“Che cos’è per te la dignità?” Chiesi a bruciapelo a Maria nel bel mezzo di un incontro dedicato agli anziani.
Seguì un bisbiglio dei partecipanti, sei o sette, non di più, che si interrogavano del perché avessi rivolto una domanda tanto impegnativa proprio a Maria, che se ne stava zitta zitta seduta su una sedia, apparentemente indifferente a tutto ciò che le era attorno. Mi accucciai accanto a lei e insistetti: “Maria, come definiresti la dignità? Con parole tue, in modo semplice”. Fece una strana smorfia con la bocca, arricciando il mento, accompagnata da un gesticolare goffo delle mani e pronunciò queste parole, scandendo bene sillaba per sillaba come sanno fare solo i sardi: “E’ difficile da dire … ma … è una cosa pulita … molto pulita”.
Nessuno di noi si aspettava una risposta del genere, qualcuno mormorò brava, qualcun altro disse che la risposta era molto bella ed io mi emozionai e sentii, come spesso mi accade, i brividi lungo la schiena.
Dovete sapere che Maria è affetta da demenza, è disorientata nel tempo e nello spazio, non è in grado di badare a se stessa né di svolgere i comuni atti della vita quotidiana, è insomma una persona totalmente non autosufficiente, eppure, sa definire la dignità con parole povere, ricchissime di significato.
Chissà quale risposta avrei saputo dare io in circostanze simili? Non riuscendo nemmeno a immaginarlo, mi affrettai a consultare il vocabolario online della Treccani che così cita: “ Condizione di nobiltà morale in cui l’uomo è posto dal suo grado, dalle sue intrinseche qualità, dalla sua stessa natura di uomo, e insieme il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e ch’egli deve a sé stesso …”. Definizione troppo complicata, direi, asettica, fredda, priva di immediatezza comprensiva, mentre quella di Maria la ascolti, la vedi, la accarezzi, ne apprezzi il profumo e ne assapori il gusto. E’ una cosa pulita, molto pulita.
Quindi Maria, nonostante riesca a guadagnare un misero punteggio al Mini Mental State Examination, sa bene cosa è la dignità, comprende quanto sia difficile definirla, si sforza di trovare la parola più opportuna per descrivere un valore che, per sua intrinseca natura, non si può apprezzare con i nostri organi di senso né si può misurare utilizzando le leggi della fisica.
Sceglie il termine pulito e detto da lei, donna sarda, determinata e onesta, che sempre ha svolto con scrupolosità i lavori di casa, moglie e madre di 5 figli, cosa c’è di più dignitoso della pulizia dentro e fuori? Che si tratti di casa o di se stesso la “cosa pulita, molto pulita” è indubbiamente cosa buona e giusta.
Qualche giorno dopo, rivolsi la stessa domanda a Orsola, 100 anni e qualche mese, ostinata, caparbia, arrabbiata col tempo che l’ha resa vecchia e cieca. Amava leggere, utilizzando un apparecchio capace di ingrandire enormemente parola per parola; amava andare su e giù, camminando a passo veloce, quasi correndo, lungo i corridoi della residenza oppure, quando il tempo lo permetteva, passeggiava in giardino, guidandosi con il corrimano. Ora è costretta ad avere bisogno degli altri, per spostarsi anche di pochi passi e questo non le piace affatto. E’ impossibile strapparle un sorriso, distoglierla dal suo canticchiare nervoso, simile al canto di un uccello in gabbia, dal suo battere ritmato e insistente sul tavolo o sui braccioli della sedia con il palmo della mano o con qualunque oggetto che riesca ad afferrare. A volte ripete per ore la stessa frase: “Non- vo-glio mo-ri-re”, scandendo sillaba per sillaba, non perché sia sarda, ma perché sia chiaro quello che vuole dire al mondo intero, quasi dovesse espiare una solitudine atavica.
Ebbene Orsola, cessando di battere sul tavolo il palmo della mano, ma mantenendo la stessa cadenza con cui urlava al mondo la frase precedente, rispose così:”La di-gni-tà è u-na co-sa im-por-tan-te … fon-da-men-ta-le …”.
Non mi accontentai e le chiesi se c’era stato qualche momento della sua lunga vita in cui aveva avuto l’impressione di perdere la dignità. Ecco le sue parole, questa volta non sillabate, ma sussurrate con sofferenza, quasi fosse una confessione: “Sì, qualche volta sì. Mi succede ora perché nessuno mi aiuta, nessuno mi considera e non posso fare quello che vorrei …”. Per un attimo ebbi l’impressione di toccare con mano quella solitudine che, probabilmente, era stata la sua compagna di vita: non si era sposata, non aveva avuto figli, tra i parenti una sola nipote già anziana che ora divide il proprio tempo disponibile accudendo la madre, anch’essa centenaria e venendo, una volta alla settimana, a trovare la zia.
