Tempo fa, trovandomi nel mio paese natale, ho voluto passare per la via Villabianca, a Rolo, nel reggiano (La Piazza nella foto dove ho passato i primi anni della mia vita. Ho così ritrovato la vecchia casa in cui sono nata. Appariva restaurata di recente e all’ingresso del cortile c’era un cancello, che prima non esisteva, ma c’era ancora il rustico che tanto tempo fa ospitava il porcile, il pollaio e le gabbie dei conigli.
Mi sono soffermata solo qualche minuto e mi si sono riaffacciati alla mente tanti ricordi.
In quel cortile, mia madre attingeva l’acqua dal pozzo artesiano (non c’era acqua corrente in casa) e riempiva il mastello più grande per fare il bucato grosso. Lì, io passavo molte ore a giocare a palla contro il muro o a saltare la corda sotto lo sguardo indifferente delle galline.
La casa era divisa in due dalla scala che portava al primo piano. Ci abitavamo noi (cinque figli più genitori) e un’altra famiglia (due figli più genitori). La stranezza è che noi avevamo le stanze da letto sopra alla cucina dei vicini e loro le avevano sopra la nostra, forse perché così noi potevamo usufruire di una piccola stanza in più e perché in questo modo si divideva in modo più equo l’ esposizione al sole, già scarsa perché la casa era orientata verso nord (la parte a mezzogiorno apparteneva a un’ altra famiglia).
Erano i tempi ben descritti da Guareschi, con i personaggi di don Camillo e di Peppone, e i nostri vicini avevano sul camino le foto di Stalin e di Lenin, là dove mia madre teneva il crocifisso. Questo però non comprometteva affatto i buoni rapporti di vicinato e si era sempre pronti a darsi una mano per portare a termine le operazioni più faticose.
Al secondo piano c’ era la soffitta (che noi chiamavamo “tassellmort”), dove si accumulavano via via le cose che non si usavano più, dove si sistemava la legna per l’ inverno e dove io mi avventuravo qualche volta per gioco, ma sempre col batticuore. I pavimenti della casa, in mattoni, erano molto consumati e i gradini delle scale erano addirittura stati incavati dal passaggio di chissà quanti piedi nel corso del tempo.
Ricordo che nelle sere d’ inverno a volte ci si riuniva dopo cena coi vicini: le donne sedute vicino alla stufa o al camino sferruzzavano e intanto facevano “filoss” (conversazione). Gli uomini, invece, si sedevano attorno al tavolo per giocare a carte. Io mi appollaiavo sulle ginocchia di mio padre e restavo affascinata dal codice misterioso con cui i giocatori comunicavano, non visti dagli avversari, col proprio partner: strizzatine d’occhi, la bocca che si storceva da un lato, un sollevamento di sopracciglia, una spalla che si alzava, davano indicazioni sulla carta da giocare o sulle difficoltà in cui ci si trovava in quel momento. Io naturalmente facevo il tifo per il mio papà, custodivo le carte vinte e intanto imparavo le regole del gioco, a fare di conto e a calcolare le mosse più opportune.
Nelle sere d’estate invece, ci si sedeva fuori accanto al vecchio portone: io, che ero la più piccola, restavo incantata ad ascoltare i racconti dei grandi e i loro commenti alle notizie della radio; intanto ognuno combatteva strenuamente contro l’ assalto delle zanzare, in attesa che la notte portasse un po’ di frescura nelle stanze e si potesse così prender sonno.
Ora si va a quei ricordi con la tenerezza che si prova per la nostra ingenuità, per la nostra innocenza, per quelle atmosfere serene, ma è bene ricordare che erano tempi duri, segnati da ristrettezze e fatiche ora impensabili.