“Ti va di raccontarmi qualcosa della tua vita?” Chiedo a Pietro, seduto nel giardino della casa di riposo in un punto dove le correnti d’aria, incrociandosi, offrono un po’ di sollievo alla calura estiva.
“Certamente, mi fa piacere” mi risponde sorridendo e così mi sistemo accanto a lui, con in mano la scheda narrativa ancora intonsa.
Gli chiedo della sua famiglia di origine e Pietro, senza alcuna esitazione parla del padre Giacomo e della mamma Palmira, entrambi contadini, gran lavoratori, che , oltre l’orto e gli ulivi, accudivano anche tre vacche. Anche lui ha fatto il contadino e, nel poco tempo che gli rimaneva, persino lavorando di notte, ha aiutato amici e parenti a costruire case. Precisa che è un lavoro duro, soprattutto la raccolta delle olive e la produzione dell’olio, ma che la madre era sempre pronta a portare nei campi qualcosa da mangiare, come fagioli o zucchini bolliti, insieme ad un bel bicchiere di vino, e questo era davvero confortevole. Poi, puntando il dito indice verso di me e guardandomi fisso negli occhi, sentenzia con orgoglio: “Non si poteva dire: oggi non lavoro, altrimenti l’olio andava tutto in malora”.
Pietro racconta di essersi sposato all’età in cui non era né giovane né vecchio e che la moglie è morta precocemente di un tumore quando l’unica figlia, Marisa, era ancora una bambina piccola per cui, per forza di cose , è stato costretto a prendere una donna, una “moglie a parole”, che lo aiutasse in casa. “E’ morta anche lei” aggiunge con rassegnazione, “e pure da un bel pezzo”. A questo punto si ferma, attende che io finisca di scrivere e esclama con soddisfazione: “Comunque è bello quello che stiamo facendo!”.
“Certamente!”, rispondo io con il cuore, mentre un groviglio di brutti pensieri mi frullano in testa impedendomi di aggiungere altro.
Dopo un silenzio che mi sembra interminabile, riesco a chiedergli come si sentiva quando è stato male nel corso della sua vita ed ecco la sua risposta: “La fortuna che ho avuto è che non sono stato mai male. Mi viene in mente, a questo proposito, che c’era una casa sulla strada (casa che esiste tuttora) e dovevamo rifare il tetto. Era il primo giorno dopo la novena dei morti quando è arrivato il camion con tutte le tegole da scaricare. Ebbene ricordo che abbiamo fatto un lavoro bestiale, ma siamo riusciti a finire come ci avevano richiesto. Una volta era così, si lavorava giorno e notte, ora ci sono le macchine, anche se quella per fare l’olio costa un’esagerazione. Le nostre, in questo momento, sono ferme, è un peccato, speriamo che vadano a qualcuno. Prima facevamo 20 quintali di olio, ora mio fratello è in pensione, io ho una gamba, la sinistra, che, anche se ultimamente non mi fa male, ha meno forza e faccio fatica a camminare. Insomma non facciamo più niente, siamo costretti a piantarla lì”.
Le sue parole mi fanno riflettere: come è possibile che Pietro, che appare così lucido e logico nel raccontare la sua vita, non si chieda perché ora si trova lì, in una casa di riposo, insieme con altri vecchi? Lui, che viveva solo e fino a pochi mesi fa saliva sugli alberi per potare gli ulivi.
Come è possibile che abbia totalmente cancellato dalla sua mente il lungo ricovero ospedaliero tra rianimazione, terapia sub intensiva e medicina, e poi ancora RSA di mantenimento e altra residenza per anziani ?
All’esordio dell’evento acuto era in uno stato di coma per la grave insufficienza respiratoria che lo aveva intossicato di anidride carbonica, ma in seguito i suoi polmoni avevano ripreso a respirare e Pietro, seppur confuso per la sofferenza cerebrale, era nettamente migliorato fino a non aver più bisogno di supporto di ossigeno.
