmente reperibili, occorre integrare il Numero Verde del Servizio Sanitario Regionale 800 033 033 con tutte le informazioni che consentono l’accesso anche ai servizi sociali dei Comuni, senza rischiare di generare vuoti, o sovrapposizioni.
Questo nuovo NUMERO VERDE Socio Sanitario rappresenterebbe anche una risorsa informativa per gli stessi operatori sociali e sanitari (e non solo) in relazione ai servizi disponibili sul territorio.
Realizzare un Punto Unico di informazione come Numero Verde socio-sanitario è un progetto sicuramente molto impegnativo che richiede un totale cambiamento delle logiche di collaborazione e di gestione attuali tra sanitario e sociale, tra Aziende sanitarie e Comuni, che oggi sono state sviluppate solamente in alcune zone della nostra regione ma non fa parte ancora di una politica regionale uniforme su tutto il territorio.
Come in tutti i processi di cambiamento anche in questo caso la formazione rivestirà un ruolo chiave sia per le persone che costituiranno l’équipe del nuovo Numero verde socio-sanitario, sia per gli operatori sociali e sanitari che gestiscono i servizi unificati, creando quella integrazione reale degli interventi che mette il cittadino al centro, di cui tanto di parla ma che oggi ancora non esiste.