La matematica mi è sempre piaciuta ma, ad essere sincera, non mi sono mai preoccupata del perché. Mi piaceva e basta. Forse, penso ora, mi stimolava la fantasia, mi permetteva uno spazio ampio di riflessione, mi lasciava libera di scegliere pur avendo vincoli ben precisi, perché dai postulati, dai teoremi, dagli assiomi non si scappa, altrimenti succede quello che comunemente si dice: “I conti non tornano!”.
Negli ultimi anni del liceo scientifico, gli studi di funzione mi affascinavano: partire da semplici numeri ed arrivare, attraverso equazioni e quant’altro a individuare forma, direzione, inizio e fine di una parabola o di un grafico , circoscriverlo in un pezzo di carta e assaporarne tutto il valore simbolico era per me una grande soddisfazione. Quasi una sfida con me stessa. Una vittoria fugace, come il traguardo di una maratona ma sufficiente a ripagarti della fatica e a darti la forza di continuare a costruire altri attimi di successo. Ho sempre paragonato la vita alla maratona, quindi, per quella proprietà che, se non ricordo male, si chiama transitiva, anche la matematica, con tutti i suoi ingredienti e le sue formule, può essere paragonata alla vita.
I numeri di per sé hanno valori intrinseci paradossali. Basti pensare al numero zero che può valere nulla o una fortuna, a seconda di dove lo metti, prima o dopo la virgola, sopra o sotto una semplice linea di frazione. I numeri, come la vita, hanno infinite sfumature, possono rappresentare il tutto o il niente, il tanto o il poco , possono essere isolati o raggruppati, sommati, sottratti, moltiplicati e divisi in frazioni infinitamente piccole dal significato grandioso. I numeri sono musica, capace di farti sorridere, gioire, inquietare, rattristare, eccitare o deprimere. Nulla è lasciato al caso, ma la complessità è tale che un mezzo tono in più o in meno, spostato un po’ più in qua o un po’ più in là, è capace di trasformare la dolcezza di una melodia nell’asprezza di una sgradevole dissonanza. La musica, come la vita, è effimera e eterna, finita e infinita, astratta e concreta allo stesso tempo e forse la bellezza consiste proprio nell’apparente contraddizione. Almeno questo è il mio pensiero.
Trovo che abbiano un loro intrinseco fascino anche le linee, che non sono altro che un numero infinito di punti, rette, curve, arzigogolate, capaci di congiungersi, intersecarsi, intrecciarsi nei modi più svariati su uno o più piani dello spazio. Tra queste le linee parallele, quelle che non si incontrano mai, secondo la geometria euclidea, mi sono sempre risultate particolarmente simpatiche e spesso le utilizzo metaforicamente per sottolineare pensieri e azioni talmente differenti l’uno dall’altro, da non lasciare il minimo spazio per un solo punto in comune.
Come mi sia venuto in mente tutto ciò e che relazione ci possa essere tra i vecchi e il medico, mi accingo a spiegarvelo, con tanta amarezza e una buona dose di coraggio. Non so se ci riuscirò, ma so con certezza che ci proverò.
Ieri, la struttura definita da Lidia “luogo di vita per ciascun individuo” nella quale risiedono, da più o meno tempo, 25 vecchi, ha ricevuto la visita della commissione ispettiva che, per definizione, cade sempre a fagiolo dell’ASL. Questa volta erano in tre: la titolare, responsabile della RSA ospedaliera, la direttrice del distretto sociale e una terza giovane dottoressa alla prime armi, se ho ben capito, in questo delicato servizio. Erano le 8 del mattino ed io ero già lì avendo l’intenzione di mettere un po’ d’ordine a schede e papiri vari, trascurati nell’ultimo mese per un insolito sfortunato periodaccio in cui ne sono capitate di tutti i colori. E mi riferisco ai vecchi, all’ernia strozzata di Angela, al malessere di Rina, alla frattura di Vera, al ricorso dei familiari di Lidia, all’arrivo di Ernesto e poi di Stella e alle assenze contemporanee di ben 4 persone addette all’assistenza, per malattia, infortunio o dimissione. Si sa che “piove sempre sul bagnato” e che “non c’è limite al peggio” per cui la visita ispettiva è apparsa come la ciliegina su una torta, capace di rimanerti sullo stomaco prima ancora di averla assaggiata.
