Il tempo vola. E’ proprio il caso di dirlo. Solo in questo istante ho preso coscienza del fatto che mi sto occupando di vecchi “istituzionalizzati” da oltre 10 anni.
Ad essere precisa, mi sono sempre occupata prevalentemente di anziani, lavorando in una regione particolarmente ricca di over65enni, ma nella fase acuta di malattia, in Pronto Soccorso o in Aria Critica, non nella cronicità delle loro patologie né, tanto meno, nella cronicità della loro vita.
Da 10 anni, quindi, ho scoperto che esiste un mondo diverso, a sé stante, infarcito di norme e regole ferree, omogeneo e variegato al tempo stesso, in cui troneggiano parole ambigue, vecchie e nuove, capaci di cambiare i comportamenti dell’essere umano.
Una di queste è quella che ho citato in seconda riga: “istituzionalizzato”. Più che una parola si direbbe un marchio indelebile.
Come se il fatto di vivere in una casa di riposo o in una Residenza Sanitaria Assistenziale modificasse la storia naturale della malattia o il percorso diagnostico o la prescrizione di farmaci o altre terapie. Non nego che il contesto sia importante e comprendo quanto possa condizionare il processo decisionale, soprattutto quando le opzioni sono diverse, ma non si deve dimenticare che gli “istituti” per anziani sono luoghi di vita, con l’unica eccezione dei ricoveri in RSA di riabilitazione che dovrebbero (non a caso uso il condizionale) essere caratterizzati dalla temporaneità. Una ragione in più perché il marchio non sia indelebile.
Ma cercherò di spiegare meglio il mio ragionamento.
L’enciclopedia Treccani definisce così la parola ambiguità: possibilità di essere variamente interpretato. Essere variamente interpretato, almeno a mio parere, non è mai una bella cosa, figurati in un mondo a sé, in cui gli aspetti paradossali la fanno da padrone.
Mi chiederete: perché mai la parola istituzionalizzato dovrebbe essere ambigua? Significa semplicemente che la persona, in questo caso anziana, vive in un istituto ad hoc . Sinonimo di istituzionalizzato è ospitalizzato, sì, proprio così, con la t al posto della d, che, almeno credo, deriva dal fatto che i residenti nelle case di riposo sono chiamati, dai più e con una certa irriverenza, ospiti.
Fin qui si direbbe che non c’è ambiguità.
Ma se così fosse, che senso avrebbe aggiungere istituzionalizzato nelle relazioni di dimissione dall’ospedale o dal pronto soccorso ? Del tipo: “Colica epatica in paziente istituzionalizzato” o semplicemente “Colica epatica” ma, nella riga sotto “ Si ri-invia in struttura”. E non importa se il paziente è in struttura da 15 anni o da poche ore, il marchio una volta impresso, anche se fresco fresco, assume lo stesso significato.
L’ambiguità sta proprio in questo: le istituzioni per anziani, comprese le comunità alloggio e persino gli appartamenti protetti, nell’immaginario collettivo del personale socio-sanitario, ancor più che per i cittadini, sono assimilabili più a reparti di lungodegenza che a luoghi di vita. Di tutte le erbe se ne fa un fascio, così si fa prima a scaricare il barile. Una situazione di comodo per tutti, ad eccezione dei vecchi e dei loro familiari che si trovano di fronte ad un vicolo cieco, senza alcuna possibilità di alternativa. Tanto per fare alcuni esempi, recentemente ho trovato scritto “ricovero di sollievo” , alla voce Obiettivo della degenza nella relazione prestampata di una Comunità Alloggio ed ho potuto constatare personalmente che sulla locandina di un quotidiano era scritto, a caratteri cubitali: “Epidemia di influenza: case di riposo in aiuto al Pronto Soccorso”. Non si può negare, d’altra parte che la parola ricovero, oggi, viene utilizzata quasi esclusivamente per indicare l’accesso a luoghi di assistenza sanitaria e cura, ivi compresi gli alberghi per anziani, mentre si è perso il significato di rifugio, protezione, asilo, pur presente nell’accezione più ampia del termine. Effetto, direbbe Ivan Illich, della medicalizzazione della vita.
Così l’ambiguità, tenendo per mano la confusione e il disorientamento, vaga tra la gente, senza obiettivo e senza meta , vanificando e, ancor peggio, falsificando qualsivoglia percorso.
