Il mio interesse per il governo clinico, per le cause di errore sanitario, per l'appropriatezza organizzativa, per la qualità in generale, risale all'epoca in cui lavoravo in ospedale ed ero impegnata a tempo pieno nella gestione del malato critico.
La modulistica era il mio pallino ed era mia cura personale approntare schede ad hoc perché nessuna informazione che riguardasse il paziente andasse persa o dimenticata.
Del famoso pezzo di gruviera di James Reason , in cui la freccia, che rappresenta i rischi, attraversa linearmente tutti i buchi, ne avevo fatto un cavallo di battaglia al punto che il disegno, come quello sottostante, era immancabilmente presente nelle mie relazioni, insieme alla citazione del libro che descriveva ampiamente tale ipotesi: Human error .
Anche la tesi del corso manageriale per direttori di strutture complesse, presentata oltre 10 anni fa, verteva sull'importanza che riveste l'organizzazione nella gestione del rischio clinico nei malati critici.
In effetti rilevare gli eventi avversi, segnalarli, analizzarli, identificarne le cause e attuare le misure di sicurezza per evitarli o ridurli al minimo, è indubbiamente cosa buona , in ospedale come nelle strutture per anziani, negli asili nido o nelle scuole , insomma, da tutte le parti. Così la mania delle schede me la sono portata dietro passando dalla acuzie alla cronicità.
In epoca relativamente recente, esattamente nel 2011, la Regione Liguria propose di monitorare la qualità dell'assistenza sanitaria nelle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) , con l'intento di "validare un set integrato e multidisciplinare di indicatori quality ed equity oriented con particolare attenzione alla gestione e all' elaborazione dei dati per la rilevazione di eventi avversi e critici".
Allora ero , come si suole dire, nel posto giusto al momento giusto, essendo responsabile di Residenze protette e RSA, identificate come centri pilota, per cui presi immediatamente la palla al balzo e, non solo, accolsi la proposta con il fervore che mi contraddistingue, ma partecipai attivamente all' approntamento di moduli di rilevazione e di quant'altro fosse di utilità per raggiungere l'obiettivo prefissato: il miglioramento continuo della qualità dell'assistenza.
Gli operatori dell' RSA erano già avvezzi ad apporre crocette su crocette sulle innumerevoli schede, ospite per ospite e ad ogni ora della giornata: alzate, cambi posturali, messe a letto, ritmo sonno veglia, idratazione, pasti , evacuazioni , diuresi, parametri vitali e quant'altro. Esisteva altresì un quaderno dove venivano annotate e monitorate le lesioni da decubito e le medicazioni effettuate, senza considerare le scale di valutazione di ogni tipo, duplicate o triplicate per inserirle nelle cartelle mediche, infermieristiche, fisioterapiche, qualche volta anche in quella sociale dell'animatore.
Come d'obbligo di legge, non poteva mancare il registro delle cadute fornito di tutti i dati necessari per una descrizione accurata dell'evento: data, ora, luogo, eventuali condizioni favorenti , testimoni, modalità di caduta, farmaci assunti dall'ospite, tipo di pantofole o scarpe, contenzioni e/o presidi utilizzati ecc. ecc . I dati, riportati fedelmente su un sofisticato programma informatico, venivano trasmessi alla casa madre che con precisione impeccabile, ogni sei mesi, provvedeva a tradurli in grafici a colori, ricchi di codici alfanumerici dai quali le singole strutture avrebbero dovuto trarre indicazioni utili a modificare, in meglio , i loro comportamenti. La direttrice era solita ammirare i grafici con orgoglio sostenendo che, nella residenza da lei diretta, le cadute degli ospiti erano poche e quasi sempre senza conseguenze. Io però non riuscii mai a provare soddisfazione di questi risultati, né a sapere se fosse previsto un premio per il vincitore. Pensandoci bene, forse mi mancava lo stimolo di provare a fare meglio. Come è possibile andare oltre l'eccellenza?
Insomma, detto in altre parole, tutte queste segnalazioni con carta e penna in nome della sicurezza dell'ospite, costringevano gli operatori a carichi di lavoro elevati e convincerli a riempire altri moduli, con tanto di attribuzione di responsabilità, questa volta richiesti dalla Regione, non era proprio una passeggiata. Quello che più mi premeva, però, era modificare l'approccio degli operatori alla rilevazione degli eventi, cioè dare un senso alle loro crocette affinché non rimanessero segni incomprensibili su fogli di carta prestampati altrettanto incomprensibili, simili a una battaglia navale o al promemoria dei punteggi di un gruppo di giocatori di carte. Moduli che erano diligentemente riempiti, con penna nera o blu, ma che, ammesso che qualcuno si fosse degnato di prenderne visione, erano troppo distanti dalla persona che ne era ispiratrice. Almeno questa era la mia sensazione.
Così ce la misi tutta e, nella convinzione che il toro vada sempre preso per le corna, incominciai dalla formazione del personale: dovevo trasformare un mero adempimento burocratico concretizzato nelle odiose impersonali crocette in un approccio alla persona consapevole e attento sì ai rischi, ma anche ai desideri ed alle aspettative di ogni singolo individuo.
