Dopo la sentenza della Corte Costituzionale sull’aiuto al suicidio, i giornali hanno comunicato la notizia utilizzando parole e titoli molto variabili per intonazioni, dai più sobri ai più apocalittici, nel tentativo di trovare motivazioni per schierarsi da una o dall’altra parte.
Differente l’articolo intitolato “Una scelta di libertà sotto stretta sorveglianza”, pubblicato sul quotidiano Il Secolo XIX venerdì 27 settembre 2019 a firma Luisella Battaglia, docente di Filosofia Morale e Bioetica presso l’università di Genova e Napoli e Direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Bioetica, articolo che mi ha offerto molti spunti di riflessione, essendo l’autrice capace di analizzare la questione per “le sue implicazioni tra la sfera della politica e quella della vita, tra polis e bios” e porsi una serie di domande di una complessità straordinaria.
Eccole:
- Chi rivendica il diritto di morire con dignità deve essere costretto a vivere suo malgrado?
- Fino a che punto devono valere le richieste e le aspettative del mondo nei confronti del singolo individuo?
- Quali sono i limiti dell’ingerenza del sociale nella più intima sfera di libertà del soggetto?
- Ma soprattutto esiste un’antinomia insolubile tra autonomia e solidarietà?
Luisella cita le lezioni del filosofo britannico John Stuart Mill e sottolinea che “credere in una società aperta significa che non ci consideriamo i supremi giudici dei valori di un altro, che non ci sentiamo autorizzati a impedirgli scopi che disapproviamo a condizione, naturalmente, che non invada il campo, egualmente protetto, dei diritti e dei valori altrui. E tuttavia occorre aggiungere, all’interno di una bioetica liberale, l’autonomia non esclude in alcun modo quel ‘prendersi cura’ che comporta attenzione per l’altro, per le sue esigenze, i suoi bisogni e che testimonia una solidarietà umana fondamentale”
Queste parole mi hanno toccato profondamente e mi hanno portato alla mente le mie esperienze sul fine vita di pazienti, amici, familiari che più mi hanno coinvolto e delle quali non è possibile fare, come si suole dire ‘di tutte le erbe un fascio’.
Ben lungi da me volermi schierare a favore o contro il suicidio assistito o eutanasia legalizzata o come dir si voglia, non ne sarei capace, anche perché sono convinta che quando si toccano tematiche che hanno a che vedere con la sfera del sacro, sia pressoché impossibili tracciare percorsi netti e anche le parole siano spesso fuorvianti e diano adito a interpretazioni contrastanti che portano a dispute puramente ideologiche.
Il mio intento è quello di raccontarvi alcune storie vissute che fanno semplicemente comprendere quanto sia scivoloso il terreno quando in gioco entrano valori inalienabili come il rispetto e la dignità dell’essere umano.
Brunella, colpita a sorpresa da un tumore maligno del pancreas, di quelli che non lasciano scampo, giaceva nel letto in una stanza d’ospedale insieme ad altre 3 degenti, essendo ormai divenuta impossibile la gestione domiciliare per un dolore devastante che non recedeva nemmeno con i farmaci più potenti. Aveva solo 52 anni ed era una collega, medico di famiglia, ma soprattutto era una amica che mi aveva affidato i suoi pazienti, tra i quali molti extracomunitari, non appena aveva avuto la sentenza della sua inesorabile malattia. Quel giorno ero andata a farle visita e, sapendo che le faceva piacere, per prima cosa l’avevo messa al corrente dell’ andamento dello studio medico, dei problemi che avevo avuto, dei fatti più importanti accaduti ai suoi pazienti e tanto altro. Ero in piedi al suo capezzale e lei mi guardava intensamente, con un sorriso sofferente, che esprimeva tutta la sua gratitudine per aver accettato di sostituirla nella sua tanto amata professione, che più che altro era una missione. In quel momento, già intriso di forti emozioni, sopraggiunse una infermiera che, senza troppi convenevoli, alzò lo schienale del letto annunciando che di lì a poco sarebbe arrivato il pranzo e, in men che non si dica, si dileguò. Pochi istanti, ma il passaggio dalla posizione supina a quella semiseduta, fece sì che Brunella, diventata estremamente pallida, si collassò e si accasciò all’indietro, per quanto poteva, con lo sguardo rivolto verso l’alto. La perdita improvvisa delle poche forze residue accompagnata dalla sensazione di morte imminente deve essere stata terribile e non sarebbe passata inosservata nemmeno agli occhi dei più inesperti. Dopo pochi secondi si riprese e, con voce tremante mi disse: “Rosanna, dimmi che con la morte tutta questa sofferenza scompare!”. Risposi prontamente di si, annuendo con il capo, dissi che ne ero sicura, mentre il magone mi chiudeva la gola rendendo impossibile pronunciare altre parole. Seguì un lungo silenzio, interrotto solo dal nostro pianto sommesso. In quel momento interminabile sentii tutta la stima e la fiducia che Brunella riponeva in me, come medico e come amica, ma anche la speranza di porre fine ad una sofferenza divenuta ormai intollerabile. Il mio cuore, con grande forza, implorava la sua morte. Fu l’ultimo giorno in cui la vidi perché il pomeriggio seguente lasciò questo mondo.
