Purtroppo sì, è successo, ed ora brancoliamo al buio in piena pandemia.
Si potevano scegliere strategie migliori, applicare da subito il modello coreano o quello cinese, fare tamponi a tappeto, reperire in tempo utile i dispositivi di protezione individuale, applicare misure di isolamento più restrittive, ma l’unica realtà è che “siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa” per utilizzare le parole di Papa Francesco durante la sua preghiera.
Ed ora navighiamo al buio, tutti sulla stessa barca, in balia del vento, della pioggia scrosciante e delle onde alte parecchi metri e piangiamo i nostri morti che, ad oggi, 4 aprile 2020, in Italia, hanno raggiunto il drammatico numero di 15362, purtroppo destinato a salire.
Il bollettino quotidiano della Protezione civile ci riempie di dati: si contano i contagiati, i guariti, i deceduti, i ricoverati in terapia intensiva, regione per regione e si costruiscono grafici per prevedere l’orientamento della curva, ancora in salita, in attesa di un plateau o meglio ancora di una discesa che tutti ci auguriamo essere la più ripida possibile.
Li seguo, come credo faccia la maggior parte di noi, ma mi soffermo esclusivamente sul numero delle persone che non ci sono più, sul numero dei colleghi medici che hanno perso la vita, ben 77, ad oggi, sul numero ignoto di infermieri, Oss, militi, volontari, e tutti gli altri, ognuno con la propria storia, i propri desideri e ispirazioni.
Che senso ha elencare il numero di contagiati sulla base dei tamponi effettuati se questi non sono stati fatti a tappeto?
E declamare a gran voce il numero dei guariti sulla base della negatività dei tamponi quando non si conosce il numero dei positivi tra la popolazione asintomatica? O la persistenza della positività del tampone nonostante la guarigione clinica?
Ritengo siano numeri che non aiutano a superare la crisi, a renderci consapevoli della difficoltà del contesto in cui stiamo vivendo, a rispettare le raccomandazioni imposte mantenendo comportamenti virtuosi o presunti tali. Ho l’impressione che nel declamarli a gran voce, con una puntualità quotidiana quasi fosse un rituale, prevalgano propositi autoreferenziali e giustificativi rispetto ad un interesse sincero per la salute delle persone, come a dire: “Certo la situazione è difficile, ma siamo bravi e correggeremo il tiro se mai ce ne fosse bisogno”.
Questo è il mio amaro pensiero.
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I giorni passano, oggi è il 10 aprile, le curve dei grafici sembrano appiattirsi, le proiezioni si dilatano nel tempo, poco importa, ma il numero dei morti è sempre spaventosamente alto, oltre i 600 a livello nazionale nell’arco delle 24 ore e quello complessivo dei medici trascritto sul portale della Federazione degli Ordini è diventato a tre cifre: 105.
Mi soffermo sull’ultimo nome, Emilio Brignole, e rimango pietrificata.
Sul necrologio è riportata la data della segnalazione, non altro. Non sarà lui, ci sono tanti medici con questo cognome nella mia zona e spesso, essendo parenti si tramandano anche lo stesso nome tra nonno e nipote, sarà uno dei vecchi, penso in un assordante silenzio navigando tra i social in cerca di una smentita.
No, è proprio lui, il mio compagno di corso, padre di Michela, l’ostetrica che ha seguito mia figlia durante la sua recente gravidanza, medico anche lei e nonno di due splendidi nipoti.
Come se li conoscessi ad uno ad uno mi si affacciano alla mente volti umani, di ogni età, scomparsi senza alcun preavviso. A distanza vedo i volti dei loro cari, increduli e rinchiusi in un dolore cupo, che non lascia spazio ad alcuno sfogo. L’immagine dello squallido funerale di Mozart brutalmente sepolto in una fossa comune del celebre film “Amadeus” si confonde con quella dei feretri trasportati da colonne interminabili di mezzi militari.
