Ho iniziato a vivere in pianta stabile nel Tigullio orientale dall’ottobre del 1980, avendo ottenuto un trasferimento dal reparto di Nefrologia del San Martino a quello di Emodialisi dell’USL 18 che a quei tempi era ubicato nell’Ospedale di Lavagna. Con al seguito mio figlio di 13 mesi, un gatto di nome Pink e saltuariamente il mio primo marito che lavorava a Genova, dal quale di lì a poco mi separai.
Conoscevo Cavi di Lavagna, essendoci stata più volte durante le vacanze estive, ma le mie relazioni non andavano oltre a quelle tenute con i gestori dei bagni o di qualche pizzeria o campo da tennis.
Ricordo bene però che, quando ho iniziato ad abitare a Chiavari e, alcuni anni dopo, a Lavagna, sono stata immediatamente informata dell’esistenza di alcune famiglie ritenute in qualche modo collegate alla mafia, che svolgevano attività nel territorio, piuttosto radicate.
Non ho tenuto a mente chi mi avesse informato, né in quale circostanza ma ricordo che mi sono stati fatti nomi e cognomi, raccomandandomi di prestare attenzione, così, in modo generico, perché se mi fossi imbattuta in qualcuno di loro per un qualsiasi motivo, avrei potuto trovarmi in difficoltà. “Dicono che Tizio piuttosto che Caio … piuttosto che Sempronio siano implicati in quella cosa, detengano il potere in quell’altra e che sia meglio averli amici che nemici ecc." . Ecco, era grossomodo questo il tenore dei discorsi che trapelavano nelle piazze o nelle spiagge.
Non che mi fossi preoccupata più di tanto, considerato che, tra il lavoro che fortunatamente mi ha sempre appassionato, la famiglia, divenuta di lì a poco numerosa avendo avuto altre due figlie gemelle dal mio secondo marito, extracomunitario per anni prima di poter acquisire la cittadinanza italiana, non avevo certo né il tempo né la voglia di occuparmi delle dicerie di paese.
Sapevo, per sentito dire, delle diatribe che esistevano fra le amministrazioni che si sono succedute e il bar che si affaccia nella piazza del mercato per via del permesso di occupare con veranda e tavolini una parte del terreno pubblico e ho visto con i miei occhi che per certi periodi la veranda era più grande, in altri periodi era stata ridimensionata, ma niente di più. Insomma io al bar andavo, come tanti altri, per prendermi un caffè o un cappuccino senza la minima intenzione di mettere il becco, anche fosse solo per simpatia o antipatia dell’uno o dell’altro, in questioni che nulla avevano a che vedere con la mia presenza a Lavagna come cittadino e medico ospedaliero.
Fra l’altro devo dire che, nel corso degli anni, raramente mi è capitato di avere a che fare con persone dai cognomi sospetti. Solo una volta ho avuto un incidente stradale con una ragazzina che era caduta dal suo scooter per una manovra azzardata. Era inequivocabilmente colpa sua e, per fortuna, non si era fatta nulla di grave. Ebbene, poiché la ragazzina di cognome mi pare facesse Sempronio, gli amici più stretti mi avevano raccomandato di stare molto attenta a fare le cose per bene e di evitare polemiche di alcuna sorta perché era meglio essere prudenti. La raccomandazione, allora, mi lasciò indifferente, e il fatto che andò tutto liscio come l’olio, rafforzò in me stessa la convinzione, in parte innata, che il diavolo non è mai così nero come lo si dipinge.
Anni dopo dovetti ricredermi da questa convinzione perché mi ritrovai coinvolta, mio malgrado e, ora lo posso affermare con sicurezza, malgrado molti altri, in una vicenda talmente complessa e inafferrabile in quanto inimmaginabile che si concluse con il mio licenziamento dall’ASL per infedeltà, insubordinazione e disubbidienza ai superiori gerarchici.
