“Piccoli vagabondi” rappresenta un’eccezione nella vasta produzione di Gianni Rodari, il suo primo romanzo d’impostazione neorealista, poco conosciuto e ingiustamente troppo a lungo ignorato.
È il 1952 quando Gianni Rodari, pubblica per «Il Pioniere», il primo episodio di un racconto a puntate dal titolo Piccoli Vagabondi. Solo successivamente, e cioè nel 1981, la storia venne raccolta in volume da Editori Riuniti, diventando così ufficialmente "romanzo". Si tratta di una scrittura fortemente realistica, non lascia nessun spazio alla fantasia, ma al contrario intende fornire una diagnosi lucida, della realtà e della storia nel momento stesso in cui accade.
Vera protagonista del romanzo è l’Italia post-bellica «nel suo male sociale», con le sue miserie e difficoltà, fotografata "in tempo reale" attraverso il filtro di una descrizione efficace e di sicuro impatto come quella di un vagabondaggio infantile, che di quell’Italia era una delle tante tragiche espressioni.
Piccoli Vagabondi racconta, infatti, la storia dei due fratelli Domenico (sei anni), e Francesco (nove anni), che, rimasti orfani di padre, saranno costretti ad abbandonare il loro povero villaggio tra le montagne di Cassino, per mettersi al seguito di un losco impresario, Don Vincenzo, un uomo «piccolo e piuttosto grasso» Questi, col pretesto di trovar loro un lavoro onesto che potesse in qualche modo alleviare le difficoltà economiche in cui versavano la madre e gli altri due fratellini (Beppe e Rinuccia), li manderà invece a elemosinare in giro per l’Italia. I due bambini non saranno però da soli; ad accompagnarli in questo viaggio disperato ci saranno nella parte degli antagonisti, oltre allo stesso Don Vincenzo, anche il fratello di lui, Filippo, il figlio Pio detto l’Albino (perché aveva «i capelli quasi bianchi e gli occhi quasi rossi, come quelli dei conigli» e la moglie Teresa, una «donna grassa che sembrava addormentata»; e ancora alcuni altri bambini, costretti come loro a essere "venduti" a causa delle incombenti ristrettezze economiche delle rispettive famiglie. Tra questi vi è Anna, orfana anch’essa, con la quale Domenico e Francesco condivideranno un percorso tanto lungo quanto faticoso. Al seguito del folkloristico «carrozzone di un colore giallo sporco, tirato da un cavallino bigio», i tre bambini affronteranno un difficile viaggio attraverso un’Italia ancora profondamente segnata dalle ferite della guerra; la singolare carovana farà tappa prima a Roma, per proseguire poi, una volta attraversate le Marche, in direzione dell’Emilia Romagna e precisamente della città di Ravenna; da lì proseguirà poi per Milano, nell’intento di raggiungere Torino.
Ma sarà proprio a Milano che i tre giovani protagonisti, dopo l’ennesimo sopruso subito, decideranno di proseguire da soli il loro percorso alla scoperta dell’Italia, ripercorrendo il percorso a ritroso per potere finalmente far ritorno a casa. Alla fuga seguiranno però molti imprevisti, non da ultimo la tragica alluvione del Polesine e solo dopo una lunga serie di peripezie, come ogni romanzo d’avventura che si rispetti, ciascuno di loro, scopertosi ormai veramente cresciuto, riuscirà finalmente a trovare la propria strada.
Il romanzo si colloca perciò volutamente al limite tra un romanzo storico, che ha la pretesa di essere "specchio dei tempi" e un classico romanzo di formazione o d’avventura. Si tratta tuttavia di un tipo di avventura totalmente diversa da quella cui gli scrittori per l’infanzia (e non) avevano abituato i loro giovani lettori; nel romanzo di Rodari, infatti, non si parla di vicende straordinarie, né di luoghi o personaggi esotici o misteriosi, ma al contrario di gente vera, caratterizzata da una realtà talmente degradata, che non ha proprio niente di fantastico, né tanto meno di straordinario.
È lo stesso narratore a precisarlo nel corso del romanzo, rivolgendosi eccezionalmente in prima persona ai suoi lettori:
[…] Cari ragazzi, la differenza tra questa storia e un grande romanzo di avventure sta nel fatto che qui tutto è vero dalla prima parola all’ultima. Vi sono ancora famiglie che non sanno come sfamare i loro bambini. Vi sono ragazzi che hanno per scuola soltanto la strada: una scuola dura, terribile […] In questa storia io non ho voluto raccontarvi avventure incredibili, ma come Anna, Francesco e Domenico hanno conquistato la loro forza, come essi giorno per giorno sono diventati uomini. Le avventure dei pirati sono più colorite e affascinanti, certo: ma l’avventura di diventare uomo è più bella perché è più vera[…]
Altra caratteristica tipica del romanzo risulta poi il particolare trattamento che Rodari riserva ai suoi personaggi. Tutte le descrizioni che li riguardano sono spesso sintetiche, essenziali, eppure riescono perfettamente a caratterizzare ciascuno dei personaggi principali fornendone dei tratti immediatamente riconoscibili e diversi gli uni dagli altri. Francesco, ad esempio, il maggiore dei due fratelli, viene sempre definito «forte» e descritto in due occasioni semplicemente attraverso due metafore simili che da sole bastano però a identificare con chiarezza il carattere del personaggio; la prima paragona il giovane protagonista a un capitano che abbandona la nave solo dopo essersi accertato che tutti siano in salvo. L’altra, altrettanto eloquente, lo accosta invece alla figura di un soldato che non vuole abbandonare il suo posto di combattimento. Anche per Domenico, il minore, non viene fatto alcun accenno all’aspetto fisico (a eccezione del fatto che sia monco della mano destra), ma solo al carattere; più volte nel corso del romanzo è infatti definito caparbio, risoluto, cocciuto. Anna, infine, si distingue sin dalla sua prima comparsa nel romanzo per la sua tranquillità e serietà ma anche per la sua capacità di mantenere la calma in tutte le situazioni.