E il dopo, quando tutto questo sarà finito? Il lavoro, l’economia, la speranza di far crescere i nostri figli e i nostri nipoti in un mondo migliore, dove andranno a finire? Più che l’incertezza del domani, appare prepotente la certezza di un immediato futuro strapieno di ostacoli che mieterà altre vittime, se è vero che i determinanti della salute sono ben altro che le malattie.
Dove è finito il mio solito inveterato ottimismo? Mi chiedo, cercando di spazzare via dalla mente le immagini più crude.
Cerco di pensare a Vittorio, il mio amico pediatra che si è ammalato di una grave forma di polmonite da Covid-19, ma da giorni è uscito dalla rianimazione e sta lentamente migliorando e ripenso ai momenti più impegnativi della mia vita professionale, protesa sempre alla cura del malato critico, allo sguardo attonito e grato di chi si risveglia dal coma, al sorriso che si accende negli occhi di coloro ai quali ricompare la speranza di farcela, di guarire, di tornare alla vita. E per vita intendo riappropriarsi dell’essenza della vita, quella che è indefinibile e tangibile al tempo stesso per ciascun individuo, quella che il coronavirus e le misure conseguenti alla pandemia ci ha tolto per un periodo che sta diventando troppo lungo per essere tollerato.
Ancora una volta mi ritrovo in trincea, a dirigere un Centro per pazienti Covid destinato ai post acuti dimessi dall’Ospedale a bassa e media intensità di assistenza sanitaria e a coloro che necessitano di un periodo di isolamento non possibile al proprio domicilio.
Il destino ha voluto questo ed io non ho potuto sottrarmi. L’esperienza professionale mi è indubbiamente di sostegno, ma gli anni passano per tutti e inevitabilmente succede che con l’aumentare del peso delle responsabilità, l’energia psico-fisica per sostenerle tenda a ridursi. La metafora della maratona calza a fagiolo: si può fare, ma ci vuole coraggio, prudenza, equilibrio.
Mi vengono in mente relazioni che ho presentato tanti anni fa, quando ancora ero responsabile di un Pronto Soccorso.
In emergenza il rapporto medico/ paziente è caratterizzato da un alto grado di asimmetria, fino a costituire un rapporto di forza “istituzionale”, come esplicitato nelle diapositive sottostanti tratte dalla conferenza “La cura slow in emergenza-urgenza” - Grosseto 2015.
In questo drammatico momento la relazione non è solo asimmetrica, ma caotica, confusa, disorientata, paradossale, fuorviante, se non addirittura annientata.
Come in ogni emergenza il finanziamento discende dalla morale, ma è fortemente influenzato dalla politica che ha messo in atto strategie non sempre tempestive e corrette, per la scarsità di conoscenza scientifica delle caratteristiche del virus, della sua diffusione e per la mancanza di terapie validate per affrontarne i devastanti effetti.
Purtroppo quando i buoi sono scappati, chiudere le stalle ha ben poco significato, anzi sarebbe ben più utile tenerle aperte per favorire il rientro di qualche bue, nel caso ce la facesse da solo a trovare la strada e nel contempo cercare di recuperare i capi dispersi senza perdere la speranza.
È questa la forza morale di cui parlo, che mi ha sostenuto nei momenti più difficili, che mi ha suggerito risposte che sono andate ben oltre la conoscenza della situazione, così come dei protocolli o delle raccomandazioni.
Equipe medica in genere solidale: è scritto nell’ultima riga della 1° diapositiva relativamente alla “medicina delle malattie acute e dei traumi”.
Ed è proprio così. In questo tragico momento, la solidarietà emerge prepotente in tutti gli operatori sanitari e in tutti quelli che gravitano intorno a loro. Tutti si danno da fare, incessantemente, notte e giorno, festivi e non e purtroppo alcuni non ce la fanno, si ammalano e muoiono. No, non sono eroi, sono vittime di un sistema corrotto e meschino impegnato in una corsa sfrenata per apparire, apparire e basta e dove prevale la cultura di attribuzione della colpa piuttosto della condivisione di responsabilità. Un sistema che dimostra disinteresse per i veri bisogni della gente e per quali siano le migliori risposte da attuare.
