In un pomeriggio di una giornata di fine primavera, esattamente il 28 maggio dello scorso anno, giunse nel giardino di casa Morando un gattino, apparentemente giovane, ma piuttosto mal ridotto, magrissimo e molto spaventato. Dopo aver girovagato per qualche minuto nel cortile antistante, entrò all’interno della residenza e si rannicchiò in un angolo della sala da pranzo, seminascosto dalla carrozzina dove era seduta la centenaria Silvia e rimase a lungo in quella posizione, come fosse stremato da chissà quale viaggio.
Non si lasciava avvicinare, ma, osservandolo meglio insieme alla direttrice Maria Grazia, decidemmo che molto probabilmente si trattava di una femmina che si era persa o forse era stata abbandonata e per questo appariva stanca e affamata. Dovevamo darle un nome e scegliemmo Tinetta, dal momento che ci sembrava zoppicasse e che meritasse che il fisioterapista la sottoponesse al test di Tinetti per valutare equilibrio e andatura. Forse non a caso era approdata in una casa di riposo.
Poche ore dopo l’appello su face book per la ricerca di eventuali proprietari, fummo contattati da una famiglia residente in una villetta con giardino lungo le rive del fiume Rupinaro, a pochi chilometri di distanza da Casa Morando, che riferiva di aver perso, tre mesi prima, una gattina di soli 8 mesi, di sembianze simili alla foto pubblicata sul social, particolarmente affezionata alla figlia undicenne, al punto che quest’ultima se ne era fatta una malattia. Il tempo trascorso dallo smarrimento, tale da giustificare l’apparente mal nutrizione del peloso e la relativa vicinanza dell’abitazione al luogo del ritrovamento, facevano ben sperare che tutto andasse a buon fine, ma non fu così. Il sorriso sul volto della bimba si spense immediatamente quando si accorse che Tinetta aveva le zampe anteriori bianche anziché tigrate e che le striature sul muso erano differenti al confronto con le foto in suo possesso. Proponemmo lo stesso l’adozione, ma la delusione del mancato ritrovamento fu tale che non accettarono.
Intanto Tinetta sembrava non avere alcuna intenzione di andarsene, nonostante fosse molto diffidente rispetto agli umani e permettesse solo a pochissime persone conosciute, in particolare a Maria Grazia, di accarezzarla dolcemente sul dorso e per pochi secondi. Con gli altri pelosi, invece, era piuttosto spavalda. Non si lasciava intimorire da Vittoria, la gatta rossa, che le dimostrava la sua antipatia soffiandole tutte le volte che si avvicinava a meno di un metro e, se era accovacciata nella sua cuccia allestita nell’ufficio di direzione, la costringeva addirittura alla ritirata. Eugenio, l’altro storico gatto di casa Morando, con gli occhi azzurri per via di qualche gene ereditato dai siamesi, si allontanò dalla residenza scomparendo per più di una settimana e ancora oggi mantiene le dovute distanze dal nuovo intruso. Con Gertrude, l’unica gallina sopravvissuta alla strage compiuta da una presunta faina, i rapporti, fin da subito, sono risultati di tolleranza reciproca.
Passarono i giorni, Tinetta, per quanto poco socievole, era ormai diventata una presenza abituale nella struttura e sia il personale che gli ospiti controllavano le sue mosse. Di giorno prediligeva starsene in giardino, sdraiata sull’erba o a caccia di qualche insetto, alla sera, invece, rientrava e si rintanava nella cuccia nella stanza di direzione, dove, per prudenza veniva rinchiusa fino al mattino successivo. Un comportamento peraltro insolito per un gatto di strada, considerato che i felini prediligono il crepuscolo e la notte per espletare la loro attività di predatori. Ormai il suo manto era diventato pulito e lucido ed i suoi occhi parevano esprimere gratitudine; era sempre magra, anche se si incominciava a intravedere una certa protuberanza a livello dell’addome che di lì a breve divenne sempre più evidente: era incinta.
Il lieto evento era atteso con gioia da parte di tutti, si fecero scommesse su quanti gattini sarebbero nati, ed io, grande esperta, sostenni con fermezza, che, essendo presumibilmente il primo parto, considerata la presunta giovane età, non avrebbero dovuto essere più di due.