Accuse gravissime, infamanti che proprio non riuscivo a comprendere. Infedele a chi o a che cosa? Io che da sempre e quotidianamente mi sono interrogata sul significato dell’essere medico, che ho sentito e, fortunatamente ancora sento, vivo in me il giuramento di Ippocrate? Proprio non riuscivo a capire e allora studiavo: la deontologia, la legislazione, la normativa, i contratti di lavoro, il ruolo delle istituzioni, dei sindacati e quant’altro permea la società e, nel contempo, approfondivo sempre di più il significato delle parole che esprimono concetti e valori come responsabilità, responsabilizzazione, condivisione, gestione e tante altre che pullulano sulla bocca di manager, politici, esponenti di rilievo di tutti i tipi e in tutto il mondo.
Dimenticavo: le mie riflessioni, con tanto di dati, le avevo scritte in una lettera dal titolo ”La formula magica per guarire la sanità” che avevo inviato a quelli che ritenevo i miei superiori gerarchici, cioè quelli che erano deputati all’organizzazione del Sistema Sanitario Nazionale. Ammetto, forse l’ho presa un po’ alla larga, ma si trattava del presidente dell’Unione Europea, del presidente della Repubblica, del Ministro della salute, del Presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici, del Presidente dell’Ordine dei Medici della provincia di Genova, del presidente della Regione Liguria, dell’Assessore Regionale alla Sanità.
La cosa non piacque per nulla e fui messa al pubblico ludibrio e licenziata in tronco.
A pensarci ora, in realtà, come si può facilmente intuire dal titolo, avevo implicitamente trattato i miei diretti superiori gerarchici, quelli dell’ASL di appartenenza, tanto per intendersi, non solo da incapaci, ma e soprattutto da disonesti. Fermo restando che sul concetto di responsabilità del medico non ci trovavamo affatto d’accordo e il comportamento che, per me, meritava un elogio, per la controparte era invece testimonianza di ostruzionismo e di mala condotta nei confronti dell’azienda. In altre parole, se gli obiettivi sono diversi, le linee di comportamento decorrono parallele senza alcuna possibilità d’incontro fino all’infinito.
Facile e altrettanto intuibile la linea di condotta dell’ASL: solo una pazza scatenata, arrogante e presuntuosa, motivata da sete di potere o rivalse personali, avrebbe osato mettersi contro il sistema. Così, per il mio comportamento, fui considerata indegna, d’ora in avanti, di ricoprire cariche pubbliche, tradotto in altri termini, di lavorare in ospedale.
Il detto “Il diavolo non è poi così nero come lo si dipinge” era un’enorme baggianata. L’avevo sperimentato sulla mia pelle.
Preciso subito, per non essere fraintesa, che per diavolo intendo il sistema, più o meno limitato o allargato, comprendente tutti i sottosistemi implicati nelle diverse circostanze. Non c’è alcun riferimento in questa mia riflessione alle persone fisiche né al ruolo che esse svolgono, persone che restano intrappolate nelle maglie della rete e ne subiscono gli effetti che vanno ben oltre a quelli che gli stessi singoli individui possono prevedere.
Ma cosa s’intende per sistema? La domanda è d’uopo.
Secondo la teoria generale dei sistemi di von Bertalanffy, un sistema può essere definito come un complesso di elementi interagenti, cioè connessi da relazioni, in modo tale che il comportamento di un elemento è diverso secondo il tipo di relazioni. Un minimo cambiamento in un elemento del sistema può comportare un'alterazione catastrofica in tutto il sistema.
Di questa teoria quello che più mi affascina è il mistero delle proprietà emergenti che sono quelle proprietà che sorgono nei sistemi complessi, in modo spontaneo e non prevedibile attraverso lo studio analitico dei singoli componenti.
Un esempio calzante è questo: un neurone non pensa. Cioè, per quanto possiamo approfondire le conoscenze sui singoli neuroni non scopriremmo mai che un insieme di neuroni possa generare un pensiero.
Riporto a questo proposito un altro esempio di proprietà emergente: la vita.
Gli autori Capra e Luisi, nello stimolante libro dal titolo “VITA E NATURA – UNA VISIONE SISTEMICA”, ipotizzano appunto che la vita possa essere considerata una proprietà emergente che insorge nell’interazione di tre domini: l’ambiente, la cognizione e l’unità autopoietica.