Lo scoglio più duro per me è sempre stata la scheda AGED per la quale nutro una profonda antipatia e disistima. Secondo quanto riportato sul portale della Regione Liguria la famigerata Assessment of Geriatric Disability consente la misurazione della non autosufficienza attraverso l'esame degli assi ( sic!): autonomia funzionale, mobilità, area cognitiva, disturbi comportamentali. Il punteggio inferiore o uguale a 9 è indicativo di lieve non autosufficienza e l’anziano che ne è portatore può essere accolto in una comunità alloggio; il punteggio compreso tra 9,5 e 16 indica una non autosufficienza parziale che, tradotto in sigla diventa NAP, meritevole di una residenza protetta; infine il punteggio superiore a 16 indica che l’anziano è totalmente non autosufficiente, cioè NAT e necessita di una RSA, Residenza Sanitaria Assistenziale di mantenimento ( a vita) o riabilitativa. In sintesi, meno punti uno ha, meglio sta; più punti uno ha, peggio sta. E già questo mi suona come una stonatura perché, da che mondo è mondo, vince chi raggiunge il punteggio più alto, non il più basso. Il paradosso è però solo apparente perché la scheda AGED, in realtà, misura, e pure in maniera molto grossolana e spudoratamente falsificata, i bisogni di assistenza dell’anziano riferiti esclusivamente ai cosiddetti bisogni primari, tralasciando completamente i secondari e, ancor peggio, quelli individuali. Quindi il focus non è la persona portatrice di disabilità, ma la stima dei tempi di assistenza, il cosiddetto minutaggio ( peggior parola credo non si potesse trovare) cioè quanto personale la struttura deve assumere per essere a norma, seconda la tipologia degli ospiti presenti in quel momento. Alla fine di un calcolo tanto assurdo quanto mendace, esce fuori un numero che sancisce quante ore devono lavorare gli operatori socio-sanitari, gli animatori, i fisioterapisti, gli infermieri, i medici. E di qui non si scappa, altrimenti tutti a casa. Che sia giusto o che ci sia un errore di calcolo, poco importa.
C’è un proverbio che dice: “Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”. Deve essere per questo che, per quanti sforzi abbia fatto in passato, non sono mai riuscita a capire la metodologia della compilazione dell’AGED e i punteggi da me attribuiti sono sempre decisamente più bassi di quelli ottenuti dagli organi di controllo. Lo sanno bene, forse è per questo che non si fidano e li rifanno tutti, in quattro e quattr’ otto, facendo domande all’uno e all’altro operatore. Non mi è dato di sapere se mi ritengano semplicemente incapace o pensino che voglia depistare le indagini nel tentativo di ridurre al minimo i fatidici parametri assistenziali. E pensare che Maria Grazia, la direttrice, sostiene che se i nostri vecchi sapessero di essere NAP o NAT, perderebbero l’autostima. Non solo concordo con lei, ma aggiungo pure che i primi a credere nelle loro risorse dobbiamo essere noi, operatori di assistenza, altrimenti come possiamo aiutarli ?
Ma la malefica AGED non si ferma qui. Se la tipologia dell’ospite , cioè l’essere NAP o NAT o avere un punteggio inferiore a 9 non corrisponde all’autorizzazione della struttura, RP, RSA o comunità alloggio, ecco che l’anziano deve essere messo alla porta e la direzione sanzionata e minacciata di chiusura. Per pura casualità, il nostro luogo di vita per ciascun individuo ha schivato questo problema, essendo stato autorizzato dal comune come RSA, dall’ASL come RP/RSA ed essere in realtà Comunità alloggio, RP, RSA o semplicemente casa di riposo secondo lo statuto della Fondazione. E’ solo grazie a questa ambiguità che riusciamo a cavarcela, anche se i nostri vecchi con punteggio inferiore a 9 non valgono come tali e sono considerati come NAP per quanto riguarda il minutaggio assistenziale. Ma loro non lo sanno, così l’autostima è salva. Insomma nella confusione è difficile stabilire da che parte stia il torto e la ragione. E’ successo una sola volta che i NAS storcessero il naso lamentando che una centenaria giacesse quasi esanime nel letto che occupava da oltre 16 anni. Per sua fortuna ( è proprio il caso di dirlo) Safena scelse la soluzione più semplice e lasciò questo mondo di lì a poco evitando di essere trasferita in qualche altro luogo, considerato più idoneo al suo fine vita.
Ebbene, per ironia della sorte, o forse per deliberata punizione di colei che impugnava il coltello dalla parte del manico, mi è toccato aiutare la giovane collega Francesca a rivedere le AGED degli ospiti già noti e compilare ex novo quella dei nuovi vecchi.
La raggiungo in salone e la trovo, munita di carta e penna, alla prese con Orsola, una centenaria cieca, ma sana di mente, volitiva e tenace, che continua a mantenersi in forma camminando a passo veloce, avanti e indietro, per i corridoi e, nella bella stagione, anche negli spazi aperti, con il solo aiuto del corrimano. Orsola ha un caratteraccio. È solitaria, spesso scontrosa e qualche volta si lascia andare in una crisi di nervi per cui rifiuta tutto: non parla, diventa rossa in volto, stringe i pugni, scrolla le spalle, trema. Va lasciata stare, piano piano si tranquillizza, tutt’ al più 3 gocce di ansiolitico, tanto per darle l’illusione di fare qualcosa. Francesca mi chiede: “Questa è confusa e disorientata ? Non parla?”. “No!” rispondo io, con il cuore piccolo piccolo “E’ solo arrabbiata. Ogni tanto succede …” “Ma ha il pannolone?” incalza lei “No, credo di no, credo abbia solo la striscia di notte” rispondo titubante con lo sguardo rivolto all’infermiera che annuisce.
