Una notte di guardia, come tante. Mi chiamano. Sono le 3 e 38. “ Dottoressa, può salire per favore al primo piano? La paziente al letto 110 è piuttosto agitata. E’ una anziana signora che sarà dimessa in mattinata”.
“Certo, salgo subito” rispondo prontamente con voce fiera nel tentativo di mascherare la profonda sonnolenza che mi sta avvolgendo e mi impedisce di aprire gli occhi. Infilo nella tasca del camice il telefono di servizio, inforco gli occhiali e mi incammino ad occhi semichiusi nella speranza che non sia necessario svegliarmi del tutto per rispondere al bisogno della paziente così da potermi riaddormentare al più presto. L’esperienza in questo mi è di aiuto.
Ma non appena entro nella stanza gli occhi e la mente mi si aprono di colpo: la paziente sta morendo.
Non so nulla di lei, solo che è anziana e in dimissione. Le infermiere sono attonite, mi dicono che un attimo prima era solo agitata, insonne, i parametri vitali perfettamente nella norma. La badante è impegnata al telefono: sta avvisando il parente più prossimo della gravità della situazione.
Che fare? Non c’è polso, il respiro è boccheggiante, agonico. L’ossimetro, implacabile, segnala un valore di saturazione incompatibile con la vita: 31%. Ordino di prendere una mascherina e di mettere l’ossigeno, al massimo. Poi scorgo che è stato mantenuto un accesso venoso al polso destro e prescrivo fisiologica a velocità elevata e un po’ di cortisone che non guasta . Lascio il resto al destino.
Nell’attesa che il destino faccia il suo corso chiedo alla badante cosa esattamente sia successo. Mi risponde che la Sig.ra Lidia, improvvisamente, si è messa seduta nel letto, agitata ed ha iniziato a farfugliare parole incomprensibili, come se le mancasse il fiato. Alcuni minuti prima le aveva confessato che aveva paura di morire e che era preoccupata , ma, nello stesso tempo, felice del fatto che, di lì a breve, sarebbe tornata a casa. Nei pochi interminabili minuti che seguono riesco a prendere visione degli esami laboratoristici e delle indagini diagnostiche che non giocano certo a suo favore. Qualcuno mi dice che ha 96 anni compiuti, ma che è sempre stata una donna energica, volitiva, che andava incora in palestra a fare ginnastica.
L’ossimetro continua a scandire la sua sentenza impietosa: l’ossigenazione non sale, ma la circolazione dà qualche accenno di miglioramento, il polso riprende a battere con frequenza normale, 80 al minuto, la pressione arteriosa si sta alzando e il respiro, da boccheggiante, diventa affannoso, pieno di rumori, ma più regolare e frequente. Lidia accenna a qualche movimento delle mani. Il mio cervello ora è attivato al massimo e cerca di comprendere cosa possa essere successo. In emergenza la terapia deve essere precisa e essenziale e non ci permette errori. Prescrivo altri farmaci in sequenza rapida, direttamente in vena.
Arriva il nipote, trafelato e mi fissa, attonito, dicendomi che vuole molto bene alla zia, unica anziana superstite della famiglia. Cerco di spiegare al meglio cosa è avvenuto, misurando le parole per non illudere, ma nemmeno dire “Non c’è più niente da fare”. In urgenza non bisogna cedere le armi, bisogna crederci, a qualunque età e in qualunque contesto, altrimenti come è possibile agire? La mente del medico si apre di fronte alla speranza e la certezza di fare quanto è umanamente possibile, deve prevalere sull’incertezza costante delle nostre decisioni. Non dico al nipote di lasciare la stanza, non l’ho quasi mai fatto in circostanze simili, ma lui, discreto, si accosta ad un angolo e rimane silenzioso. Lidia reagisce, con tutte le sue forze, inizia a muoversi, a parlare, addirittura a collaborare nel tentativo di trovare una posizione che le renda meno faticosa la respirazione. La speranza cresce e mi coinvolge, ma mi sento in dovere di sottolineare che la situazione è estremamente instabile e non ci permette assolutamente di cantare vittoria.
Ad un certo punto, il nipote si avvicina alla zia, le dà un bacio in fronte, poi mi sussurra: “ Dottoressa, io non ho alcun dubbio che lei sta facendo tutto il possibile per la zia, l’ho osservata mentre lavora, grazie” Poi aggiunge: “La zia ha una fibra forte, pensi che, per pianificare il futuro, ha sempre usato l’espressione SE MORIRO’ anziché QUANDO MORIRO’…”
Sono le 6,30, le condizioni di Lidia sono ancora critiche e instabili, è necessario andare avanti e saperne di più per correggere il tiro. Chiamo il cardiologo reperibile, l’anestesista e provvedo al trasferimento in terapia intensiva. Lidia è in buone mani. Alle 8,30, a fine del turno, saluto il nipote, esprimendo di nuovo le mie preoccupazioni per la gravità della situazione. “Sono certo che Lei ha fatto tutto il possibile e questo è per me fondamentale, al di là del risultato. Grazie.” Poi, con un sorriso sommesso di sincera gratitudine, mi porge la mano e si avvicina per baciarmi il volto.
Queste cose non si dimenticano.
Sabato 26 luglio 2014: riprendo il servizio di guardia, qualche minuto prima delle ore 13, ma il collega che devo sostituire non è presente in stanza. E’ salito al primo piano, in terapia intensiva perché Lidia sta morendo. Per ironia della sorte, l’ora del decesso corrisponde alla mia entrata in servizio.
L’infermiera avvisa il nipote che, a breve, entra nella camera e dà un bacio in fronte alla zia. Poi si accorge della mia presenza, si avvicina, mi porge la mano e, silenziosamente, mi bacia. Rispondo con un’espressione del volto che forse lascia trasparire l’ amarezza dell’inutilità del mio intervento, capace solo di concedere a Lidia due giorni in più di sopravvivenza agonica.
“Immagino quello che pensa, ma sappia che quello che Lei ha fatto non è stato inutile. Il 24 luglio è il compleanno di mia figlia e la zia ci teneva tantissimo che io fossi presente alla festa, per questo voleva essere dimessa proprio in quel giorno. Se fosse morta quella notte non avrei potuto esserci e sarebbe rimasto un amaro ricordo. Tutto questo lo devo a Lei. Grazie”.
Queste cose non si dimenticano.