“E’ la mia borsetta, ho dentro le mie cose!” risponde disperata Silvia ad un solerte operatore che le annuncia che è arrivata l’ora del pranzo e che è il caso di sistemarsi in modo corretto alla tavola già apparecchiata.
Insomma, tenere la borsa in grembo mentre si mangia, tanto più a 98 anni compiuti, è certamente d’impiccio, e poi chi mai potrebbe rubarla in una casa di riposo?
Semplice e logico posizionarla accanto alla sedia o appenderla allo schienale.
E invece no. La centenaria non la molla, la nasconde nell’incavo prodotto dalla sua schiena curva difendendola ai lati con entrambe le braccia e avvinghiandosi alla tracolla con le mani rattrappite ma forti.
Altre immagini si sovrappongono nella mia mente: Emma, Rebecca, Gina, Maria, Giuseppina ognuna con la proprio borsetta, spesso consumata dagli anni e dalla polvere, contenente oggetti di nessun valore: fazzoletti di carta, pezzi di pane, carte di cioccolatini, caramelle, pettini, il tutto buttato sul fondo in ordine sparso.
Eppure, guai a chi tenta di portargliele via, guai a chi tenta di rovistarvi dentro: la borsetta è proprietà privata e come tale inviolabile.
E quando non la trovano? Ho letto nei loro occhi la disperazione più profonda e osservato le loro reazioni: c’è chi si chiude in un silenzio abissale, chi inveisce contro il presunto ladro che se ne è appropriato, chi piange disperata in un cantuccio, chi si aggira frettolosamente tra le sedie e le carrozzine e controlla ogni angolo dove possa essere stata buttata.
Raramente ho avuto la sensazione che gli operatori di assistenza, famigliari compresi, abbiano piena coscienza della gravità del problema, del dramma che la persona sta vivendo in quel momento.
Ho sentito maldestri tentativi di rassicurazione con frasi del tipo: “Ma dai, vedrai che la troviamo, in fondo era rovinata, non hai perso niente di prezioso!” oppure “Ma cosa te ne fai della borsetta? Qui hai tutto ciò che ti serve!”.
Questo non è rispetto, mi sono detta mentre mi scorrevano i brividi lungo la schiena. Per rassicurare bisogna accogliere la sofferenza altrui, farsene carico e cercare di porvi rimedio, non certo ridicolizzarla o anche solo sminuirla, per quanto futile ci appaia la motivazione.
Penso alle piccole cose alle quali nel corso della vita mi sono affezionata, prive di valore oggettivo, ma ricche di significato per me. Non è forse questo che conta? A qualunque età? A qualunque livello di scolarizzazione? In qualunque parte del mondo?
Ricordo un anello, una schiavetta di metallo, che ho vinto ad una caccia al tesoro all’età di circa 14 anni. L’ho conservata per anni e anni e chissà, forse esiste ancora in qualche angolo recondito della casa. Mi piaceva moltissimo, senza nessuna particolare ragione.
Ricordo una pietra, raccolta nello Sri Lanka, ben oltre 40 anni fa ed un elefantino, questo più recente, che mi è stato donato con singolare dolcezza da un giovane immigrato senegalese, almeno così credo, dal colore della pelle, nonostante insistessi col dirgli che non avevo monete da poterlo comprare. Di elefantini del genere ce ne sono milioni al mondo, eppure al mio ci tengo e lo conservo gelosamente come porta fortuna.
Chissà se nei corsi per operatore socio-sanitario insegnano che le cose, apparentemente di poco conto, possono assumere un valore altissimo, per tutti, figuriamoci per i vecchi, specie per quelli costretti a vivere in una comunità ?
Ogni qualvolta un OSS mi fa domande relative agli esami che deve sostenere, si tratta costantemente di precisazioni inerenti le malattie, soprattutto le demenze o le procedure di cura, come le lesioni da decubito o la corretta gestione dei presidi sanitari, come il catetere vescicale o la PEG, mai le domande si riferiscono all’essere umano, alla persona capace di pensare e di emozionarsi, di provare pudore, rabbia, esasperazione ma anche amore, entusiasmo, solidarietà , a prescindere dall’etichetta che la società medicalizzata le ha appiccicato addosso.
Il dubbio mi pare legittimo: o non lo insegnano per niente che devono avere a che fare con delle persone o non lo sottolineano abbastanza al punto che la cosa passa in secondo piano o non viene recepita affatto.
Lo spiega bene Tom Kitwood, nel suo libro “Riconsiderare la demenza” al capitolo 1: Essere una persona, quando dice: “[…]Immaginate una vecchia bilancia. Mettete gli aspetti dell’essere persona su un piatto e gli aspetti della patologia e del deterioramento sull’altro. In quasi ogni ambito del pensiero convenzionale che abbiamo ereditato, la bilancia vede pesare in modo molto maggiore il secondo piatto. Non c’è un motivo logico per questo, né si tratta di un’inferenza scaturita da dati empirici. E’ semplicemente un riflesso dei valori che sono prevalsi e delle priorità che si sono tradizionalmente affermate nella valutazione iniziale, nella pratica dell’assistenza e nella ricerca. E’ giunto il tempo di far pesare con decisione il primo piatto della bilancia e di riconoscere gli uomini e le donne con demenza nella loro piena umanità “.