Per Giuliana, invece, la dignità è una cosa innata, naturale che nasce e viene lì per lì. Le chiesi di raccontarmi qualcosa che avesse a che a fare con la dignità e subito iniziò a parlare di lei e della sua vita: ”Ho lavorato tanto, avevamo un negozio di sartoria, facevamo pantaloni, giacche e cappotti. Ero modestamente una brava sarta. Le ragazze venivano per niente e stavano lì a imparare, perché io le insegnassi. Mia mamma aveva aperto la sartoria, si chiamava Anchelita, era una donna intelligente che non aveva alcun titolo di studio ma ne sapeva più di tutti gli altri. Mio papà me lo ricordo appena, aveva 36 anni quando è morto. Ho un fratello e una sorella, forse erano due i fratelli, ora ho un po’ di confusione …”.
Mi guardò per pochi istanti, pensierosa, poi, mentre io ero convinta si fosse dimenticata della domanda iniziale, proseguì il suo discorso: “La dignità è essenziale per il proprio io, può sembrare egoistico, ma in casa mia anche mia mamma, che era una donna semplice, non avrebbe mai provato nemmeno a dire una bugia. La dignità un po’ si può insegnare, ma deve nascere da qui”. E così dicendo si portò solennemente la mano al cuore.
Mi sembra, a questo punto, superfluo dire che sia Orsola, seppur giustificata dalla veneranda età, sia Giuliana, affetta da morbo di Alzheimer, non raggiungono un punteggio “dignitoso” al Mini Mental State Examination. Così come Carmen che sostiene che la dignità è difficile da definire, ma comunque è una cosa importante, molto importante. Le sue parole sono accompagnate da una mimica facciale e corporale che non lasciano ombra di dubbi sulla piena interiorizzazione del concetto.
A me sorgono, come al solito infinite domande accompagnate dalle immagini impresse nella mia memoria di esperienze vissute. Anni fa assistetti casualmente ad una scena che mi fece molto male, anche perché sono certa che episodi del genere non rappresentino l’eccezione, bensì la regola nella maggior parte delle strutture “dedicate” agli anziani. Gli ospiti erano il fila per il cambio dei pannoloni lungo il corridoio con il quale si accedeva ai bagni, qualcuno in carrozzina, qualcuno in piedi in attesa del turno. Tra le donne, un unico uomo, non ancora settantenne, entrato in residenza pochi giorni prima e proveniente dal reparto di Psichiatria dove era stato ricoverato d’urgenza per un delirio acuto con grave agitazione psico-motoria. Per plausibili motivi era stato trattato con farmaci sedativi a dosaggi elevati e, non appena era stato possibile, sottoposto alle indagini clinico-strumentali per formulare un’ipotesi diagnostica dell’accaduto, considerato che fino ad allora, il signore, di cui non riesco a ricordare il nome, non aveva mai avuto antecedenti che potessero far prevedere un episodio di tal fatta. L’etichetta fu quella di “Delirio in demenza vascolare”. Fu valutato dai servizi sociali, ritenuto pericoloso per sé stesso e per gli altri e dal momento che aveva da poco superato l’età di 65 anni, penso io, e forse era anche disponibile un posto convenzionato con l’ASL, è stato inviato in una residenza protetta/RSA direttamente dal reparto ospedaliero. Nessuna chance gli è stata data, anche se un delirio, come ben noto, può capitare a chiunque, e magari non ripetersi mai più, esattamente come la febbre.
Ritornando alla deplorevole immagine fissata nella mia mente, il signore di cui non ricordo il nome, in fila tra le carrozzine, inebetito dalla situazione, forse, più ancora, che dai farmaci, opponeva discreta resistenza all’operatrice che cercava di calargli i pantaloni con assoluta indifferenza e senza il minimo preavviso: non uno sguardo, un sorriso, una strizzata d’occhio, una pacca gentile che, come cenno di scuse, facesse sentire lo sventurato un po’ meno a disagio e gli facesse comprendere che si trattava di una necessità temporanea finalizzata all’igiene della sua persona.
Come spesso succede, mi chiesi come avrei reagito io in una situazione analoga e l’unica conclusione alla quale sono arrivata è stata che con buona probabilità avrei iniziato a inveire parolacce in straniero (ne conosco alcune in spagnolo e in polacco) che, per una sorta di falsa creanza, riescono a gratificarmi di più rispetto a quelle di madre lingua.