Ma c’è un’altra parola che mi frulla in testa: sostegno.
Sostegno, in senso figurativo, significa aiuto, appoggio, materiale e morale rappresentato da persone o cose (Treccani online). L’ amministratore di sostegno è infatti la figura istituita per “tutelare … le persone prive in tutto o in parte di autonomia, con la minore limitazione possibile della capacità di agire“, come cita l’art 1 della Legge 6/2004.
In questa definizione non c’è proprio nulla di poco chiaro o di ambiguo.
Ebbene, in questi 10 anni di nomine di amministratori di sostegno ne ho visto molte, di nomine, sottolineo, perché la persona fisica dell’amministratore l’ho incontrata solo raramente e in modo del tutto sfuggevole, al punto da ritenere che la loro funzione fosse quella di occuparsi di pagare le utenze, le rette delle case di riposo, provvedere all’abbigliamento, se necessario e così via. D’altra parte, se un vecchio è istituzionalizzato, è l’istituto a dargli protezione, non è necessaria una figura in più se non per le pratiche amministrative.
Per una casualità del tutto fortuita, recentemente, mi è stato consegnato l’atto di nomina dell’ amministratore di sostegno di Lidia, una 87enne arzilla, ex maestra di scuola elementare, volitiva e a tratti capricciosa, con qualche defaillance non tanto legata ad una patologia etichettabile, quanto piuttosto al suo carattere ed alla preoccupazione di essere messa, un giorno, nella condizione di non poter scegliere autonomamente. Di lei ho parlato nel precedente articolo dal titolo: “Se la società è ipocrita”.
La nomina, alla voce, Oggetto dell’incarico recita:
1. Assistenza e cura personale per quanto di necessità della beneficiaria, anche per il tramite di terze persone […]
2. Riscossione, accredito e gestione delle entrate economiche della beneficiaria, con facoltà di compiere in nome e per conto della stessa, tutte le pratiche amministrative e non […]
3. Sottoscrizione di documenti o dichiarazione ritenuti necessari in nome o per conto della beneficiaria.
4. Eventuali apertura e chiusura o comunque gestione di conti correnti o libretti intestati o cointestati alla beneficiaria […]
5. Pagamento delle spese di mantenimento o personali ove non vi provveda direttamente l’amministrata.
6. Presentazione annuale della dichiarazione dei redditi e pagamento delle imposte […]
7. Sottoscrizione di qualunque contratto […]
8. Ritiro di qualunque lettera o raccomandata, telegramma o plico postale […]
9. Acquisizione di qualunque documentazione medica e sostegno della beneficiaria nel prestare il consenso informato.
10. Gestione o amministrazione ordinaria dei beni immobili di proprietà esclusiva dell’amministrata o in sua comproprietà […]
E già dalla lettura di questa prima parte sono rimasta di stucco. Ma il resto, a mio parere, è molto peggio:
Atti che l’amministratore può compiere in nome o per conto della beneficiaria:
tutti quelli necessari per far fronte all’oggetto dell’incarico come precisato […]
Atti che la beneficiaria dell’amministrazione di sostegno può compiere da sola:
1. Atti della vita quotidiana
2. Atti di disponibilità mensile nei limiti concordati con l’amministratore di sostegno
3. Eventuale effettuazione di prelievi dal proprio conto corrente o libretto di somme di denaro sempre nei limiti concordati dall’amministratore di sostegno.
E no, questo è inaccettabile. E’ troppo.
Questo non è un sostegno, questa è una interdizione.
Sostegno è una parola nobile, come lo è istituzione, come lo è ricovero, residenza protetta e la stessa interdizione. E’ l’ interpretazione di comodo e l’uso che noi facciamo di queste parole che le abbruttisce, le rende ipocrite, false, senz’anima.
Perché, se è vero, e io concordo, che le parole hanno un’anima, le parole possono anche avvelenarla e stregarla.
Concludo con due diapositive gentilmente offerte dal mio amico Ferdinando Schiavo, del quale condivido pensieri e azioni:
Non so se si tratta di idealismo o di una forma estrema di ottimismo, ma forse raccontare le storie di persone intente a sopravvivere ai bordi di questa società un giorno potrà servire a ridare anima alle parole alle quali è stata rubata e renderle di nuovo capaci di infondere coraggio e forza.