Sto pensando da giorni a cosa scrivere nella rubrica di Per Lunga Vita per non essere noiosa e monotona, ma non riesco a distogliere la mente dal Centro post acuti Covid che dirigo da oltre 6 mesi e che ad oggi ha accolto qualche centinaia di persone, di tutte le età e nazionalità, risultate positive al famigerato tampone per la ricerca del virus Sars-Cov-2.
Mi perdonerete, pertanto, se parlerò ancora di questo periodo pandemico e vi racconterò delle storie, frammenti di vita di altri, che vivo nel quotidiano e che mi impongono interrogativi ai quali, come sempre, non so rispondere.
Nei mesi scorsi, in particolare maggio e giugno, i pazienti che venivano accolti erano prevalentemente anziani e, nella maggior parte dei casi provenivano dalle Residenze Protette e RSA sparse sul territorio, altri vivevano al proprio domicilio assistiti da familiari e badanti. Avevano contratto il virus e la conseguente infezione respiratoria nei modi più svariati, ma l’accesso al Pronto Soccorso o il ricovero ospedaliero per traumi o patologie intercorrenti di vario genere era senza dubbio la causa predominante.
Questo mi porta ad una prima considerazione che è esattamente l’opposto di quella che è scaturita dalla mente dei dirigenti politici della mia regione. Anziché pensare a blindare i vecchi nelle strutture erigendo barriere sempre più invalicabili e formare il personale di assistenza sulle “infezioni ospedaliere”, che significa medicalizzare la vita ancora di più di quello che è già, investirei sulla de istituzionalizzazione e sulle cure domiciliari, potenziando il territorio di servizi dedicati che permettano percorsi diagnostico-terapeutici tempestivi finalizzati al mantenimento dell’autonomia della persona.
Non è difficile comprendere come mesi e mesi di allettamento protratto, dove è concessa al massimo la mobilizzazione in poltrona, interrotti di tanto in tanto da qualche compassionevole video-chiamata, in ambienti asettici, in cui teoricamente non potresti valicare, anche per quelli in grado di camminare, la porta della stanza di reclusione, lascino nel cuore una sofferenza tale da farti morire dentro ancor prima che sopraggiunga la morte fisica o la possibilità di ritornare nell’abituale residenza dopo la cosiddetta “guarigione virologica”.
Ritornare dove? A casa propria non è più possibile, nonostante si siano ottenuti doppi, tripli, quadrupli tamponi negativi, nemmeno per quelli che la possedevano in precedenza e venivano accuditi da parenti, amici o badanti. Le condizioni cliniche e logistiche sono cambiate e, tra queste, la fa da padrone la perdita dell’autonomia, inevitabile dopo il periodo di immobilizzazione forzata, alla quale segue la perdita della badante, che ha dovuto arrangiarsi come poteva e magari ha fatto rientro al paese d’origine e in ultimo la perdita del domicilio per chi non viveva in famiglia o non era proprietario, per la disdetta in anteprima del contratto d’affitto, considerata l’incertezza del domani.
Insomma, gira che ti rigira, di perdita sempre si tratta e, causa la crisi economica in cui si trova l’intero paese, comprendo bene come i famigliari che accudivano con fatica i loro vecchi in ambito domestico, cerchino in ogni modo di accelerare le richieste di indennità di accompagnamento e ottenere il ricovero definitivo in convenzione con le ASL nelle strutture socio-sanitarie, quelle con funzioni di mantenimento a vita. Succede così che Lazzaro, che ha ottenuto la guarigione clinica e virologica dalla polmonite da Sars-Cov-2 da oltre 5 mesi, debba ancora attendere chissà quanto tempo per entrare in una RSA a costi agevolati, nonostante i parenti si siano dati un gran da fare per intraprendere l’iter burocratico necessario. Privatamente il posto c’è, ma il costo si aggira intorno ai 3000 euro al mese, Lazzaro ha una pensione di 600 euro e i figli poco di più per cui vien da sé che i conti non tornano.
Come è possibile perdersi in tali lungaggini burocratiche? Tanto più che il tasso di occupazione dei letti nelle residenze socio-sanitarie si è ridotto notevolmente per l’eccedenza di mortalità che si è registrata durante il picco pandemico? A questo domanda non riesco a immaginare una risposta che non sia deludente per il mio concetto di moralità.