A eccezione dei tre protagonisti e di poche altre figure isolate come i quattro antagonisti, per tutti gli altri occorrerebbe forse parlare più di ruoli o "tipi" sociali, che di personaggi veri e propri.
Egli è il primo, infatti, a parlare ai suoi giovani lettori dei problemi del lavoro, della povertà, dell’ingiustizia, dell’analfabetismo ora ironicamente, celandoli dietro un fine e sottile umorismo, ora in termini di esplicita denuncia.
Basti pensare alle varie Forze dell’ordine che puntualmente compaiono nel corso del romanzo (guardie, poliziotti, carabinieri) rappresentanti l’autorità, l’ordine costituito; nessuno di loro ha una propria specifica identità né un nome che li identifichi, eppure essi costituiscono, non di meno, una presenza costante in tutto il romanzo.
Così come le varie «folle» nelle quali più volte si imbattono i tre giovani protagonisti; si tratta di contadini, operai, poveri e mendicanti provenienti da ogni parte d’Italia, tutti senza un nome, tutti ugualmente anonimi, che nel complesso rappresentano la categoria sociale dei "senza voce", degli "invisibili" dei quali fanno parte gli stessi protagonisti («Siamo diventati invisibili» - osserva ironicamente Anna).
All’interno dei vari personaggi, un posto di tutto riguardo viene poi assegnato alle quattro più importanti figure femminili del romanzo: Benedetta, la madre dei due ragazzi, Livia, la «Signora di Ferrara», l’anonima maestra di scuola elementare, e infine l’altrettanto anonima moglie del contadino che ospiterà i tre bambini alla fine del loro viaggio. Particolarmente rilevante appare il fatto che le ultime tre siano volutamente distinte dalla prima, sulla base di un unico elemento discriminante.
A differenza della madre Benedetta, esse sono accomunate dal fatto di riuscire in qualche modo a fornire ai tre bambini una risposta concreta ad alcuni dei loro bisogni primari: il cibo, l’affetto e non da ultima l’istruzione, tutte cose che invece la mamma dei due, «sempre stanca e malaticcia», con «troppi dolori e pensieri per il capo» e spesso triste, non era stata in grado di garantire loro.
Tuttavia Rodari non si accontenta di sfruttare tale tematica unicamente per descrivere la generale condizione di miseria e povertà che faceva da sfondo all’intera narrazione, la utilizza invece per trasmettere un messaggio nuovo e fortemente ideologico.
Accanto alla fame, fisiologica, che pure rientra tra i bisogni irrinunciabili propri dell’essere umano, Rodari parla anche di un altro tipo di "fame", quella del sapere e della conoscenza da una parte, e quella dell’attenzione e dell’affetto dall’altra che in tal modo vengono quindi equiparati a qualsiasi altro "bene di prima necessità", tanto quanto il cibo. Non a caso, la maestra prima e la «signora di Ferrara» poi regaleranno ai tre bambini rispettivamente, un sussidiario e un pacco pieno di «giornali illustrati e album pieni di vignette colorate», per placare appunto quella loro connaturata fame di conoscenza fino ad allora rimasta insaziata.
Nello stesso modo, mostreranno poi nei riguardi dei tre bambini un’attenzione e un rispetto per loro del tutto insoliti e inaspettati, che tutte le volte si concretizzerà nel gesto simbolico della carezza.
La maestra […] non disse nulla, soltanto lo accarezzò dolcemente sui capelli. E lui [Domenico], che non poteva sopportare queste cose da nessuno, stavolta non si offese - Tornate domani – ci disse la signora, accarezzandoci con dolcezza – venite presto.
- Abbiamo fame - disse soltanto [Anna].
- Entrate, entrate, poveri ragazzi – disse la donna [la moglie del contadino] facendosi da parte.
Le sfilarono accanto, essa accarezzò Domenico sui capelli bagnati.
E così che in questa narrazione questi ragazzi, in viaggio alla scoperta dell’Italia dopo essere stati costretti ad abbandonare il loro misero villaggio fra le montagne, da Roma alla costa adriatica, da Ferrara a Milano, vivono e fanno vivere ai lettori una profonda esperienza umana e sociale. Le loro vicende si intrecciano a incontri con persone di ogni condizione e sono un’altra prova della straordinaria attenzione di Rodari ai sentimenti della gente, alle sue sofferenze, alle sue speranze. È soprattutto per questo che “Piccoli vagabondi”, mostrandoci l’Italia di ieri, ci aiuta a capire meglio quella di oggi.
Dal 23 ottobre u.s è iniziato il conto alla rovescia per le celebrazioni dell’anno rodariano, contemporaneamente ricorrono 3 anniversari: il 100° dalla nascita, il 40° dalla morte e il 50° dalla attribuzione del Premio internazionale Andersen che è considerato il Nobel della letteratura infantile. Fino al 23 ottobre 2020, in Italia ed in altre parti del mondo si svolgeranno molti incontri, iniziative per omaggiare un grandissimo intellettuale che è stato ed è parte fondamentale della storia della cultura italiana, non solo dell’infanzia, sarà un anno ricco di eventi per ricordare lui e la sua opera, ancora molto attuale e innovativa.