“Chi bene inizia è alla metà dell’opera” direbbe nonna Rosina se fosse ancora viva. Nel corso della sua lunga vita si era sempre mostrata aperta alle innovazioni, aveva fiducia nelle persone, fino a prova contraria, non si lasciava intimorire dalle dicerie verso le quali nutriva un sano scetticismo: insomma sapeva utilizzare al meglio i suoi neuroni e stimolava i giovani a pensare con la propria testa fin dalla più tenera età.
Nonna Rosina, quando apprese della mia intenzione di iscrivermi all’Università di Medicina, mi disse che, se avesse avuto l’opportunità di studiare anziché portare al pascolo le pecore, le sarebbe piaciuto diventare un medico e chissà se questa sua inclinazione abbia influenzato inconsapevolmente la mia scelta.
Era ligia alle prescrizioni mediche, ma gradiva comprendere il perché e il percome degli interventi terapeutici; nonostante le scarse possibilità di informazioni sanitarie alla sua portata, sapeva dare una lettura sobria ed equilibrata alle diverse situazioni con le sole doti intuitive e con il buonsenso.
So per certo che l’influenza spagnola, quando aveva poco più di 20 anni, non l’aveva nemmeno sfiorata, non ricordo invece le successive pandemie del 1957 e tanto meno quella del 1968, quando io ero già quasi maggiorenne. D’altra parte aveva sempre goduto di buona salute ad eccezione di un piccolo evento ischemico cerebrale che aveva compromesso l’uso della parola, risvoltosi in breve tempo nel migliore dei modi e l’unico presidio che utilizzava quotidianamente era la pomata del Dott. Biancardi per le lentiggini che non le piacevano affatto.
Quindi, in linea con le convinzioni di nonna Rosina, non posso far altro che accogliere con entusiasmo l’arrivo della vaccinazione anti-Covid e nutrire la speranza che sia di buon auspicio per il 2021 e arresti l’infrenabile contagiosità del virus Sars- Cov- 2 che tanti morti e tanti danni ha provocato fino ad ora in tutto il mondo. Mi vaccinerò presto, anzi prestissimo: la prima dose è prevista tra 4 o al massimo 8 giorni in quanto farò da jolly per raggiungere il numero richiesto che deve essere rigorosamente multiplo di 6 per evitare di sprecare il prezioso vaccino una volta aperta la confezione.
Sprecare le risorse non è affatto cosa buona in ogni tempo, figuriamoci ora, in piena emergenza economica, oltre che pandemica, anche in considerazione del fatto che se le risorse sono limitate, per ovvie ragioni, le esigenze e talvolta le pretese della popolazione sono invece infinite.
Nell’ultimo trentennio l’uso appropriato delle risorse è stato uno dei capisaldi della qualità dell’organizzazione dei servizi sanitari ed il termine appropriatezza è stato il filo conduttore dei principali documenti nazionali di programmazione sanitaria, per citare le stesse parole tratte dall’articolo dal titolo “Appropriatezza, un problema comune” di Giovanni Peronato, medico di Vicenza, pubblicato il 24 febbraio 2020 sul sito www.saluteinternazionale.info. Una procedura è appropriata se il beneficio atteso supera le eventuali conseguenze negative con un margine sufficientemente ampio, tale da ritenere che valga la pena effettuarla. Questa definizione, proposta dalla Rand Corporation (organismo statunitense creato nel 1948 a scopi militari) è stata in parte accettata in ambito europeo, ma con modalità che tengono conto del coinvolgimento del paziente nelle scelte da effettuare, dopo adeguata informazione da parte dei sanitari.
Io personalmente preferisco la definizione di Slow Medicine che considera appropriata la prestazione effettuata in modo giusto e nel momento giusto al paziente giusto, nel rispetto dell’individuo, dell’ambiente e dell’ecosistema, definizione che implica anche il concetto di sobrietà e quello di equità. In questo senso è evidente che l’appropriatezza non può prescindere dalla relazione di Cura perché un intervento definito teoricamente appropriato può non esserlo per quel dato paziente, in quel dato contesto.