Che strani soggetti siamo noi medici! Giusto non dare false illusioni o aspettative inutili, ma sentenziare anzitempo diagnosi di demenza, esito di stato post-anossico mi sembra decisamente poco corretto. Possibile che non ci passi nemmeno per l’anticamera del cervello, che, a mano a mano che migliora la respirazione, possano recuperare anche le funzioni cognitive? Almeno in parte, se non completamente.
E se non riduciamo fino alla sospensione i farmaci sedativi e antipsicotici che annientano ogni possibilità di recupero e continuiamo a tenere legato chi ha lavorato tutta una vita, in nome del rischio, produciamo solo, e con certezza, gravi danni fino alla morte?
So di usare parole forti, ma davvero non riesco a rassegnarmi a tutto questo che, ahimè, vedo verificarsi sempre più frequentemente. Effetto dell’incapacità dilagante di porsi domande? Effetto della paura di essere denunciati per qualsiasi cosa? O di cosa altro? La risposta me la dà Pietro che non è mai stato male e che ora, libero dalle contenzioni fisiche e farmacologiche, contribuisce a fare l’orto, a curare il giardino, a darci sani consigli perché è orgoglioso di aver lavorato tutta la vita, di aver prodotto quintali di olio e costruito case, mentre le importa ben poco di avere una voluminosa ernia addominale e non ricorda affatto (e menomale) di essere stato in punto di morire.
Questo è il Pietro che piace a me, non quell’elenco infinito di patologie, per la precisione sette, scritte in grassetto, che occupano più di mezza pagina della relazione di dimissione dalla RSA e sono trascritte pari pari in quella redatta dal responsabile medico della residenza protetta dalla quale ci è stato trasferito.
Non fraintendetemi, sono un medico, comprendo le perplessità dei colleghi e i loro vincoli normativi che mal si conciliano con l’etica quotidiana della cura e ho bene in mente lo sguardo smarrito dei familiari quando dissi loro che non avrei mai legato Pietro per evitare che si alzasse, letto a poltrona che fosse, ma sento forte la necessità di combattere il pregiudizio, l’ageismo, l’incapacità della società intera di andare oltre la diagnosi clinica, elementi tutti che concorrono a creare patologia e pessima qualità di vita.
Anche Carlo, come Pietro, viveva da solo in casa propria, pur iniziando a presentare qualche segno di defaillance psichica più che fisica, e, di punto in bianco, si è trovato a vivere in comunità, dopo un ricovero ospedaliero per una febbre molto alta in seguito alla quale era sorto uno stato confusionale con delirio di agitazione in cui aveva perso completamente il senno.
L’unica differenza tra i due è che il periodo di costrizione a letto è stato per Carlo molto più breve, solo una decina di giorni nel reparto di Neurologia, dopo di che, per una serie di circostanze favorevoli, fu trasferito nella residenza protetta in cui lavoro. All’ingresso non riusciva nemmeno a stare in piedi, i suoi occhi vagavano spauriti nell’ambiente a lui sconosciuto e reagiva con gesti di difesa a chiunque cercasse di avvicinarlo, anche solo rivolgendogli la parola.
Cosa mai ho fatto ad accettare questo nuovo ospite?!? Ho pensato tra me e me.
Carlo è un uomo forte, anche lui contadino, abituato ad arrangiarsi in tutto e per tutto e c’era voluto del bello e del buono, quando era in preda al delirio, ad evitare che si facesse male. Come potrà riprendere a camminare e adattarsi alla vita di comunità?
La risposta alle mie domande arrivò a breve e in modo piuttosto cruento, perché il giorno seguente l’ingresso, libero dai legacci e ignaro della sindrome da allettamento che gli era stata attribuita, si è allontanato dalla casa di riposo e vagava per la città alla ricerca di un punto di riferimento spaziale che ovviamente non riusciva a trovare. Era domenica, primo pomeriggio, e le strade non erano affollate. La fortuna volle che incontrò una pattuglia di carabinieri ai quali chiese indicazioni per raggiungere a piedi Castiglione, un borgo a circa 25 -30 km dal luogo in cui si trovava e che le forze dell’ordine, compresa la situazione, lo accompagnarono in struttura, incolume.