Evidentemente Il signore era proprio un buono, un remissivo, una persona cordiale perché non proferiva verbo, mentre cercava di ricomporsi gli abiti con gli occhi pieni di stupore. Perché mai avrebbe dovuto permettere che gli calassero i pantaloni, gli strappassero di dosso il pannolone bagnato, per infilargliene un altro asciutto, nell’anticamera del bagno, con la porta aperta, senza alcun ritegno per il suo innato senso del pudore? Per difendere una dignità ormai perduta, cercava di opporsi a chi a tradimento tentava di spogliarlo, ma con gentilezza e rispetto, lui sì, mentre l’espressione del suo viso, sofferente e incredula, sembrava urlare al mondo “Perché merito questo?”.Mi fermo qui per non intristire i lettori e, dal momento che sono una incallita ottimista, cambio immagine nella mia mente e vi racconto di Nella che recentemente ci ha lasciati all’ età di 101 anni, 10 mesi e qualche giorno.
Nella è sempre stata una forza della natura, ha sempre avuto cura della sua persona, sia per quanto riguarda la performance fisica, sia l’aspetto esteriore. Ci teneva molto ad avere le unghie delle mani e dei piedi in ordine, ben smaltate e, siccome, aveva pochi capelli, portava, per tutto l’anno, una bandana di cotone o un berretto di lana stando ben attenta agli abbinamenti di colore con il vestiario . Quest’estate sfoggiava con orgoglio un paio di sandali infradito, tutti luccicanti di paillettes sostenendo che se li poteva permettere considerato che i suoi piedi erano rimasti tali e quali come quando era adolescente. In fondo poi, aveva solo poco più di 100 anni.
Nella era così, fiera, volitiva, aveva sempre la battuta pronta e non le sfuggiva nulla, ma la cosa incredibile è che aveva persino convinto l’ispettrice dell’ASL, nota per la sua disinvoltura nell’ appiccicare etichette di demenza a destra e a manca, al fatto che, ammesso che avesse un certo grado di perdita di memoria, questa era comunque inferiore a quella del direttore generale della stessa ASL. Battuta sì, anche se, a mio parere, piuttosto infelice, ma la dice lunga sul carattere e sulla caparbietà della centenaria.
Purtroppo un evento inaspettato e non affrontabile con altre terapie se non quelle palliative, ha costretto Nella a letto negli ultimi 40 giorni di vita: il suo stomaco e tutto l’ intestino avevano deciso di non funzionare più, in disaccordo con gli altri organi, cervello compreso, che invece non davano alcun segno di cedimento.
Poche settimane prima di morire, andai a farle visita e la trovai intenta a pettinarsi, semiseduta sul letto. Non resistetti e scattai una foto col cellulare, poi mi avvicinai a lei, le dissi che era bella e le chiesi come si sentiva. Mi rispose che stava abbastanza bene e che si stava aggiustando un po’ e lo faceva per la sua dignità. Mi complimentai e le chiesi se potevo scattarle una foto più da vicino. Acconsentì.
Le immagini che vi mostro, più che qualunque altra parola o definizione, ci fanno comprendere che la dignità non ha età e va ben oltre la malattia e la morte.
Mi chiedo allora: privare qualcuno della propria dignità non è un atto di violenza?.
Nell’immaginario collettivo, quando si parla di abusi nelle case di riposo o nelle strutture psichiatriche, il primo pensiero va ai maltrattamenti fisici, seguono le ingiurie verbali e poi in ultimo le pressioni psicologiche. Raramente si pensa che l’indifferenza o l’apatia con cui alcuni operatori si rivolgono all’altro possono fare danni enormi e dare l’avvio ad un circolo vizioso che aumenta la prescrizione di farmaci, quasi sempre sedativi, e peggiora enormemente la qualità della vita.
I vecchi, deteriorati di mente o no, hanno bisogno di essere considerati, accettati, stimati e tutti noi che gravitiamo intorno al loro ristretto mondo, qualunque sia il nostro compito, dobbiamo sempre tenere a mente che sono capaci di cogliere le inflessioni della nostra voce, le espressioni del nostro viso, i movimenti e gli atteggiamenti del nostro corpo perché sono molto competenti in emozioni e sentimenti.
Se li trascuriamo perché pensiamo ai fatti nostri, se ne accorgono, eccome. Se li ridicolizziamo per i loro atteggiamenti, si irritano o si deprimono. E così se li costringiamo a stare seduti quando vorrebbero camminare o li forziamo a mangiare quando non hanno fame, a urinare o defecare in un momento piuttosto che in un altro. La vita di comunità impone delle regole, ovviamente, che vanno rispettate altrimenti è il caos, ma la regola principale, alla quale bisogna sottostare, sempre e comunque, è quella di considerare i nostri vecchi delle Persone, con la P maiuscola. Persone capaci di scegliere cosa è meglio per loro e di accettare quello che non è possibile fare, capaci di apprendere nuovi comportamenti e di insegnarcene altrettanti, capaci di vivere emozioni, di soffrire e disperarsi, così come di godere della bellezza della vita. E tutto questo dipende da noi che li assistiamo, perché questa e solo questa è dignità.