Maria è una signora sarda di 85 anni, minuta, di bassa statura, con occhi profondi capaci di scrutarti al punto di metterti in imbarazzo; il suo sguardo è attento, si direbbe impossibile coglierla di sorpresa o in fallo per qualunque piccola malefatta; il suo sorriso, spesso appena accennato, è misterioso quanto il suo volto, vivace, contornato da capelli bianchi, lisci che scendono a caschetto fino a coprirle le orecchie. Non dice mai cose a sproposito, ci pensa bene e le scandisce con il tipico accento che caratterizza i nativi della nostra bella isola. Eppure Maria è da tempo affetta da demenza, su base vascolare, almeno così citano i referti medici, e tre anni fa, per l’impossibilità da parte dei familiari di offrirle un’adeguata assistenza a casa, è entrata in un istituto ad hoc, precisamente una residenza sanitaria assistenziale, dove è vissuta fino a 20 giorni fa.
La storia inizia proprio lì, da quell’ingresso nella struttura che avrebbe dovuto garantirle l’assistenza e rendere la qualità della sua vita migliore.
Maria deve essere aiutata a lavarsi, a vestirsi, va sorvegliata durante il pasto, va accompagnata in bagno, fa uso precauzionale di pannolone giorno e notte; la scheda AGED che valuta il bisogno di assistenza nei comuni atti della vita quotidiana la colloca al gradino più alto, se non altro per quel grave deterioramento cognitivo che la rende inaffidabile nella scelta delle sue azioni. Il suo marchio indelebile è NAT ( Non Autosufficiente Totale) e, come tale, paga la retta più alta senza alcun contributo dell’ASL o del comune per motivi di reddito familiare.
Maria, però, non ha minimamente perduto l’abilità di essere un’ottima camminatrice: le sue gambe si muovono sicure e rapide, senza bisogno di bastone o di altri ausili e sono capaci di salire e scendere le scale in modo spedito. Sarà perché le piace, o semplicemente perché è abituata a farlo, ma questa è una realtà inconfutabile. È pure riuscita a prendere il massimo dei voti al test di Tinetti, equilibrio e andatura, test utilizzato per valutare il rischio che una persona ha di cadere in base alla sua performance fisica. Il risultato è inequivocabile: basso rischio.
Ma ahimè la sfortuna che è sempre in agguato fa sì che dopo pochi mesi di istituzionalizzazione, Maria scivoli dalle scale e si fratturi un polso. Riabilitazione difficile, dicono i referti medici: la paziente non è collaborativa.
E’ dovere degli operatori tutelare, in primo, la sicurezza dell’ospite che, in questo caso, si può ottenere solo impedendo a Maria di camminare autonomamente, tanto più che non ha mai avuta alcuna intenzione di aiutarsi aggrappandosi al corrimano o alle ringhiere delle scale. Per quale motivo avrebbe dovuto farlo, considerato che il suo equilibrio e la sua andatura sono perfetti? E’ il mio primo pensiero da incallita maratoneta, poi, entrando repentinamente nel ruolo di responsabile sanitaria, me ne sorge un altro: e se cade un’altra volta e si rompe la testa?
Nell’ organizzazione attuale che è alla base dell’assistenza agli anziani questi problemi etici sono quotidiani, li ho vissuti anch’io, per anni, sulla mia pelle, se non altro perché, nella pratica spicciola, è molto più facile attribuire delle colpe piuttosto che condividere delle responsabilità. E’ questa una premessa indispensabile per non essere fraintesa, essendo la mia riflessione ben lontana da qualunque critica alle azioni intraprese dai colleghi per evitare che Maria cadesse una seconda volta.
Che altro potevano fare nel contesto di un’istituzione che conta 120 posti letto ed è suddivisa in tre piani, con spazi immensi, se non utilizzare una contenzione che le impedisse di muoversi quando era seduta e alzare le sponde del letto durante il riposo? I familiari avevano protestato, ma non potevano certo pretendere che fosse guardata a vista da un operatore 24 ore su 24 , sicché erano giunti a un compromesso: era possibile slegarla e farla camminare solo in presenza di una persona a essa dedicata, familiare o badante che fosse. La facciata etica era salva: in fondo un po’ di colpa ce l’aveva anche Maria per la sua testardaggine di salire e scendere le scale o di vagare senza scopo nella struttura, invece di starsene buona seduta su una sedia a guardare il soffitto o il pavimento.
Maria aveva provato a muoversi lo stesso, spostandosi in avanti a piccoli balzi con sedia annessa e con il rischio di farsi ancor più male cadendo faccia in giù . Era necessario limitarle anche questi movimenti. Come? Nell’unico modo possibile che consiste nella somministrazione di farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale e producono, in primo, un effetto sedativo e, a medio e lungo termine, anche altri nefasti effetti con inevitabile peggioramento della performance cognitiva e fisica.
Tra un rischio e l’altro, c’è sempre qualche rischio di maggior peso nell’immaginario collettivo e senza dubbio nelle residenze per anziani e nella società intera il rischio di cadere e fratturarsi qualche ossa o ancor peggio cranio e cervello, organo nobile anche se deteriorato, è il rischio che gode di maggior quotazione.