Sante parole! Come posso non essere d’accordo?
Comprendere che la borsetta di Silvia è così preziosa per lei, non può essere altro che di aiuto per stabilire una buona relazione, per conoscere il suo stato d’animo, per farla sentire capace di esprimere le proprie emozioni, in altre parole per farla sentire viva.
Mi pare cosa semplice. Eppure non raramente, se non è il caso di Silvia, in altri luoghi ed altri tempi, ho assistito a tristi situazioni che vorrei non si ripetessero più. Ho visto sequestrare borse perché sgualcite o sporche oppure rovistarle alla ricerca di tracce di cioccolata o caramelle sottratte furtivamente dall’interessata alla quale era vietata l’assunzione per la sola colpa di essere o di essere stata, forse un giorno, diabetica. Anche se centenaria, poco importa. Le puntate glicemiche vanno prevenute e i dolci sono tassativamente vietati.
Ma non è preciso dovere del medico consigliare la dieta agli ospiti delle case di riposo? Mi chiesi il giorno che trovai una barretta e mezza di cioccolata sulla mia scrivania con appuntato un foglietto di carta scritto in stampatello: “ TROVATA NELLA BORSA DELLA SIG.RA GIULIA CHE NON PUO’ MANGIARLA “.
Non ricordo come reagii, ma ricordo bene i brividi nella schiena.
Ma perché Silvia è così legata alla sua borsa? Mi chiedo oggi, stimolata da alcune riflessioni di Maria Grazia che sta frequentando un corso di “animatore geriatrico”.
Chi meglio di Lei può dare una risposta?
Così, stamattina, con estremo garbo, per non attizzare la sua ben nota suscettibilità, chiedo a Silvia se può fermarsi a chiacchierare con me, nella stanza accanto alla direzione, in modo da rimanere un po’ appartate.
“Perché vuole che stia qui, chi è Lei?”
Sono la dottoressa, rispondo io, quella del Morando.
“ Io non vedo e non capisco e poi devo andare da mia mamma che era al ricovero, ma l’ho portata via perché non si trovava bene e sono andata a vedere in un altro posto, ma neanche quello mi piaceva.
Ha mica una caramella? No, lasci stare, preferisco andare in piazza dal Sig. Venturelli che c’è mia mamma in macchina che mi aspetta”.
Mentre le porgo un cioccolatino, trafugato dall’armadio della direttrice, le chiedo perché si tenga sempre stretta al petto la sua vecchia borsetta.
“Per me la borsetta è tutto, un’amica.
C’è il ventaglio che mi ha regalato mio marito quando eravamo fidanzati.
Il resto non è niente di importante, fazzoletti, un pettine, un altro pettine, una matita ed una limetta per le unghie, ma per me è tutto, c’è tutta la vita.
La borsa è rotta ma non la cambierei con una nuova.
Avevo gli occhiali e le chiavi di casa dentro la mia borsa ma ora mi hanno portato via tutto. Si vede che quando andavo a dormire, mi prendevano la borsa, non so chi sia stato perché se io dormivo non potevo vedere. I clienti non portano via le borse, dunque sono le signorine.
C’erano dentro anche le forbicine, tutto lì.
Se muoio … la voglio nella cassa da morto.
Ne avevo tre fatte così, era una borsa grande che ho tagliato e ne ho fatto tre. Una ce l’ho, le altre non so.
Io sono molto attaccata alle cose, mi affeziono. Non è bello. Perché si soffre e poi, nel bisogno, non c’è mai nessuno.
Sono nata il 26 settembre 1918 o 17, non ricordo, ho 97 o 98 anni, li ho fatti l’altro giorno. Sono giovane, no???
Peccato che non ho più la memoria, l’ho persa in questi ultimi dieci giorni. Tante cose importanti, però, per fortuna me le ricordo.
Ho perso la vista e non è che sento poco, è che se uno parla svelto non capisco. Parlate italiano, ma io sono di Borgomanero, in provincia di Novara. Mio papà è mancato che aveva 31 anni ed io 5 mesi e mia mamma non si è più sposata. Sono cresciuta con i nonni.
La mia vita è tutta qui, dentro questa borsa: il ventaglio, la matita, la limetta per le unghie.”.
Queste sono le sue testuali parole. Le parole di una Persona di 98 anni che deve raggiungere al più presto la mamma che la sta aspettando in piazza insieme al Sig. Venturelli.
E’ venuto tardi, Silvia deve andare. Mentre l’accompagno in salone, mi prende la mano, avvicina il suo volto al mio e mi sussurra: “Grazie”.