La diapositiva sottostante, presentata in una mia relazione dal titolo “Medicina alternativa o medico alternativo?” è la sintesi estrema del loro pensiero e del concetto di Bateson e Maturana di “mente incorporata”.
Mi accorgo che sto divagando e sto perdendo il filo del discorso.
Cerco di riprenderlo immediatamente sostenendo che la complessità è tutt’altro che cosa semplice e la matassa delle relazioni è talmente ingarbugliata che discernere quale sia il filo della complicità, della frode e della disonestà da quello della buona fede, dell’ingenuità, della fiducia o della paura, non è né facile né scontato.
E’ vero però che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Di questo sono ancora convinta. E la pentola senza coperchio prima o poi è destinata a traboccare vuoi inclinandosi, vuoi rovesciandosi del tutto, vuoi perché il fondo, per via dell’usura, si deteriora e non tiene più. E’ necessario, ovviamente, che la pentola contenga qualcosa altrimenti che motivo avrebbe, il diavolo, di costruirle?
A questo punto sono convinta che chi leggerà questo mio delirante scritto, non avrà dubbi sulla correttezza della sentenza emessa dalla corte di appello di Genova, anni or sono, anzi probabilmente, sosterrà che sono stati magnanimi.
Ma torniamo alla motivazione che ha scatenato questa mia riflessione, che sono le vicende attuali che hanno sconvolto il comune di Lavagna e che hanno ipotizzato infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione.
Sindaco, un consigliere, un’ex parlamentare agli arresti domiciliari; altri politici indagati; in carcere gli esponenti delle famiglie ritenute appartenenti all’ndrangheta.
Accuse gravissime, diffamanti, umilianti, anche quelle degli amministratori: voto di scambio, abuso d’ufficio.
Che c’entra con la storia del mio licenziamento? Non lo so nemmeno io, ma quanto successo ha aperto una ferita nel mio cuore che credevo rimarginata al punto di non ricordarmela. Mille domande alle quali non so dare risposta sorgono spontanee nella mia mente.
Come è possibile che siano necessari tanti anni perché si passi dal sentito dire all’essere presunti pericolosi mafiosi? Al punto di rendere necessario gli arresti anche di coloro che negli ultimi tempi hanno avuto contatti?
In questi 40 anni in cui i presunti malavitosi hanno lavorato, pagato le tasse, mandato i propri figli a scuola, in Chiesa, votato nei seggi elettorali, insomma vissuto attivamente nella società che li ha accolti, quali altre persone, consapevolmente o ingenuamente, per opportunità e convenienza, o per intimidazione e ricatto, sono state compiacenti o vittime della loro prepotenza?
Riuscirà la magistratura a dipanare una matassa i cui bandoli, di diverso colore, sono aggrovigliati a tal punto da formare una massa rigida indissolubile?
Perché proprio ora? E il giorno dopo le elezioni amministrative in diverse regioni? Una semplice casualità?
Oppure nella matassa si nascondono fili invisibili capaci di annodare, stringere, strangolare anche i fili più resistenti al tempo e all’usura, quelli basati sulla onestà, sul rispetto, sulla solidarietà, sulla speranza, sulla fiducia?
Tante altre domande mi si aggrovigliano in testa, tristi e inquietanti, ma subito mi rinfranco pensando alle mie radicate convinzioni: l’onestà paga sempre, anche se talvolta con grande ritardo.
Trasformare l’umiliazione in orgoglio è possibile, lo so bene, ma ci vuole tempo.
Chi è onesto trionferà perché il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
Giudici, magistrati, andate avanti! Confido in voi perché è troppo importante saper distinguere l’aiuto dal sopruso, l’umiltà dall’arroganza, la debolezza dalla prepotenza, il coraggio dalla paura.
Bisogna fare presto a rovesciare la pentola e bisogna farlo bene perché, se contiene acqua bollente, chiunque si può scottare e farsi molto male, anche se, con questa faccenda, ha poco o nulla a che vedere.