Le diapositive qui riprodotte sono tratte appunto dalla relazione di presentazione del progetto.
La frase riportata nell' ultima diapositiva, quella intitolata la base fondante della qualità, firmata Abedis Donabedian era presagio di quello che poi sarebbe avvenuto in seguito. Ma allora non potevo saperlo.
Sì, proprio così: "Quando si tratta di mettere in piedi un sistema di facciata, qualsiasi metodo, anche il più sofisticato, sarà destinato a fallire".
Dopo essermi sgolata mesi e mesi sventolando la bandiera della motivazione a fare meglio, la regione annullò il progetto. Lo seppi telefonicamente dopo aver sollecitato una qualche risposta sui report inviati. Mi venne il dubbio di essere stata l'unico responsabile di struttura ad avere cercato di fare qualcosa.
Il personale forse non se ne accorse nemmeno e continuò ad apporre crocette inutili e sterili su fogli altrettanto asettici e privi di senso.
Se l'errore è un ottimo insegnante, figurati il fallimento di un intero progetto. Si impara, certo, e questo scritto spero che possa esserne la testimonianza.
Ma soffermiamoci un attimo sulle cadute degli anziani ospiti nelle strutture residenziali. E' opinione comune che le cadute si possano e si debbano evitare, sempre o quasi. Quante volte per strada ho sentito frasi di questo tipo: "Ho messo mio padre in una casa di riposo perché continuava a cadere, spendo un sacco di soldi e me lo hanno fatto cadere anche lì. Capisco che è un tipo difficile da tenere a bada, ma , gli operatori dovrebbero essere un po' più attenti". E da questo pensiero dominante nascono a cascata altri pensieri dagli effetti catastrofici sulla salute e sulla qualità di vita degli anziani che mi procurano sofferenza al punto da fare fatica a parlarne.
E' fuori dubbio, lo dice il termine stesso, che le residenze protette e le RSA, debbano essere ambienti costruiti a misura degli anziani. Riguardo a questo c'è tanto di letteratura e tanto di norme regionali e nazionali che ne fissano i requisiti strutturali.
Altrettanto vero è che gli operatori debbano essere sensibilizzati sui rischi che corrono i vecchi, tra cui quello di cadere è uno dei principali, e, nel contempo, porre tutta l'attenzione possibile al mantenimento della loro autonomia e/o all'eventuale recupero. Anche per questo c'è tanto di obbligo alla formazione specifica, per cui solo determinate figure professionali possono operare nelle strutture residenziali.
Insomma , da una parte esiste lo spauracchio della caduta e delle eventuali ripercussioni medico-legali e assicurative, che grava soprattutto sulla direzione e sugli operatori della struttura, dall'altra la paura di non camminare più o di perdere l'autonomia , che grava sul vecchio. La percezione del rischio da parte dei parenti è variabile, per così dire tra due fuochi, risultando dalla interazione tra il pensiero individuale e il parere espresso dai professionisti sanitari.
Questo spiega perché la frase del parente scontento che ho riportato prima, non può e non deve essere di per sé incriminata , così come non deve essere incriminata la risposta che più frequentemente ho sentito dare, da parte dei direttori delle residenze: "Il parente non gradisce che suo padre cammini da solo perché ha paura che cada e quindi bisognerà metterlo in carrozzina con la cintura pelvica. Ha detto che firmerà quello che c'è da firmare".
Così si passa "Dalla padella alla brace" o, per chi preferisce, "dal marcio alla muffa".
E il rischio di non camminare più, di perdere l'autonomia, di avvilirsi e di isolarsi, si trasforma inevitabilmente in una certezza. Ma il femore è preservato.
Il timore, infatti, non è tanto quello della caduta di per sé, quanto quello di farsi male, considerato che una frattura di femore in un centenario, mentre usufruisce del bagno in piena autonomia, non è la stessa cosa di una frattura di femore in un ragazzo di 20 anni che sta giocando a pallone.
A questo punto, mi viene in mente un altro detto popolare che amo riportare nelle mie relazioni:
E comprendo anche perché non riuscivo a gioire degli ottimi risultati riportati sui grafici a colori dell'RSA prescelta dalla Regione! Non cadono perché? La risposta è una sola: NON SI MUOVONO.
Ma possibile che il non muoversi, con tutte le conseguenze che comporta, sia l'unica soluzione per evitare le cadute ? Ci deve pur stare qualcosa tra questi due estremi?
Il mio pensiero si sposta ad un'altra piccola residenza che ospita 25 persone, la maggior parte ultranovantenni e qualcuno ultracentenario, in cui prevale il pensiero che la vecchiaia sia una forma d'arte e che la dignità umana non debba essere mai scalfita, qualunque siano le capacità delle persone.
Ebbene il record di contusioni, di ferite lacero-contuse, fratture e lussazioni è proprio lì, nella residenza che io definisco slow. Ma c'è anche il record di guarigioni!
Chi cade , si rialza, recupera e riprende, dopo un periodo più o meno lungo, le attività di sempre. Detto in termini tecnici, la caduta non modifica il piano assistenziale se non temporaneamente.