A questo proposito mi vengono in mente le parole di un maestro, il Prof. Gian Domenico Sacco, neuropsichiatra tragicamente scomparso a poco più di 80 anni, parole riportate in un mio scritto del 2013 mai pubblicato dal titolo “Cosa c’entra l’Evidenze Base Medicine?” . La conversazione, effettuata in un giorno in cui ero medico di guardia in Clinica, verteva sul rapporto medico- paziente, sulle difficoltà di decisione condivisa del percorso diagnostico- terapeutico che spesso si verificano anche quando il malato è un medico: dubbi, perplessità, convinzioni presenti nell’uno e nell’altro, circostanze di vita, in una sola parola i cosiddetti fattori umani che condizionano i nostri comportamenti, a prescindere delle conoscenze scientifiche.
Ebbene ecco le sue parole: “L'approccio tradizionale "patient oriented" è stato, soprattutto in Italia supinamente - e spesso tragicamente! - sostituito dalle biblizzate linee guida "disease oriented", che risparmiano sicuramente al medico la fatica di ragionare nella assoluta dimenticanza della verità del proverbio "non esiste la malattia, ma il singolo malato.", cioè la singola, irripetibile e concreta persona sofferente che ti sta di fronte! L'apporto conoscitivo da parte delle linee guida "disease oriented" la cui eclatante assurdità consiste dal partire dal traguardo dell'iter diagnostico e non dalla sua linea di partenza […] non va scartato, a condizione che venga usato sempre complementariamente ed in modo assoluto mai alternativamente, al metodo diagnostico tradizionale "patient oriented", costituito da un iter mai totalmente identico a quello di qualsiasi altro paziente […] “.
Parole sacrosante, che accolgo col cuore e col la mente, e che, a mio parere, rappresentano il vero succo della questione.
E … e, direbbero Giorgio Bert e Silvana Quadrino, maestri del counselling sistemico, mai o … o.
Le linee guida private del pensiero critico che è alla base della valutazione clinica, possono sortire paradossalmente l’effetto contrario a quello per cui sono state istituite e finalizzate: la sicurezza del medico e del paziente. Senza considerare che il gruppo di esperti che le redige non è affatto immune dal conflitto di interessi in quanto la pressoché totalità delle società scientifiche ha legami finanziari con aziende farmaceutiche e industrie tecnologiche e questo può portare a formulare linee guida per così dire “compiacenti”. Tale rischio, paventato dalla Rete Sostenibilità e Salute, nel documento “Appropriatezza e Linee Guida” ha ripercussioni importanti sulla responsabilità professionale degli operatori sanitari in caso di contenzioso legale, come è previsto dalla legge 24/2017, la cosiddetta Legge Gelli.
Nella mia mente si concretizzano, con forza prorompente parole come medicina difensiva, medicalizzazione, potere, incompetenza, malafede, ricerca del profitto, parole che pesano enormemente sulle nostre scelte e sono in grado di alterare i nostri comportamenti.
Insomma un insieme di elementi imprescindibili e intrecciati rende molto difficile stabilire ciò che è appropriato in sanità, figuriamoci in tempo di emergenza pandemica, in un contesto economico disastroso a livello mondiale, come quello odierno.
Ben venga il vaccino, quello che sia, per rallentare se non interrompere la deriva di separazione, sequestro, innalzamento di muri, discriminazione, frammentazione e parcellizzazione che abbiamo intrapreso. Che ha portato a isolamento, deprivazione degli affetti, ansia da separazione, confusione, incomprensioni, conflittualità, mettendo in rilievo quanto le dicotomie, in primo mente-corpo possano vanificare i fini che ci prescriviamo, a partire dalla tanto ambita appropriatezza.
