Prima o poi poteva succedere, a 96 anni, e così è avvenuto: Silvia si è rotta una gamba senza apparenti traumi, in termini più appropriati ha avuto una frattura spontanea del femore destro.
Quando l'ho vista in quel letto della camera doppia della traumatologia d'urgenza, mi ha fatto una grande tenerezza. Era sveglia e scrutava l'ambiente intorno a sé con sguardo curioso, mezza nuda , il pannolone maleodorante e zuppo, che aveva accuratamente slacciato senza però riuscire a sfilarselo, le lenzuola stropicciate e accartocciate in fondo al letto che denunciavano, senza ombra di dubbio, la battaglia che doveva essere avvenuta durante la notte.
Appena mi ha visto, il suo volto si è illuminato e ha esclamato sorpresa: " Anche tu qui! Ma io ti conosco, ti ho già visto, da dove vieni?" " Da Marte" Risposi pronta: " Ricordi, Silvia, sono la tua amica marziana .... Ma che cosa hai combinato?"
Silvia: "Non lo so, sono qui in mezzo al piscio!" rivolgendo lo sguardo indispettito al pannolone che trasudava urina tanto era imbibito. D'altra parte alle 7,30 del mattino i pazienti sono ancora tutti da sistemare.
Rosanna: " Devi avere pazienza, sei in ospedale perché ti sei rotta una gamba e ora ti devono operare"
Silvia: " Rotta una gamba? Ma come ho fatto?"
Rosanna: " Non lo so , Silvia, ma vedrai che presto ti opereranno e andrà tutto a posto"
Mi guardava con aria stupita farfugliando tra sé : " Mah, io non ci capisco proprio niente!" e perseguiva a manipolare tutto ciò che le capitava a tiro strappando pezzettini di pannolone che gettava a terra con rabbia.
Mi dovevo congedare, avevo fretta, ma le promisi che sarei tornata presto a trovarla. Silvia mi salutò calorosamente, senza comprendere.
L'intervento chirurgico programmato entro 48 ore venne rimandato di altre 24 per una urgenza (almeno così fu detto al fratello), così Silvia ebbe modo di proseguire le sue battaglie notturne e di rifiutare di mangiare qualunque cosa le si proponesse.
Io non riuscii a parlare con i medici del reparto, ma parlai di Silvia e del suo stravagante carattere alla caposala e alle infermiere, che mi conoscevano bene, avendo lavorato con me tempo addietro. Per riguardo nei miei confronti, nessuno osò attribuirle epiteti del tipo "fuori di testa, fuori di melone, fuori come un poggiolo" e sono certa che il mio intervento abbia in qualche modo contribuito a limitare la prescrizione di sedativi e l'utilizzo dei mezzi di contenzione, sponde del letto escluse.
Le cinghie ad entrambi i polsi erano però d'obbligo subito dopo l'intervento, affinché Silvia non si strappasse le flebo.
" E io come faccio? Se mi prude la testa io come faccio a grattarmela?". Mi ha detto, appena mi ha visto, sventolando entrambe le mani e le braccia per quanto le era consentito dai lacci. Dovetti constatare che aveva perfettamente ragione, come avrebbe potuto grattarsi la testa se non ci arrivava?
Rosanna:" Devi avere pazienza, Silvia, ti hanno appena operato e hai la flebo!"
Silvia: " Ma cosa dici? Mi hanno operato? Ma va! Mi porti a casa? Mia mamma mi aspetta e non sa dove sono."
Mi accorsi che la sua lingua era patinosa, il suo volto decisamente pallido, ma la grinta, quella era tale e quale. Meglio così, dissi tra me e me. L'infermiera mi confermò che avevano richiesto del sangue per un calo brusco dell'ematocrito, in attesa del trasferimento in altro reparto per la riabilitazione.
Altri due giorni ed ecco che arriva puntuale la telefonata del fratello, disperato che annuncia l'imminente dimissione. Silvia non collabora, non mangia, si strappa tutto e di notte, invece di dormire, fa le battaglie con il letto. Non risponde alle cure: effetto paradosso. Quindi non è possibile riabilitarla.
Non fui di certo sorpresa e accettai di buon grado il suo rientro in residenza programmato per il lunedì mattina. Potevo accoglierla io stessa e questo era cosa buona.
Che tristezza vederla nel letto della sua stanza al primo piano conciata in quel modo! La camicia da notte stropicciata, macchiata sul davanti, forse di caffè e latte, i capelli ancora brizzolati, ingialliti ed unti, il volto pallido, sofferente, lo sguardo attonito, cerotti multipli sulla coscia destra di cui uno, staccato quasi del tutto, lasciava intravedere punti neri di sutura, il catetere vescicale il cui sacchetto svolazzava qua e là lambendo il pavimento mentre gli operatori cercavano di sistemarla nel letto.