Quando mi riprendo, Francesca è già al tavolo, all’altro lato del salone, con una nuova scheda in mano: è quella di Benedetto. “Questo non cammina?” mi chiede “Sì …!” rispondo io, decisamente imbarazzata . “Cammina da solo, è un po’ goffo, ma … Guarda, è lui, lo chiamo !”. Benedetto, che stava sonnecchiando semi sdraiato sulla sedia con le mani incrociate sul ventre, si avvicina con i suoi piccoli passi strisciati che non gli impediscono nulla che abbia desiderio di fare e mi dice, come sempre: “Me lo dai un bacino?”. “No, Benedetto, ora non è il momento, ti presento la dottoressa dell’ASL” redarguendolo con lo sguardo e con il dito indice puntato nella speranza che limiti le sue espansioni amorose alla richiesta di un bacio. Ma, ahimè, non è sufficiente e Benny , porgendole la mano “Mi piace, ma mi piace di più il tuo sedere!”. La frittata è fatta, chissà che punteggio ha scritto. Io rimango immobile, senza avere il coraggio di alzare lo sguardo da terra.
Con una rapidità sorprendente si passa alla compilazione dell’AGED dei nuovi vecchi.
E’ il turno di Maria: nome, cognome, indirizzo, anno di nascita, diagnosi. “Diagnosi? No, a questa domanda non riesco a rispondere” penso tra me e me, avvilita, ma mi riprendo subito e, cercando di nascondere la sofferenza, pronuncio l’etichetta a voce alta: “Ha l’Alzheimer … ma è simpatica!”. Peccato che la simpatia non sia prevista negli “assi” di valutazione. Ci avviciniamo a Maria che sta vagando nel salone. Come mi vede, si pianta con aria altezzosa davanti a me e, incurante della sconosciuta, con i suoi occhi birichini e le labbra atteggiate ad un mezzo sorriso di sfida mi invita al gioco: “Patatatatatatapaparataratà!!!” e resta in attesa della mia risposta che mai arriverà, mentre un sudore freddo mi scorre lungo la schiena. Rompe il silenzio Francesca che, con solerzia, sentenzia:”Non parla! Ed è itinerante”. “Sì parla …” dico io a denti stretti “ma … ogni tanto fa così per giocare …. Ha un bel marito affettuoso che le sta molto dietro e spesso la porta a passeggio, ma lei non scappa, sa come e dove muoversi”. Altro scarabocchio sulle schede che posso immaginare: confusa, disorientata, itinerante, incontinente senza presidi, 4 in tutte le materie.
Le stesse monotone e sterili domande, formulate con lo stesso tono, dando solo un’occhiata fugace alla persona, risuonavano alle mie orecchie come epiteti di pessimo gusto: non si muove o è itinerante , disorientato e confuso, incontinente con pannolone, di giorno e di notte, non deambula senza aiuto, operatore o ausili, non scende dal letto, non taglia la carne, non vede, non sente, non si lava, non si veste. Tutti uguali, Ernesto, Vera, Stella e anche Bice, che, prudenzialmente, visto l’inesorabile avanzare degli anni ed essendo sola, ha scelto di vivere in comunità per più agevolmente coltivare le sue amicizie, tra cui un medico che lavora in ospedale. Si è portata dei mobili da casa che, con un po’ di buona volontà e ingegno, siamo riusciti a sistemare in struttura, esce quanto e come vuole, si gestisce autonomamente la terapia, si è scelta il medico di famiglia, insomma conduce una vita completamente autonoma. Ma per l’ASL, per il solo fatto che vive in una residenza protetta è un NAP. Quando La geriatra mi ha chiesto la diagnosi di Bice, ho fatto scena muta. Poi, annaspando tra i fogli ho recuperato la scheda assistenziale all’ingresso che riportava che la sig.ra aveva un pace-maker e mi sono salvata in corner, anche se non ho saputo rispondere perché glielo avevano messo.
Poi il conteggio finale, 11 NAT e 13 NAP, in totale 24, anziché 25 perché Angela, che stava rientrando in quel momento dall’ospedale dove era stata operata di ernia strozzata, vale zero, uno zero che , in questo caso, significa nulla.
Poi il verbale.
Poi il minutaggio.
Mancano 3 ore al giorno di lavoro per gli addetti all’assistenza. E’ impossibile . Ma ormai, Maria Grazia ed io siamo talmente confuse e disorientate per non dire avvilite e stremate che non siamo più in grado di reagire. Scopriremo poco dopo che si tratta di un clamoroso errore di calcolo.
I numeri sono numeri, su questo non si discute, ma a me, questi numeri non piacciono proprio. Non hanno nulla a che vedere con gli studi di funzione che ti permettono di costruire parabole e grafici concreti, sono numeri ipocriti, sterili, imprevedibili, che non sai dove ti portino, né che significato abbiano, e che sembrano possedere solo potenzialità distruttive. Ti ostacolano, ti imprigionano, ti puniscono, ti fanno male e, quel che è peggio, si riversano negativamente su coloro ai quali dovrebbero essere rivolti per aiutarli. Un paradosso insopportabile.
Sono d’accordo con Euclide, le linee parallele non si incontrano mai, nemmeno all’infinito.