Per tutti questi motivi, annodati e ingarbugliati, il vaccino anti-Covid non è stato accolto con troppo entusiasmo né dal personale né dagli ospiti di Casa Morando: dubbi sull’efficacia e durata dell’eventuale azione protettiva, coesistenza di allergie o altre patologie su base immunitaria, paura di fare da cavie che esplodevano dopo la lettura del modulo del consenso informato, tutto ciò era presente nella totalità dei soggetti in grado di fare delle scelte, altri percepivano il clima di incertezza e perplessità, dimostrandosi rassegnati o del tutto indifferenti.
Alla fin fine, dopo aver coinvolto nella decisione i parenti più stretti ed i medici di famiglia, in linea con quanto disposto dalla procedura e soprattutto dalla mia coscienza, ed aver risposto sì alla domanda “Ma tu te lo fai?” l’adesione è stata del 90% per gli ospiti e quasi del 70% per il personale, dati ritenuti soddisfacenti dagli organi istituzionali che hanno apprezzato pure la mia capacità, da esperta matematica, di conoscere addizioni e tabelline. Infatti in data 14/01/2021 in Casa Morando sono stati vaccinati N. 19 ospiti + N. 5 operatori per un totale di N. 24 persone (6 x 4 = 24, quindi multiplo di 6).
Tutto secondo le regole imposte, ma “con l’aggiunta di quel pizzico di sale in più che rende le cose gustose (anche quelle che proprio non lo sono)”, queste le parole del Presidente Francesco rivolte alla Direttrice Maria Grazia.
La foto sottostante è una piccola testimonianza del clima sereno e gioioso che regnava durante la seduta vaccinale: Carlo intonava il ritornello della canzone popolare genovese “Olidin Olidena”, Luciana rideva a crepapelle impressionata dal mio copricapo bizzarro che in realtà era un soprascarpe e Armando, il nuovo arrivato, appena uscito dall’area buffer, scrutava attonito l’ambiente, come a voler dire “Qui sono tutti matti!”, ma, per lo meno, non era triste. Al termine, caffè e biscottini in abbondanza.
Il tutto nella convinzione che la disposizione d’animo influisca fortemente sulla guarigione, in questo caso sulla risposta immunizzante dell’organismo, esattamente come sosteneva il medico veneziano Vicentini, che, più di due secoli fa, aveva introdotto nella Repubblica Serenissima una pratica antivaiolosa “soave”.
A quei tempi la pratica tradizionale per prevenire il vaiolo consisteva nell’innesto di materiale purulento delle pustole umane per provocare una eruzione cutanea a scopo depurativo. Tutto ciò si basava sull’ipotesi “scientifica” che l’agente morboso fosse di origine interna all’organismo e che uno spurgo copioso avrebbe dato maggiori garanzie di risanare il corpo definitivamente. Gioco forza era praticare tagli, innesti di fili infetti, impiastri e fasciature, vescicature già di per sé caustiche che rendevano l’inoculazione a dir poco una pratica cruenta con effetti devastanti. Correva il 1768 e il progetto Slow “Fare di più non significa fare meglio “non era ancora nato.
Ma per fortuna c’è un tal Francesco Vicentini che, insieme ad un altro medico di nome Gatti, suo mentore, non la pensa affatto allo stesso modo e si dimostra molto scettico sull’altrui bisogno di teorizzare senza costrutto “sull’inutile ricerca di cose al nostro intelletto inaccessibili, come per esempio cercando, qual sia la natura del veleno vaioloso […]. Tali ricerche sono imperscrutabili, ed inutili [...] tanti Secoli di meditazioni Filosofiche [...] non hanno ancora data una plausibile spiegazione...”. E sulla malattia da altri considerata una “gagliarda depurazione...” dell'organismo, commenta così: “io non potrò mai collocare tra le depuratrici operazioni di natura un male che ammazza almeno la decima parte di quelli che attacca; e maltratta la maggior parte del restante di essi...”.