Non va meglio per i vecchi che erano già in precedenza istituzionalizzati. A rallentare il tutto, ci pensano le zone “buffer”, create per evitare la diffusione del virus, che costringono l’ospite rientrante ad ulteriori 8 giorni di isolamento prima che possa accedere alle aree residenziali comuni e riprendere le consuete abitudini di vita. E poco importa se non ha sintomi di infezione da mesi e ha effettuato una ventina di tamponi che non hanno rilevato alcun virus.
Così accade, e non raramente, che la sorte ci metta lo zampino e si assista, quando meno te lo aspetti, ad una ripositivizzazione del tampone dopo gli 8 giorni di buffer per cui l’ospite viene nuovamente trasferito nel Centro Covid, in attesa della guarigione virologica sancita dal doppio tampone negativo a distanza di almeno 24 ore l’uno dall’altro. A Rita è successo per ben 3 volte, Giovanni si è limitato a 2 e Adolfina ci ha rimesso la pelle, ma nessuno saprà mai se è stato il Covid o l’andirivieni.
Perché il referto di un esame di laboratorio, nella fattispecie il tampone molecolare per la ricerca del Sars-Cov-2 deve essere più importante della clinica? Mi chiedo, con perplessità e disappunto.
L’orgoglio di essere medico che, nonostante alcune vicende spiacevoli della mia vita professionale, si è rafforzato a mano a mano che crescevano i capelli bianchi, mi impedisce di apprendere appieno perché debbano sempre prevalere gli aspetti giuridico-normativi, non certo privi di conflitti di interesse, a quelli dettati unicamente dal comune buonsenso.
A questo proposito, mi vengono in mente due diapositive, tratte dalla relazione di presentazione dell’Associazione di Promozione Sociale “I Fili” nel febbraio 2013 dal titolo “Il volto umano della medicina” in cui si sottolinea la difficoltà, ma anche l’indispensabilità di conciliare il punto di vista personale con quello impersonale, che significa, in altre parole, indirizzare le scelte politiche in modo che gli obbiettivi di salute pubblica e individuale si avvicino il più possibile.
Ebbene, il coronavirus, ha distanziato ancor di più la dicotomia intrinseca dell’animo umano e la crisi economica conseguente ha aperto un solco profondo in cui è stata sepolta la solidarietà.
Questo triste pensiero si fa va varco sempre più frequentemente nella mia mente, ma forse è solo dovuto alla stanchezza del momento.
Ho l’impressione che in ogni situazione di emergenza, o presunta tale, si crei nell’opinione della gente comune una sorta di lassismo che porta a subire con passiva rassegnazione il destino che la società riserva ad ognuno di noi, quasi come esso stesso non ci appartenesse. Mentre la classe dirigente appare più impegnata a salvare la faccia e, ancor di più la poltrona o lo sgabello, piuttosto che interessarsi ed impegnarsi con atti concreti per il bene comune.
Ma passiamo ad un’altra grossa fetta della popolazione, composta di persone di diverse nazionalità, madri e padri di famiglia che vivono spesso in condizioni precarie (e tra questi ci sono molti italiani), ai giovani migranti accolti in comunità o dispersi come clandestini nel territorio, talvolta minorenni o presunti tali, ai lavoratori marittimi, ai senza fissa dimora e senza tetto.
Il coronavirus, i media lo hanno declamato a gran voce tanto da rendersi ridicoli, non fa differenza tra i diversi ceti sociali o discendenze etniche, ma a fare la differenza sono le disposizioni di legge applicate a chi non ha alcuna possibilità di provvedere per conto proprio all’isolamento.
E così succede che chi approda in Italia per sfuggire al destino drammatico che gli riserva il paese di origine e viene acciuffato dalle Forze dell’Ordine nelle stazioni ferroviarie, nei porti o in qualsiasi altro luogo, per qualsivoglia violazione di legge, debba essere accompagnato al Centro Covid per il congruo periodo di quarantena, prima di considerarlo non diffusore della malattia. Trattandosi di un “isolamento fiduciario” cautelativo, l’allontanamento volontario è la regola, ma a questo segue l’obbligatorietà di una serie di segnalazioni che sottraggono tempo e denaro alla società intera, perché, si sa, in emergenza, le cose inutili sono anche dannose.