Circa 30 anni fa, un amico che avevo conosciuto quando eravamo alle scuole medie e che avevo continuato a frequentare durante gli studi universitari di medicina, sull’orlo dei 40 anni, proprio quando la sua carriera ospedaliera di otorinolaringoiatra iniziava a prendere corpo, fu colto da una malattia inesorabile, la sclerosi laterale amiotrofica, che, pochi mesi dopo la diagnosi, lo costrinse immobile in un letto, attaccato ad un polmone artificiale per poter respirare. Emilio, finché aveva potuto, aveva continuato a lavorare in reparto, pur rinunciando alla sala operatoria per via di quell’impaccio nei movimenti delle dita che gli impediva di giostrare con precisione i ferri chirurgici. Si era guadagnato con il proprio impegno, senza alcun appoggio, il posto fisso al San Martino e, di lì a poco, avrebbe avuto l’opportunità di passare di grado, di diventare aiuto, per questo, essendo ben consapevole dell’inevitabile crudele decorso della malattia, non aveva alcuna intenzione di lasciare il campo anzi tempo. Mi confessò che sottraeva dall’armadio dei farmaci, giorno dopo giorno, alcune compresse di sedativi, per farsene una scorta sufficiente da potersi togliere la vita qualora fosse diventata insopportabile, ma quel momento non arrivò mai. In pochi mesi non aveva più un solo muscolo del corpo in grado di funzionare, il suo “ictus con la moviola”, così chiamava la SLA, se l’era goduto tutto, minuto per minuto, ma noi non sapremo mai se fu la paralisi ad impedirgli di compiere quanto dichiarato o piuttosto l’innato istinto di sopravvivenza, capace di tenere acceso anche il più fievole lumicino di speranza. Non volle però essere ricoverato e scelse di essere assistito in famiglia, aveva la moglie infermiera e un figlio, Roberto, di soli 10 anni e voleva godere della loro presenza fino all’ultimo. Nel suo ultimo giorno di vita, se così si può chiamare, eravamo in tanti al suo capezzale, quasi tutti medici, i più anestesisti e ci alternavamo nel controllare il battito cardiaco e nel somministrare morfina e altri sedativi per lenire la sua sofferenza. Eravamo concordi nel cogliere dal suo sguardo, velato dalla sofferenza, la supplica di aiutarlo a morire tanto che finimmo per somministrare tutti i farmaci che avevamo a disposizione. Solo in tarda serata ci accorgemmo che non c’era più il battito cardiaco, ma, l’assordante rumore del respiratore che continuava a muovere il torace, ci aveva impedito di cogliere il suo ultimo soffio vitale. Era il 30 dicembre 1991, tempi in cui la solidarietà aveva la meglio rispetto alla burocrazia.
Anche a mia madre ho augurato di morire, più volte, arrivando addirittura ad invocare che succedesse a seguito di una fatalità, quando, dopo 4 anni dall’intervento allo stomaco per tumore maligno, anni in cui era stata completamente libera da sintomi, comparsero lesioni alle ossa che le procuravano intensi dolori e, di lì a poco, invasione metastatica dei linfatici polmonari che le impediva di respirare. Era una donna forte, capace di soffrire con dignità, conscia del fatto che la sua vita sarebbe finita a breve, nonostante l’età di appena 60 anni. Essendo io la figlia maggiore, e per di più medico, mi aveva confessato più volte che le sarebbe piaciuto tanto restare al mondo per vedere crescere i suoi nipoti, ma mi aveva detto anche di non farla soffrire nel momento in cui mi fossi accorta che non c’era più nulla da fare. Sapevo bene che non avrebbe mai sopportato di essere di peso agli altri, lei che era sempre stata disposta a porgere una mano a tutti coloro che manifestavano un bisogno. Riuscì a morire il 9 aprile 1989, era domenica pomeriggio ed io, proprio perché il lumicino di speranza tende a non spegnersi mai, mi ero decisa solo al mattino a ricorrere alla morfina, nel tentativo disperato di rendere più sopportabile la sua agonia. Mi resi conto allora che la morfina, alle dosi che ci insegnano a prescrivere, non accelera affatto la dipartita, tutt’al più rende velato lo sguardo e la conferma la ebbi poi 2 anni dopo, quando, per Emilio, consumammo un numero considerevole di fiale senza ottenere l’effetto sperato.
È difficile pure morire, mi chiedo, così come era successo a Lalla, che non sopportava la flebo prescritta dal medico delle cure palliative, flebo che io stessa non sono riuscita a sospendere, nemmeno nelle sue ultime ore di vita. Ma di lei ho già parlato nello scritto dal titolo “Scegliere come morire” pubblicato su questo blog.
Altri ricordi compaiono nella mia mente e, tra questi, mi è rimasta impressa nel cuore la disperazione di una madre che invocava la morte del figlio 19enne affetto da un sarcoma che gli aveva invaso l’intero organismo.
Quando ci si trova di fronte alla sofferenza, all’agonia di un nostro caro, quando vengono meno le speranze ed il dolore diventa insopportabile, è difficile se non impossibile analizzare le nostre emozioni e prevedere le nostre azioni conseguenti. Parole come dignità, rispetto, libertà di scelta si intrecciano nei miei pensieri e cerco di dare una risposta alla domanda di Luisella sulla possibile esistenza di una antinomia insolubile tra autonomia e solidarietà.
La risposta mi viene di getto e parte dal cuore: certo che non può esistere, perché aiutare a morire chi rivendica il proprio diritto con motivazioni oggettivabili non è altro che un gesto di amore.