Il medico illuminato predilige l’approccio empirico basato sull’osservazione e sul confronto con i colleghi europei e in altri parti del mondo ed è fautore dell’inoculazione preventiva, ma aborrisce le pratiche cruente caldeggiando la procedura soave, come condizione irrinunciabile per l’esito positivo dell’innesto. Spiega inoltre ai suoi superiori che l’esperienza sua e dei colleghi ha mostrato come le circostanze che rendono la malattia più o meno pericolosa siano, oltre alla via attraverso cui il morbo entra nell’organismo, anche la disposizione del soggetto, la qualità e la quantità del contagio: “è facile vedere quanto vantaggiosi effetti produr possano […] le grate distrazioni; e quanto all'incontro nocivo esser debba il non necessario tetro apparato di malattia...”. Tutto per i pazienti deve essere confortante, a partire dalla scelta delle persone dedicate alla loro cura “diligenti, ed amorose […] dell'uno e dell'altro sesso …”, e che esse “abbiano pazienza, e premura e vigilanza nel servire, e trattenere quei piccoli Malati...”.
Ai fini del rapido recupero salutare, per Vicentini, è anche importante il movimento, ma: “se l’esercizio ha da esser utile, dee essere accompagnato da distrazione...”. Non serve far soffrire il paziente, quando è sufficiente una sola “puntura d’ago [...] Nessun apparecchio Solenne, e spaventante; nessun dolore, nessun pericolo di piaghe, ed ulcere...”. Infatti i bambini inoculati all’Ospedale dei Mendicanti, potevano giocare e muoversi a loro gradimento e per favorire lo svago, considerato terapeutico, Vicentini aveva cambiato il sito dell’innesto dalla mano al braccio. “La maggior difficoltà di questo affare è stata la disciplina di questi ragazzi. Vivacissimi [...] maleducati [...] È un miracolo se non nacquero più gravi disordini da questa cagione...”. Queste le conseguenze della sua pratica soave, riportate con le sue parole.
Ma non è tutto, infatti Vicentini, che senza dubbio potremmo definire “slow”, fa anche riferimento al ruolo del medico, condizionato nell’azione dalla sua impostazione in diverso grado teorica o empirica, ma anche più o meno interessato a protrarre lucrosamente i tempi dell’operazione, esaltando o creando difficoltà non necessarie. A questo riguardo riferisce che “quando l’Innesto passò dall’Asia in Europa, dalle mani delle Madri semplici a quelle de’ Medici, le false Teorie, e la impostura s’intrusero a guastarlo...”, mentre in generale l’inoculazione “non riesce nemmeno travagliosa, se tale non la rende un improprio trattamento...”.
Questa avvincente testimonianza dal titolo “La Repubblica Serenissima introduce una profilassi antivaiolosa soave …”, tratta da documenti storici e scritta dalla cara amica Silvia Stagnaro, è stata pubblicata sul volume: Gagliarde spese... incostanza della stagione. Carteggio Giovanni Querini – Caterina Contarini 1768 – 1773 (a cura di A. Fancello M. Gambier. Venezia, Gambier&Keller, 2013).
È proprio vero che l’animo umano è sempre lo stesso, penso io, nonostante il progredire della scienza, tra conferme e smentite, e l’avanzare inarrestabile delle innovazioni tecnologiche. Cambiano i tempi, cambiano le procedure, ma l’agire quotidiano di ognuno di noi è dettato fondamentalmente da quei fattori umani che non saranno mai scalfiti dallo scorrere dei secoli.
Il 2021 passerà alla storia come l’anno della vaccinazione – antiCovid, arrivata prima di quanto ci aspettassimo proprio nel mese di gennaio e spero anche come l’anno della fine della pandemia, della ripresa economica, della nascita di un nuovo welfare più attento ai bisogni fisici e affettivi delle persone.
Perché “chi ben inizia è alla metà dell’opera”. Lo diceva nonna Rosina.