Scrive Giorgio Bert, medico, co-fondatore di Slow Medicine che, secondo Ildegarda di Bingen (1098-1179), monaca alquanto singolare, musicista, poetessa, filosofa, linguista, medico, il corpo non può essere paragonato a una macchina, similitudine che divenne dominante qualche secolo dopo e rimase in auge fino a quasi i giorni nostri. Il corpo somiglia invece a una pianta e il medico a un giardiniere. Se una macchina si rompe non può aggiustarsi da sola; se una pianta viene danneggiata o ferita, essa può in larga misura curare e guarire sé stessa senza interventi esterni (la vis medicatis naturae).
Questa frase, tratta dall’articolo “L’arte medica tra direttività e visione sistemica: medico meccanico o medico giardiniere?” pubblicato su “Riflessioni sistemiche” N. 14 del 2016, mi ha scatenato una marea di pensieri, intrecciati ad immagini di anziani imploranti alla ricerca di uno sguardo compassionevole, nascosto sotto la visiera o di un sorriso complice, celato dalla mascherina piuttosto che di una semplice carezza, capace di generarti quella benefica sensazione di contatto fisico che può avvenire solo a pelle nuda.
Scrive ancora Giorgio Bert: il medico giardiniere è molto diverso da un medico meccanico: se una pianta soffre non si precipita a caricarla di interventi, di rimedi, di pesticidi, ma comincia col domandarsi (e domandarle!): “ Di che cosa hai bisogno? Più sole? Più ombra? Più acqua? Un terriccio diverso? Nutrimento? Eliminazione di parassiti? Quali sono le sue risorse naturali che possono venire esplorate e incentivate?”. La pianta sa cose che il giardiniere ignora. La relazione tra i due è la “cura” e come ogni relazione non è scientifica (è irripetibile, variabile, modificata dal contesto e dal tempo, non riproducibile, non misurabile …). Scambio. Reciprocità. Armonia. Equilibrio.
Elementi tutti che la pandemia ha ridotto ai minimi estremi, se non del tutto cancellati.
Ma è tutta colpa del Coronavirus? Mi chiedo.
Sappiamo bene che la salute non è un fatto esclusivamente biologico, ma un prodotto che riconosce numerosi determinanti diversi: storici, culturali, familiari, lavorativi, economici, sociali, ambientali, climatici, demografici …
Sappiamo inoltre che è necessario distinguere tra la malattia vera e propria, quella che l’antropologo Guerci definisce l’etichetta dotta della malattia, la diagnosi (in inglese “disease”) e la percezione soggettiva di un malessere, disagio, sofferenza, cioè il vissuto della malattia, al quale non possiamo apporre alcuna etichetta (in inglese “illness”).
Una differenza che non è affatto di poco conto, considerato che nella “disease” si è soliti identificare sedi specifiche dell’organismo che vengono colpite o tutt’al più l’organismo intero (malattie cosiddette sistemiche), mentre nella “illness” la “sede”, se così si può definire, non è individuabile in quanto, nella maggioranza dei casi, si colloca nella relazione tra organismo e ambiente esterno.
Ma non è tutto, esiste anche la “sickness” , che è la malattia di un membro della società nella misura in cui è percepita e presa in carico dalla comunità, dall’ambiente sociale del malato.
Il concetto di sickness è forse enigmatico per la mentalità occidentale. Scrive Antonio Guerci nel suo Breve saggio sulle rappresentazioni e costruzioni della variabilità umana dal titolo “Dall’Antropologia all’Antropopoiesi” (Cristian Lucisano Editore, 2011).
Lo spiega con un esempio che ci deve far riflettere.
Noi, appartenenti alla civiltà occidentale, utilizziamo spesso la locuzione tessuto sociale per descrivere situazioni umane particolari prendendo in prestito, senza rendercene conto, un termine estrapolato dall’istologia (tessuto) e connotando un insieme di elementi indipendenti (cellule/individui), ognuno delimitato dalla propria membrana (cellulare/prossemica) con all’interno i propri organi vitali, tutti delegati ad una funzione (fisiologica/lavorativa).
In numerose altre società la situazione è del tutto differente e l’immagine figurata che fornisce una connotazione più precisa é quella del sincizio, vocabolo anch’esso preso in prestito dall’istologia, che vede, all’interno di una comune massa citoplasmatica, organuli cellulari dispersi nel liquido, condivisi da ogni spazio e in ogni spazio della società-sincizio. Ogni componente della compagine e ogni sua attività avviene in comunione e in condivisione, e scopo ultimo è la sopravvivenza del gruppo, comunità, villaggio, clan, grande famiglia.