Il mio sguardo era ancora più attonito del suo. Povera Silvia! Perché mai doveva sopportare tutto questo?
"Togliete tutto, vestitela e portatela in salone" Dissi sorprendendomi da sola di aver impartito un ordine così di getto da ritenere poco probabile che fosse il risultato di un processo decisionale. La mia uscita immediata dalla stanza, che assomigliava più ad una fuga, mi lasciò altrettanto sorpresa, non essendo un comportamento abituale. Deve avere lasciato di stucco anche l'infermiera e l'operatore, alle prese con i residui dell'ospedale appiccicati sul corpo di Silvia, tra cui, dimenticavo, anche l'ago cannula che faceva capolino da una medicazione fluttuante sul polso sinistro.
Forse, in quel momento, il mio principale obiettivo era annunciare il ritorno di Silvia.
Non potevo credere ai miei occhi quando è comparsa su di una carrozzella all'angolo del corridoio che unisce l'ascensore al salone. Vestita di tutto punto con un maglioncino scuro ravvivato da rombi di diversi colori, rossi e gialli, la sua collana preferita, gli orecchini, il sorriso raggiante, i puffetti sul viso disteso dalla soddisfazione e la sua voce fiera che esclamava: "Questa è casa mia! Voglio stare con voi! E' vero che ora sto con voi? Che non ve ne andate?"
A questo punto era d'obbligo un bel plauso e tutti parteciparono con gioia. Silvia applaudiva, felice, continuando a ripetere "Sono a casa, con mamma e papà!", incurante del fatto che proprio mamma e papà non esternassero alcun entusiasmo per il ritorno della loro "figliola", mostrandosi invece indispettite per la necessità di spostare il tavolo di pochi centimetri per posizionare agevolmente la carrozzella.
Anche il fratello di Silvia era incredulo, con le lacrime agli occhi, estasiato. "Ma non è la stessa persona che era in ospedale! Non è possibile! E come mangia? Non ha mangiato nulla in questi giorni, diceva che tutto le faceva schifo!". In effetti sembrava si fosse compiuto un miracolo. Persino la lingua, forse per via del budino al cioccolato, aveva perso, come d'incanto, la sua patina biancastra.
Che sia per la collana? Mi chiedo. O forse gli orecchini, o il rossetto sulle labbra? Quale magia si è compiuta in così pochi istanti? Ho impartito un ordine, in modo perentorio, quasi scortese: " Togliete tutto e portatela in salone!". Forse non ho detto nemmeno di vestirla, comunque sicuramente non ho detto di lavarla, pettinarla, truccarla. Sono state le operatrici, di loro volontà, a compiere tutto questo, a rendere il clima di festosità adeguato all'accoglienza, a permettere che l'applauso fosse d'obbligo .
Che siano questi i fattori umani? Che sia la soddisfazione di rivedere i propri cari, di sentirsi a proprio agio in ogni occasione, di sedere al tavolo con mamma e papà , di gustare i cibi preparati con amore, di apprezzarne il profumo, di poter dire sì o no e chissà quante altre cose, a permettere che il miracolo si compia?
Se è così i fattori umani sono davvero importanti e per tutti. Come possono i professionisti della salute non tenerne conto? I fattori umani appartengono al medico, all'operatore, al fisioterapista, all'animatore, al malato, vecchio o giovane che sia, indipendentemente dalla patologia e sono individuali, propri per ciascuna persona, in altre parole, non sono interscambiabili.
E se non avessi detto di togliere tutto? E Silvia fosse rimasta a letto con il suo catetere vescicale per monitorare la diuresi ancora per qualche giorno, come da protocollo, con il materassino antidecubito e i cambi posturali prestabiliti e qualche goccia di Talofen serale per limitare le battaglie con il letto e i cibi tritati, visto che mangiava poco, o forse, ancor meglio il pappone? No, il pappone no, non posso nemmeno pensarci. Eppure, i ricordi mi sommergono di tristi sensazioni. No, non è possibile, bisogna credere, avere coraggio, rischiare, osare, sperare. Perché questa è la vita.
Ora sì che incomincio a capire. Che importa essere dementi se si ama la vita? Se si apprezzano i colori e l'aria fresca degli spazi aperti e si raccolgono le foglie e i fiori del giardino per inghirlandarsi la testa? Che importa avere una gamba rotta, essere operati, se poi è possibile ritornare a far le cose di prima, a casa propria? O farne altre, che importa?
Brava Silvia, ancora una volta ci hai insegnato tante cose. Te ne sarò per sempre grata.
E grazie per aver provveduto da sola a toglierti i punti, senza usufruire di disinfettante, forbici e pinzette diligentemente sterilizzate. Sapevi che la residenza ne era sprovvista e ci hai risparmiato una fatica.
La guarigione perfetta della ferita testimonia la maestria delle tue belle mani, dalle dita affusolate e le unghie smaltate di rosso, il colore che preferisci.