La persona resta quella di prima, stessa motivazione, stessa voglia di muoversi , stessa voglia di vivere, anche se con qualche piccola cicatrice in più. "Tutta esperienza che entra!" avrebbe detto mia nonna, saggia donna contadina nata in terra di confine tra Romagna e Marche, che, dovendo portare al pascolo le mucche, non aveva potuto andare oltre la 3° elementare. Ma il buon senso non c'entra con l'istruzione.
Chi cade è perché è affaccendato in qualche attività: si alza per andare in bagno o ordina l'armadio o riassetta il letto e la logica risultanza di questo movimento autonomo, con o senza bastone o girello, è l'aumento del rischio di cadere e di fratturarsi un polso o una spalla o, purtroppo anche una gamba.
Oppure chi cade è perché passeggia nel giardino antistante o per le strade del vicino centro cittadino.
Negli spazi aperti inevitabilmente esiste qualche rischio in più. Ma è lo spazio preferito dagli ospiti, dove possono godere della luce e del calore del sole, della brezza all'imbrunire, ammirare i fiori sbocciare al variare delle stagioni, sentire il canto del galletto Osvaldo e il borbottio delle sue amanti, Gilda, la nera e Teresa, la bionda. A volte Osvaldo è davvero insistente con il suo acuto chicchirichì, ma se proponi agli ospiti di tagliargli il collo o di mettere in pentola Teresa, la più vecchia, in fondo "gallina vecchia fa buon brodo", succede la rivoluzione.
Sandra, con i suoi 98 anni compiuti e la sua voce roca, si inalbera e urla: "No, Teresa non si tocca!".
E quando escono per passeggiare in strada?
I caruggi non sono certo i più adatti per coloro che sono impacciati nel camminare né, tanto meno , per le carrozzine, ma sono i caruggi, con il loro fascino, le loro strettoie, i loro odori, unici e irripetibili.
I vecchi vi sono nati, li conoscono a menadito, perché privarli di andare su e giù, di ascoltare il vociferare della gente, gli strilli dei bambini, di ammirare gli accesi colori della piazza del mercato, i banchetti di frutta, quelli del pesce, dei salumi e dei formaggi e apprezzarne i diversi odori che impregnano l'aria?
Meglio rischiare di cadere che rinunciare a tutto ciò.
Su questo punto rimango ferma e non accetto compromessi.
Insomma, cadere è facile, tanto più per un vecchio, ma non dimentichiamo che i vecchi hanno risorse talvolta sorprendenti, possono guarire anche ad età avanzatissime perché il loro fisico è esperto, seppur provato e soprattutto la motivazione di vivere non ha nulla a che vedere con l'anagrafe. Se ci crediamo e li rispettiamo, nel fisico e nei desideri, non ci deluderanno.
A questo proposito, mi soffermo solo su uno dei principali determinanti delle cadute nell'anziano, di cui noi medici siamo responsabili , che potrebbe essere semplicemente evitato con un po' più di accuratezza e di buon senso: i TROPPI FARMACI.
Diuretici, antipertensivi, antidiabetici e tanti altri, prescritti per riportare nei parametri definiti normali la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, la saturazione di ossigeno , oggi molto di moda, e gli esami del sangue , primo fra tutti il colesterolo, anche a 100 anni. Come se i numeri a posto fossero garanti della salute e la prescrizione da parte del medico e l'assunzione da parte del paziente liberasse la coscienza di entrambi da ogni scrupolo.
Per non parlare dei sedativi e degli psicofarmaci che correggono o per lo meno tentano di attenuare i comportamenti devianti, secondo schemi rigidi imposti dalla vita sociale e/o all'interno della comunità.
E non è tutto, perché, inspiegabilmente, si tramandano convinzioni che poco hanno a che vedere con la scienza e molto più con la superstizione. Per esempio, è opinione comune che in un vecchio l'emoglobina bassa non sia espressione di una malattia, l'anemia, mentre farsi i bisogni addosso, anche una sola volta, sia una patologia etichettata incontinenza , singola o doppia , e necessiti di immediato trattamento: il pannolone a vita.
Quante domande frullano nella mia mente! Che cosa sarebbe successo a Fortuna , la ultracentenaria che si è recentemente fratturata il femore, se avesse avuto 10 di emoglobina anziché 14 e rotti? Considerato che dopo l'intervento i valori sono scesi a 9,7 nonostante una emotrasfusione ? L'avrebbero operata lo stesso e, nel caso, avrebbe sopportato una anemia così grave?
Non posso avere risposte a queste domande, ma resta il fatto concreto che l'anemia non è necessariamente legata all'età. Mi viene da pensare che neanche le altre patologie lo siano. Da cui deduco che si può essere vecchi e sani, anche se, qualche volta, ci scappa la pipì nel letto.
Concludo con la metafora che più mi piace: la vita è una maratona, va goduta tutta, dall'inizio alla fine perché ogni istante, che sia di gioia o di dolore, di soddisfazione o avvilimento, di forza o debolezza, porta con sé un fascino irripetibile e indistruttibile, degno , appunto, di essere vissuto.
La partenza e l'arrivo sono attimi del tutto ininfluenti.