È facile presumere che in società così strutturate i vissuti, di malattia e di morte, assumano fisionomie molto differenti. E così gli interventi mirati alla salute pubblica.
Ebbene, tornando alla pandemia che ci sovrasta ormai da mesi, e considerato che viviamo nel mondo occidentale, dove la medicalizzazione integrale della società è una dei tratti distintivi, non dobbiamo meravigliarci se il Coronavirus ha avuto un impatto così devastante sulla vita sociale di ogni individuo con controlli medici sempre più stretti finalizzati alla prevenzione della diffusione del contagio.
La “disease”, rappresentata dal riscontro della positività al tampone per la ricerca del fatidico Sars- Cov-2, ha vinto sulla Illness, almeno nella maggior parte degli individui, fra cui alcuni anziani addirittura ignari di aver contratto l’infezione, altri asintomatici mentre la sickness ha portato ad un unico e univoco comportamento, rappresentato dalla loro esclusione dalla vita di comunità e dal confinamento dei membri colpiti in aree apposite.
Che fine ha fatto la relazione di cura?
Che è scambio, reciprocità, armonia, equilibrio.
Gli operatori sanitari, tutti, si sono adoperati e continuano a farlo con dedizione e impegno ammirevole per far fronte alla situazione, ma questo non è abbastanza per uscire da uno stato emergenziale che coinvolge tutti gli aspetti della nostra vita.
Pensando solo alle persone etichettate “positive” ricoverate nelle strutture Covid, dalle connotazioni più svariate, navi, caserme, Hotel, RSA e quant’altro, è facile comprendere come sia difficile, soprattutto per chi ha i sensi offuscati dall’avanzare dell’età, sentirsi accuditi e curati da individui mascherati, non più identificabili nel loro ruolo specifico, limitati nei movimenti e nella produzione verbale dalla bardatura, capace di celare ogni emozione, come la tenerezza di uno sguardo o il tono soave della voce.
La rilevazione dei parametri fisiologici, la somministrazione della terapia, spesso eccessiva o perpetuata ben oltre il tempo necessario, le medicazioni, i cambi posturali, l’igiene della persona assorbono tutto il loro tempo a disposizione, a discapito della relazione di Cura, con la C maiuscola, l’unica che ci permette di comprendere ciò di cui le persone hanno bisogno nei momenti di sofferenza e di aggiungere quella spinta emotiva che ci fa desiderare di restare in questo mondo.
Perché è proprio così. Se, nella fase acuta della malattia, quando la diagnosi è fatta, il medico può permettersi di essere meccanico applicando i protocolli terapeutici, pur con le possibili differenze legate a parametri ben definiti, come l’età anagrafica o la presenza di co-morbilità, nella fase di evoluzione, in cui tutto si mescola e si complica, quando si tratta di stabilire la prognosi, il medico deve diventare giardiniere, saper ascoltare anche chi non ha voce, riflettere e chiedersi, utilizzando ciò che la scienza ci insegna: “Avrà sete? Avrà fame? Soffrirà di solitudine? Avrà perso la voglia di vivere o addirittura si sarà dimenticato di essere vivo?”.
Succede che, nella corsa sfrenata per arginare la diffusione del contagio e rispondere ai bisogni assistenziali cosiddetti primari, ci si dimentichi dell’importanza degli affetti più cari di cui sono state private le persone etichettate come positive al virus Covid-19, anche se con lieve sintomatologia correlabile all’infezione o addirittura asintomatiche. Figuriamoci quelle con sintomi gravi.
I giovani, con qualche sfuriata comportamentale, specie per quelli che già vivono un disagio sociale per le più svariate ragioni, hanno chance per superare il periodo di reclusione forzata, ma tanti vecchi non ce la possono fare e, se sopravvivono, lo fanno a scapito della loro qualità di vita, perdendo l’autonomia o acquistando l’etichetta di deteriorato mentale.
È doveroso però sottolineare che nella maggioranza dei casi non è l’infezione virale da Covid-19 a determinare il peggioramento clinico, ma la perdita della voglia di vivere che porta al rifiuto di alimentarsi, di bere e di relazionarsi con il mondo esterno, almeno nel modo ritenuto adeguato, costringendo gli operatori sanitari ad intervenie con farmaci (indispensabili spesso i sedativi), cateteri, sonde, punzecchiature per posizionare accessi venosi periferici e centrali che, inevitabilmente, aggiungono sofferenze e riducono ulteriormente le scarse risorse a disposizione di chi ha perso la motivazione di andare avanti.