Poi ci sono le persone, a volte famiglie intere, che si spostano da una sede all’altra per raggiungere il paese di origine per i più svariati motivi, come è successo a 4 cittadini residenti a Bologna che erano diretti a Genova, all’imbarco per il Marocco, per partecipare al funerale di un parente. Uno di loro è risultato positivo al tampone e la partenza è stata forzatamente rinviata a data da destinarsi. Per ironia della sorte il “caso” con tampone positivo ha ottenuto la guarigione virologica prima degli altri 3 che hanno comunque dovuto attendere che passassero i 14 giorni dal contatto stretto, nonostante i tamponi siano sempre risultati negativi.
Anche Fatma, che ha terminato il settimo mese di gravidanza, è stata trasferita al Centro per proseguire l’isolamento, dopo un breve ricovero in Ospedale per sintomi respiratori compatibili per infezione da Covid-19 confermata dalla rilevazione del virus al tampone naso-faringeo. La curva di crescita del nascituro effettuata pre-dimissione non dimostrava alcuna anomalia, ma, considerato che la sua permanenza si sta prolungando per via della persistente positività dei tamponi, la preoccupazione che per qualche ragione possa partorire anticipatamente non mi lascia affatto tranquilla e prestissimo contatterò i colleghi del Centro nascite del vicino ospedale pediatrico per avere un punto di riferimento per qualsiasi evenienza.
E poi c’è la storia di Alwi, sbarcato clandestinamente sulle coste siciliane alla fine di agosto, privo di documenti che sono stati dispersi in mare insieme ai vestiti. Alwi è stato censito nel centro di prima accoglienza come cittadino tunisino di 23 anni ed invitato a sottostare al periodo di quarantena, ma si è allontanato volontariamente ed ha raggiunto la stazione ferroviaria di Principe a Genova, con l’intento di prendere un treno diretto in Francia, dove lo aspettano parenti a amici. Non ce l’ha fatta, la Polfer lo ha fermato, censito, questa volta, come un marocchino nato nel 2003, quindi minorenne, lo ha immediatamente segnalato alla procura dei minori per la presa in carico e in ultimo lo ha affidato al nostro Centro per terminare la sorveglianza prescritta per chi proviene dall’estero. A lui mancavano solo poco più di 24 ore.
24 ore non sono certo un problema, tanto più se il tampone è negativo. Il problema è però la minore età o presunta tale. Il ragazzo vuole andarsene, ma la barriera linguistica è invalicabile: parla solo arabo e biascica pochissime parole in inglese. Come fare a spiegare che è finito in un bel pasticcio e che, per giunta, ha ben poche possibilità di farla franca alla frontiera? E come fargli comprendere che cercheremo in ogni modo di agire per il suo bene? Ci facciamo aiutare da Amal, una signora marocchina che parla anche l’italiano e apprendiamo che Alwi non è né minorenne né marocchino, ma nato in Tunisia il 4 ottobre 1997. Cerchiamo di spiegargli che probabilmente c’è stata una errata identificazione e riusciamo ad ottenere via WhatsApp un documento scritto in arabo con tanto di fotografia riportante il numero, 4 e 1997. Inequivocabilmente si tratta della data di nascita, per me, ma non per il PM della procura dei minori, una scortese e arrogante persona che non ha voluto accogliere le mie richieste, verbali e scritte, ed ha proceduto all’accertamento dell’età anagrafica che, notoriamente, richiede tempi biblici, per poi non essere nemmeno dirimente. E così Alwi resterà minore chissà per quanto tempo, anche se il suo aspetto, tanto più ora che si è lasciato la barba incolta, è ben diverso da quello di un adolescente.
Per fortuna il Coronavirus mi ha fatto conoscere anche belle persone, come Giovanni, responsabile di una Onlus che si occupa dell’accoglienza degli migranti richiedenti asilo e Chiara, dell’ufficio stranieri del Comune che in breve tempo si sono occupati del caso, hanno effettuato le corrette procedure e mi hanno permesso di trasferirlo in una comunità per minori in attesa che l’iter, ormai avviato, volga a termine.
Chissà che fine farà Alwi?
Difficilmente né verrò a conoscenza, così come difficilmente dimenticherò la sua triste odissea.
Potrei raccontarvi altre piccole storie, ma preferisco fermarmi a riflettere su ciò che è giusto o ingiusto nell’agire quotidiano del prendersi cura, sapendo che non ne verrò a capo.
Ma questa è ancora un’altra storia.