Era il 25 giugno del 2004 il giorno in cui scrissi queste parole in una lettera dal titolo “La formula magica per guarire la sanità “indirizzata ai vertici nazionali e regionali che mi costò un licenziamento in tronco dall’Ospedale per motivazioni che oggi mi fanno amaramente sorridere: infedeltà, insubordinazione, disubbidienza ai superiori gerarchici.
Le frasi conclusive della lettera esprimevano senza mezzi termini il mio pensiero e credo che fossero proprio quelle ad aver infastidito il sistema gerarchico aziendale, al punto di fare di tutto per eliminarmi.
“Dobbiamo percorrere un’altra strada, indubbiamente faticosa e lenta, ma sicuramente più redditizia per l’essere umano in quanto tale. È la strada dell’onestà, della lealtà, del rispetto, della morale. È questa e solo questa la formula magica per guarire la sanità”.
Ma lo scopo di chi sceglie una professione sanitaria non dovrebbe essere quello di prendersi cura delle persone?
E lo scopo del sistema sanitario non dovrebbe coincidere con quello del singolo operatore?
In questa emergenza coronavirus trovo risposte alle mie domande ben poco qualificanti per l’essere umano. Penso alla gestione dell’emergenza nelle prime fasi, alla superficialità con cui si è affrontato il problema, all’ impegno per scaricarsi le responsabilità di dosso attribuendo le colpe all’uno all’altro, all’incapacità di reperire in tempo utile ciò che serviva per il bene di tutti, alla corsa per apparire, costruire, programmare, fare le cose più inutili invece di concentrarsi sulla cura di chi ha bisogno di aiuto, tanto aiuto.
Mi riappaiono alla mente le colonne di carri funebri, le immagini impietosamente mostrate dai social degli anziani ospiti nelle RSA agonizzanti nei letti. Mi sorge istintivo un pensiero: non sono morti per il coronavirus ma per l’impossibilità di assisterli nel modo giusto.
Penso all’enfasi con cui i media hanno sottolineato che le persone decedute erano tutte anziane e portatrici di numerose malattie croniche, come a dire che valevano meno, vuoi per l’età anagrafica, vuoi per i costi sanitari per poi lasciare col tempo cadere la cosa, accorgendosi che venivano colpiti dal virus anche soggetti giovani in piena salute.
Ma saranno le patologie associate a rendere più aggressiva l’infezione da Covid -19 oppure le interferenze farmacologiche tra le terapie per curare le patologie croniche ed i protocolli raccomandati per combattere il nuovo virus? Mi chiedo mentre avverto brividi nella schiena.
Oppure è la solitudine, l’avvilimento, la paura che gioca un ruolo fondamentale come con- causa di morte nei vecchi sequestrati nelle case di riposo? Perdere i pochi punti di riferimento, non vedere i familiari, non sentire le loro voci o il calore di una carezza può drammaticamente far peggiorare malattie esistenti ma quiescenti e si sa, la solitudine, purtroppo è per lo più trattata con farmaci neurolettici.
E comunque, come spiega bene l’amico Ferdinando Schiavo nel suo libro “Gli anziani fragili e le malattie da farmaci”, nonostante il grido di allarme delle istituzioni, la stratificazione farmacologica nei vecchi, già di per sé, è causa di gravi danni e di morte.
Non reggo più pensieri così tristi, meglio rivolgere lo sguardo al domani, a Casa Morando, al nuovo centro per pazienti Covid, ai giovani medici che mi hanno assegnato ai quali spero di riuscire a insegnare qualcosa, in primo l’umiltà e la fallibilità della scienza.
Penso anche al Coronavirus e gli chiedo: “Ti prego, insegna agli esseri umani cosa significa la parola solidarietà!”