Così Maria, “contenzionata” fisicamente e farmacologicamente, passava i suoi giorni nell’attesa che arrivasse qualcuno che la slegasse e le permettesse di sgranchirsi le gambe, accompagnandola in bagno, o negli spazi esterni o anche solo percorrendo piccoli tratti dei corridoi dell’enorme struttura. Per contro, i familiari, che si adoperavano per assisterla al massimo delle loro possibilità, trascorrevano le ore della giornata con la preoccupazione di correre da lei, slacciarle la maledetta cintura pelvica, aiutarla ad alzarsi, tenerla sottobraccio mentre accennava i suoi eterni primi passi e strapparle quel sorriso sornione che la caratterizzava. Sapevano che Maria piangeva, in silenzio, su quella sedia, capace solo di compiere movimenti pendolari del tronco, in avanti e indietro, ora lenti, ora più rapidi, ma sempre ritmici e alienanti, mentre, nel frattempo le dita inattive delle sue mani s’irrigidivano al punto di non essere più in grado di tenersi al corrimano, qualora ce ne fosse stata necessità.
Ora è con noi, in casa di riposo. Il trasferimento è avvenuto a seguito di circostanze del tutto insolite, legate comunque all’ inveterata abitudine di esprimere le mie opinioni senza troppi peli sulla lingua, opinioni non sempre gradite in ambito sociale, in quanto ritenute scomode e provocatorie.
Maria (nella foto con la nipote, dopo il trasferimento in Casa Morando) sa come si chiama, quando è nata e dove si trova, ma ha qualche difficoltà nell’orientamento temporale, anzi non riferisce né il giorno della settimana, né il mese, né l’anno e neppure la stagione, cosa che a me pare del tutto naturale considerato il tempo di permanenza in un istituto dove ogni giorno è esattamente uguale a quello precedente o a quello successivo, d’estate o d’inverno che sia. Ha anche difficoltà di calcolo e fa un gran pasticcio nell’esecuzione del disegno con i due pentagoni incrociati, non ricorda nessuna delle tre parole, ma quando le dico di scrivere una frase, dopo qualche secondo di attonito silenzio, mi chiede: “ Va bene se scrivo: in questa bella giornata sono andata al mare?” E lo fa senza alcun errore in bella calligrafia. Guadagna un risicato punteggio di 10/30 al Mini Mental State Examination che diventa 11,4 /30 corretto per età e istruzione, considerato che Maria è arrivata solo alla quinta elementare.
Quando le ho chiesto di raccontarmi la storia della sua famiglia, mi ha sorpreso davvero: mi ha detto il nome del paese in cui è nata, quello dei suoi genitori, il lavoro che facevano, mi ha riferito della sua passione per camminare, soprattutto all’aria aperta e che le sarebbe piaciuto viaggiare ma, dovendo accudire i quattro figli e fare i lavori di casa, le possibilità erano pressoché nulle. Ha parlato di due di loro, Bruna e Giancarlo, poi si è intristita di colpo ricordando che Luciano è morto , non molto tempo fa. Non ha fatto alcun cenno del quarto figlio che non vede da tempo perché si è gravemente ammalato. Bruna mi aveva avvisato della decisione, da parte dell’intera famiglia, di non dire nulla alla madre di quanto stava accadendo, per cui ho cercato di cambiare discorso e chiederle se era soddisfatta della sua vita e se aveva fiducia nelle persone in generale.
Soddisfatta sì, mi ha detto senza alcuna titubanza e con gli occhi luccicanti, sempre per via dei suoi figli e fiducia pure, in fondo non era mai stata ingannata da nessuno.
E così via, una dopo l’altra, Maria rispondeva alle mie domande che riguardavano la salute, la libertà, il denaro, la famiglia, la fede in Dio, dimostrando grande competenza sui valori della vita, profonda spiritualità e senso di giustizia. Di tanto in tanto comparivano, per quanto attenuati, gli alienanti movimenti del tronco, avanti e indietro. “Non fare più così, puoi alzarti quando vuoi, qui non sei legata !” mi è sfuggito ad alta voce, mentre Maria, impassibile, replicava: ”Ma io non sono mai stata legata”.
Confesso, sul momento, ci sono rimasta male. Ma come? Non si rende conto della differenza? Proprio lei che dice di amare la libertà? Ma è stato solo un attimo. A Maria interessa il “qui ed ora” e il suo atteggiamento cordiale, i suoi occhi vivaci e brillanti, il tono della voce, sommesso, ma sicuro, ne sono la più concreta testimonianza. E’ giusto così, mi sono detta ed il sorriso è tornato anche sulle mie labbra.
Mi restano i tristi pensieri di fine primavera.
Come al solito me la prendo col significato delle parole.
Perché ci ostiniamo a chiamarle residenze protette? O residenze sanitarie assistenziali? E anche piani di assistenza individuale?
Se questo è l’aiuto che la società è in grado di dare, l’unica risposta che mi sorge spontanea è: “No grazie, preferisco arrangiarmi da sola”.
Forse qualcosa si muove, qualcuno incomincia a introdurre il termine “aperto”, come nel progetto della Regione Piemonte che riguarda le “RSA aperte”.
Io, come al solito, la vedo all’incontrario e incomincerei piuttosto a parlare di “domicili aperti”, aperti agli aiuti, alla solidarietà, alla tolleranza, al buon senso, e soprattutto aperti al rispetto della dignità della persona e dei valori individuali che ognuno di noi conserva per sempre, anche negli stadi più avanzati di deterioramento cognitivo.