Cosa vuol dire essere felici? Si può essere felici anche se si hanno preoccupazioni, poca salute o addirittura si è affetti da demenza? Queste
domande mi frullano in testa da parecchi giorni e credo di conoscerne il motivo che vi racconto volentieri: circa una settimana fa ho provato una emozione che non ricordavo di aver provato da tempo ed in cuor mio ho pensato che si trattasse di felicità.
Ebbene sì, proprio felicità, una parola grossa, importante, quasi inafferrabile, soprattutto indescrivibile.
E’ stato un pensiero fugace, durato un solo attimo, comparso a ciel sereno, come un segnale che mi dicesse: “ Occhio, non ti distrarre, cogli questo attimo perché questa è la felicità”. Un istante di consapevolezza che mi ha fatto riflettere e mi ha permesso di assaporare quello che spesso i ritmi forsennati imposti dalla ”modernità” ci impediscono di fare per molti, troppi momenti della nostra vita.
Non era stato così alla tesi di laurea, quando il rettore ha pronunciato la sentenza con il voto finale. Aveva detto 110 su 110 e Lode ed io, diplomata al liceo scientifico più prestigioso della mia città con 9 in matematica avevo interpretato che la Lode fosse solo al denominatore e che quindi non mi fosse stata concessa. Insomma l’emozione di delusione e rammarico provata in quell’istante non si è più cancellata, nonostante pochi minuti dopo, amici e parenti, ignari di quanto fosse accaduto nella mia mente, si complimentassero per la mia Lode.
Che cosa strana le emozioni! Ancor più strano è trovarti di fronte ad una sorta di avvertimento che ti rende consapevole del significato di quella specifica emozione in modo che tu possa attribuirle un nome: malinconia, solitudine, felicità. Non si tratta di stati d’animo: è evidente che dalla vita intrauterina fino allo scadere dell’età adulta (ci tengo a precisare che mancano meno di 8 mesi al raggiungimento del fatidico numero che permette alla società di etichettarmi come anziana) ho provato innumerevoli e differenti stati d’animo, gioia, tristezza, preoccupazione, paura e chissà quanti altri di cui indubbiamente ero più o meno consapevole, ma li ho accettati, sopportati, comunque vissuti e nulla più.
Ben diverso è quello che mi è successo in tre precisi momenti della mia vita.
La malinconia l’ho provata durante una corsa di 30 km, la Milano-Pavia, il 30 settembre del 2003. La data la ricordo bene perché era il giorno seguente il funerale di mio padre, colto da morte improvvisa nella fascia di età cosiddetta di anziano-giovane. Correvo spedita, per scaricare la tensione accumulata nei giorni precedenti e mi facevano male i piedi, per cui, per distrarmi, inizia a pensare all’incontro di mio padre con mia madre, morta a poco più di 60 anni, 14 anni prima. Ovviamente lo immaginai in Paradiso. Nel momento dell’incontro, complice l’ipossia cerebrale e qualche endorfina di troppo, avvertii una emozione intensissima, trascendente ed ebbi paura di cadere a terra e perdere i sensi. Mi sforzai di mantenere il controllo del corpo, come quando si cerca disperatamente il risveglio per interrompere un brutto sogno di cui si ha consapevolezza che si tratti di un incubo. Ci riuscii e ripresi il contatto con la terra ferma annientando la sensazione di sbandamento, ma rimasi con la convinzione di aver toccato con mano, seppure per un solo istante, l’essenza suprema della malinconia.
La solitudine invece la toccai alla partenza della maratona di New-York, nel novembre 2004, mentre mi accingevo ad entrare sul ponte di Verrazzano. Il suono e le vibrazioni ritmiche e insistenti prodotti dal calpestio di migliaia di piedi sulla pavimentazione fluttuante del ponte rimbombavano nella mie orecchie come tamburi sciamanici. Provai una sorta di trance che mi fece paura ed ebbi l’impressione di perdere l’equilibrio e finire malamente calpestata. L’emozione era d’intensità tale da non poterle attribuire alcun aggettivo, ma ebbi comunque la certezza che si trattasse di solitudine. Come si può credere di provare solitudine in mezzo a migliaia di persone? Me lo sono chiesto più volte, senza saper dare risposte. O meglio le uniche risposte che negli anni mi sono venute in mente sono due: o le emozioni sono una cosa strana oppure la strana sono io. La prima è poco convincente e non certo basata su prove scientifiche; la seconda faccio fatica ad accertarla.La felicità mi è apparsa dopo quasi 12 anni dalla precedente emozione, in una circostanza completamente diversa. Non sono andata in trance, non ho avuto paura di perdere il controllo né di cadere a terra tramortita, ma ho provato una assoluta dolcezza e tenerezza che mi ha fatto comprendere si trattasse di felicità. Proprio così: stavo tenendo in braccio una cucciola di 50 giorni, alla quale non potevo dare altro nome che Felicity, che di lì a poco avrebbe fatto parte della mia famiglia.
Felicity è con noi da una settimana, è vivacissima, ma, fortunatamente, come tutti i cuccioli ha un’autonomia piuttosto limitata e crolla in un sonno profondo che ti permette di riprendere fiato.
L’ho portata con me in casa Morando e, fin dal primo giorno, ha esplorato ogni angolo interno e scorrazzato spavaldamente in giardino insieme a Asso, il cane di Maria Grazia. Osvaldo, Fortunello, Teresa e Rina la guardavano piuttosto preoccupati e, appena possibile, cercavano rifugio nel pollaio, mentre Vittoria ed Eugenio, i due gatti, si limitavano a starle a debita distanza.
L’accoglienza da parte degli ospiti è stata commovente.
Ho visto sorridere Wanda, affetta da una sindrome depressiva maggiore che non cede minimamente ai diversi e reiterati trattamenti farmacologici. Allungava le braccia per accarezzarla, affondava le dita sul pelo bianco e morbido che la fa assomigliare ad un enorme batuffolo di cotone e sorrideva con gli occhi e con le labbra come non era mai successo.
Ho visto Giuliana, che non è nemmeno in grado di pronunciare il proprio nome, accudirla con amore e rivolgerle tenere parole, addirittura al femminile: “Piccinina, come sei bella! Sei stanca? Mettiti qui a dormire”, intanto che accomodava le sedie al tavolo della palestra facendo attenzione a non scontrare Felicity che si era sdraiata sotto una di queste. La aiutai e Giuliana, senza esitare un solo attimo, mi ringraziò. Questa è competenza, pensai, competenza e sensibilità emotiva che si conserva, eccome, anche quando la ragione non ci sostiene più.
Ho visto sorridere Angela, l’ultimo giorno della sua vita, nonostante la malattia non le concedesse più la possibilità di respirare e gli occhialini per l’ossigeno, ormai indispensabili, le avessero procurato una fastidiosa irritazione degli zigomi e dietro le orecchie. Ho pensato all’importanza delle piccole cose, quando la vita ci sfugge e la scienza medica allarga le braccia pronunciando l’odiata frase “non c’è più niente da fare”. Una carezza, una parola dolce, lo sguardo innocente di un cucciolo, a cui non interessa se siamo maschi o femmine, vecchi o giovani, sani o malati, possono davvero fare la differenza e procurar quell’eterno istante di felicità che tanto affannosamente ricerchiamo.
Che dite, ve la presento? In fondo, anche se ignara di tanto parlare di lei, si merita un po’ di considerazione.
Eccola in una delle sue pose spontanee capaci di fare sorridere.