Si chiama “sindrome da allettamento”, il nome non rende forse ai non esperti, ma è davvero grave e, non solo per la formazione delle tanto avversate lesioni da decubito, quanto per la compromissione dell’intero organismo che, non raramente, va incontro ad una condizione di disidratazione totale (a cui diamo il nome di iperosmolare) che porta a morte se ce ne accorgiamo troppo tardi.
Per accorgersene bisogna essere giardinieri e intervenire in tempo utile, anticipare le conseguenze peggiori e irreversibili.
Mi direte, anche il meccanico si accorge se manca l’acqua nel motore di un’autovettura e di conseguenza provvede a riempirne il serbatoio, ma la differenza sta nel fatto che la macchina non si può procurare l’acqua da sola; se il serbatoio è vuoto, il motore si fonde e il patatrac è fatto.
L’organismo umano, invece, ce la mette tutta per recuperare l’acqua che manca e mantenere adeguata la circolazione del sangue, prioritaria per la sopravvivenza. Il corpo umano è costituito in gran parte di acqua, inteso come elemento fisico, H2O, che sta in gran misura nelle cellule e nell’interstizio tra di esse, cioè nei tessuti. L’acqua totale si riduce con l’avanzare dell’età, rimanendo comunque intorno al 50% del peso corporeo nei grandi vecchi, valore che si commenta da solo e che evidenzia quanto sia indispensabile per la vita questo elemento. Se manca, il sodio nel sangue si concentra fino a valori di gran lunga superiori alla norma, richiamando l’acqua che si trova all’ interno delle cellule nel tentativo estremo di preservare il circolo ematico. Non sempre o per lo meno non subito la pressione arteriosa che noi misuriamo con grande solerzia si abbassa al punto da metterci in allarme per la semplice ragione che l’organismo attiva tutte le risorse in suo possesso (ormoni e altre sostante) capaci di costringere i vasi sanguigni e mantenere la funzione di trasporto di ossigeno agli organi vitali. Si attivano i reni che riducono fino ad annullare la produzione di urina, a scapito dell’eliminazione dei cosiddetti cataboliti, prodotti di scarto del metabolismo che, accumulandosi nel sangue, provocano effetti tossici. L’insufficienza renale e l’alterazione degli ioni che, insieme all’acqua si spostano dall’interno all’esterno del comparto cellulare, sconquassano tutto l’organismo e conducono a quella condizione irreversibile che noi medici chiamiamo stato di shock che può essere definito, in altre parole, il preambolo della morte.
Il giardiniere si accorge se ad una pianta manca l’acqua, ma per far questo deve osservarla, ascoltarla, accarezzarla, oserei dire incoraggiarla e non perdere mai la speranza che possa farcela a riprendersi.
Così deve fare il medico, l’infermiere, il fisioterapista, gli operatori socio-sanitari tutti e tutti insieme.Pietro ce l’ha fatta, nonostante i lunghi giorni in cui è stato costretto ad un letto, sedato e legato, affinché non si strappasse le flebo indispensabili per la sua sopravvivenza.
È tornato a casa, ha potuto riabbracciare la moglie e questa è la più grande soddisfazione che un professionista della cura possa avere.
La Cura, tanto più in un contesto pandemico, non può essere limitata a contrastare l’infezione virale e le altre patologie spesso coesistenti nello stesso individuo, con cocktail di farmaci, non privi di effetti collaterali e di interazioni dannose, che riducono le risorse insite in ognuno di noi e minano pesantemente le capacità di recupero.
In molti casi, pur avendo ottenuto la “guarigione virologica” da infezione da virus Sars- Cov- 2 sancita dalla conquista del “tampone negativo”, le persone anziane, colpite da una cascata di complicanze che si susseguono senza tregua, non sempre ce la fanno a superarle e a riconquistare quel benessere al quale attribuiamo il nome altisonante di “salute”. Alcune, ahimè, soccombono, private persino del diritto ad una morte dignitosa.
Di solito rifuggo dall’ attribuire colpe all’uno o all’altro così come dalle semplificazioni, ma, in questo caso, mi continua a risuonare nella mente la stessa domanda “E’ sempre colpa del coronavirus?”.
Non so rispondere, come sempre, ma so che continuerò ad essere un medico-giardiniere finché il destino me lo concederà.