Ma dove sarebbe andata a partorire? Ci chiedevamo con una certa ansia, anche perché pure Antonio, il gatto nero che, avendo trovato cure e alloggio dal vicino vetraio, solo di tanto in tanto ci viene a salutare, non tollerava affatto l’andirivieni incessante dell’ultima arrivata.
Preparammo comunque, nella solita stanza di Direzione, due diverse cucce, una in cartone e l’altra in stoffa e le ricoprimmo con cuscini di varie dimensioni, ma Tinetta non scelse né l’una né l’altra e preferì partorire all’aperto, il 2 settembre, in una sorta di cuccia naturale semicoperta da frasche, a circa 50 metri di distanza dall’edificio.
Se ne accorse Francesco, lo stagista, che la seguì quatto quatto, cercando di passare inosservato perché è noto che le gatte, se disturbate, possono anche abbandonare i cuccioli oppure nasconderli in qualche altro posto.
Quando lo vide, Tinetta uscì dalla tana, ma si fermò poco distante, quasi a controllare la situazione. Francesco fotografò la prole e si scostò di qualche metro, attendendo il rientro della madre che avvenne nell’immediato. Era chiaro, ormai Tinetta si fidava di noi, ci aveva permesso di vederli.
Io, in quel momento non ero presente ma ricevetti un messaggio con questo commento:“Non avevi detto che dovevano essere due?”
In allegato questa foto:
Cinque cuccioli, di tutte le gradazioni del grigio, con manto uniforme, eccetto uno, dall’aspetto simile a quello della madre.
Quotidianamente controllavamo che tutto procedesse nel migliore dei modi. Tinetta faceva il suo dovere in maniera irreprensibile, si presentava a mangiare ad ore fisse e poi correva ad allattarli. Passavano i giorni, l’apprensione di come fare a portarli nella struttura diventava sempre più forte, anche perché aveva iniziato a piovere, con tanto di pericolo di esondazione e la tana, per quanto abbastanza riparata, non era del tutto sicura. Ci decidemmo al ventesimo giorno dalla nascita, quando i piccoli incominciavano a fare i primi movimenti striscianti, li prelevammo ad uno ad uno e li portammo al coperto nella cuccia tanto amorevolmente predisposta. La madre ci vide ma non ci seguì, come speravamo, e non si fece più vedere per alcune ore, lasciandoci nel panico; poi fortunatamente ricomparse dalla finestra dell’ufficio e in un batter baleno si sdraiò accanto a loro per allattarli.
Purtroppo, al momento del prelevamento, ci accorgemmo che i gattini, chi più e chi meno, avevano gli occhi malati e non riuscivano ad aprirli per le abbondanti secrezioni che incollavano le palpebre. Tra tutti c’e ne era uno particolarmente compromesso per cui era indispensabile la valutazione del veterinario. Li portammo subito, si trattava di una grave cherato-congiuntivite virale con sovrapposizione batterica da trattare con diversi farmaci per periodi protratti: 4 gattini erano guaribili, ma per il più grave, quello simile alla madre, c’erano ben poche speranze di recuperare la vista soprattutto per l’occhio destro in quanto l’infezione aveva prodotto una perforazione corneale o di chissà cos’altro.
Non ci perdemmo d’animo e con pazienza, accordandoci per i turni, Maria Grazia ed io iniziammo a somministrar, tre o quattro volte al giorno a ogni gattino e a entrambi gli occhi collirio e pomata antivirale e antibatterica e al piccolo Cesare, con l’occhio perforato, pure il cicatrizzante; il tutto dopo accurata pulizia dei 10 occhi. Un impegno non da poco che però dette i suoi frutti, infatti, avvenne quanto prognosticato dal veterinario: solo Cesare rimase cieco del tutto o quasi, gli altri guarirono completamente.
All’età di quaranta giorni, quattro gattini avevano raggiunto un peso soddisfacente intorno al ½ Kr ed erano in grado di mangiare da soli, il quinto, soprannominato Topo per il suo colore e per il musetto appuntito, era di dimensioni molto piccole, il suo peso non superava i 300 gr, e faceva fatica ad attaccarsi al seno, estromesso dai fratelli ben più possenti. Il veterinario consigliò di provare ad allattarlo artificialmente, ma fu un insuccesso, quindi prescrisse una dose infinitesimale di antibiotico, in ultimo allargò le braccia e noi decidemmo di utilizzare il farmaco più diffuso al mondo: la preghiera. Oltretutto il ritardo di crescita di Topo ci impediva la sterilizzazione di Tinetta e il rischio che rimanesse di nuovo incinta, pur in fase di allattamento, non era scongiurato.
Non sapremo mai se fu l’antibiotico, la preghiera, o semplicemente la forza della natura, ma Topo si riprese brillantemente fino addirittura a superare il peso degli altri e il suo manto, grigio uniforme e morbidissimo, è divenuto molto simile a quello dei gatti di razza blue di Russia.
Mia, l’unica femmina, tigrata grigio chiaro con riflessi rosa, Arthur e Pablito, anch’essi tigrati con il pelo semilungo, vennero dati in adozione a famiglie affidabili, ben conosciute, capaci di trattarli nel migliore dei modi. Cesare e Topo erano predestinati a rimanere in Casa Morando, il primo per la disabilità, il secondo, per il ritardo di crescita.
Maria Grazia ed io eravamo soddisfatte del nostro operato, unico rammarico la cecità di Cesare che, comunque, sembrava del tutto incurante del proprio handicap e, a mano a mano che cresceva, si faceva sempre più intraprendente, a differenza di Topo, più timido e scontroso.
Nonostante le attenzioni fossero tutte concentrate su di lui, Cesare riusciva a sfuggire a ogni controllo, si infilava negli armadi dell’infermeria, correva in palestra, in cucina, nel salone da pranzo, ogni giorno esplorava uno spazio nuovo, e, se poteva, si avventurava in giardino dove diventavano evidenti le sue oscillazioni del capo per attivare la sensibilità delle vibrisse.
La sua vivacità era incontenibile e ci procurava non poche apprensioni. Un giorno sentimmo forte il garrito dei gabbiani che volavano in cerchio sovrastando il giardino di Casa Morando e fummo colte dal timore che potessero aggredirlo e portarselo via: era ancora troppo piccolo. Per fortuna il tempo passa veloce e ora, che è di dimensioni ben maggiori, confidiamo nel fatto che possa cavarsela da solo utilizzando se non la vista, l’udito, l’olfatto e il tatto che certamente avrà avuto modo di affinare.
Fin da molto piccolo Cesare, forse poiché era stato a lungo manipolato per l’assiduità delle cure, si dimostrava molto affettuoso, ricambiava con fragorose fusa chiunque lo accarezzasse e non disdegnava affatto accovacciarsi e cadere in un sonno profondo a contatto con gli umani.
Era sempre in mezzo ai piedi, come si suole dire, per cui non fu difficile accorgersi che tra tutti gli ospiti seduti nella sala multiuso dove si svolgono le attività motorie e di animazione, si dirigesse, ogni mattina, senza indugio, scartando carrozzine e attrezzi vari, come se vedesse, da Franca, una gattara che, fino al momento dell’ingresso in struttura, aveva dato cura e protezione a un centinaio di gatti. Un comportamento che ormai è diventato una regola. Infatti, tra loro è nata una profonda intesa e Cesare segue Franca in ogni suo spostamento o attende il suo ritorno sdraiandosi nella sedia accanto.
L’ho osservato in diverse occasioni, dapprima si sofferma qualche istante ad annusare il deambulatore, come per accertarsi che sia proprio quello che predilige, quindi vi salta sopra per raggiungere le gambe di Franca e accovacciarsi nelle più svariate posizioni, addormentandosi anche per ore.
Franca è felice, Cesare pure ed io mi emoziono al solo vederli.
E mi chiedo: come è possibile che un gattino cieco di pochi mesi abbia la sensibilità di comprendere i bisogni di una persona e le istituzioni, con tanto di esperti, siano invece insensibili a ciò che rende la vita accettabile per chi non è più in grado di accudire a se stesso?
Questo sì che è essere ciechi, penso tra me e me.
Perché è mia convinzione che le relazioni tra gli esseri viventi appartenenti a questo mondo, più di ogni altra cosa, siano l’essenza della vita e permettano a ognuno di noi di godere degli anni che avanzano.
Vorrei concludere questo semplice racconto come si concludono le favole perché, come sostiene Schopenhauer, la vita e i sogni sono fogli dello stesso libro.
E così, da quel giorno, Franca e Cesare, con il fratellino Topo e la mamma Tinetta, vissero a lungo felici in Casa Morando.