Poiché non c’erano problemi di deambulazione, potei concentrarmi sullo stato psichico scoprendo che Carlo è un uomo carismatico, gioviale, amante della vita in ogni suo aspetto, capace di cantare, ballare, raccontare barzellette e di saper cogliere con maestria ogni sfumatura emotiva delle persone che ha intorno a sé. Ama le donne, tutte, giovani e vecchie ed elargisce loro complimenti che le vengono da dentro, ci tiene a sottolinearlo. A me dice che valgo quanto peso e, se dimostro la mia disapprovazione facendogli notare che peso poco più di 50 kg, comprende la battuta e risponde a tono sorridendo: “E’ un modo di dire, Lei è una donna meravigliosa! Ce ne fossero!”. Insomma è un uomo dal cuore d’oro.
Ecco cosa mi racconta della sua vita: “Mio madre si chiamava Eugenia ed era di Missone, un paese a pochi km da Castiglione dove è nato mio padre Paolo che lavorava un po’ in cantiere e un po’ faceva il contadino. Anche io ho lavorato in cantiere a Riva, dove facevano le navi da guerra, quelle piccole, ma mi piaceva fare il contadino e tenere il bestiame, mucche, capre e pecore. Mi sono sposato e ho avuto tre figli, 2 maschi e una femmina, Alberto, Gianna e l’altro … non mi ricordo perché ho lasciato decidere il nome a mia moglie. Quello che abbiamo lavorato se lo può immaginare … eravamo robusti!”.
A questo punto si commuove e singhiozzando dice. “ Mia moglie è 5 anni che è morta, era una donna forte, come un bue!” poi, rasserenandosi, racconta di uno zio che era andato in America nel ‘800 ed era rientrato in Italia solo dopo che la città di San Francisco era bruciata, si era sposato in Toscana e aveva avuto 10 figli, di cui 7 nati in America, diventati tutti dottori.
Gli chiedo che cosa ha provato quando è stato male e mi risponde così: “Una volta, tanti anni fa, ho fatto una congestione, poi un’altra, perché sono debole di intestino, era caldo, era di luglio. Se prendo un caffè mi sento meglio, altrimenti non digerisco perché ho la digestione lenta. Mi hanno tolto l’appendicite, le ernie da due parti, ma sono cose da niente. In Ospedale mi riposavo. Mi sono tagliato una mano più di una volta ma non sono cose da considerare”.
Lo invito poi a dirmi se c’è qualcosa che soffre o non sopporta proprio e Carlo, guardandomi con un certo cipiglio, pronuncia queste parole: “Non c’è niente che soffro, ma mi piacerebbe andare a trovare mia figlia, quella che vende pesci. La solitudine non mi piace, vivere qui non mi dispiace, ma a casa mia avevo tanto da fare e una badante mi aiutava”. Poi aggiunge pensieroso: “Io soffro perché son solo. Qui ho compagnia, ma il mio orto va in rovina. Io ho tre armi, tutte denunciate e se mi rubano, io ho avvisato, sono pronto a sparare”.
Gli rivolgo l’ultima domanda prevista nella scheda narrativa: "Cosa ti piace di più della vita?” e lui si avvicina con sguardo ammiccante e sussurra: “Le donne bisogna che le lasci stare perché ho 90 anni. Mi piacevano altrimenti non mi sarei sposato. Bisogna parlare chiaro con le donne, io sono del 29, ho sempre lavorato e per fare bella figura devo tirare avanti. Se trovassi una donna la pago per fare i lavori di casa”.
Ci congediamo allegramente, usando nei convenevoli un po’ il tu e un po’ il Lei, entrambi soddisfatti di questa chiacchierata. Ora possiamo dire di conoscerci e di essere confidenti.
Sorrido perché , anche per lui , il divario tra il suo vissuto di malattia e le diagnosi cliniche riportate nella relazione ospedaliera è enorme: screzio encefalitico in corso di febbre- delirium- encefalopatia vascolare – enfisema polmonare- pregresso herpes zoster oftalmico- dermatite bollosa in terapia steroidea cronica.
Nonostante le patologie croniche che si porta addossa , in pochissimo tempo e con tanta disinvoltura, Carlo si è conquistato il titolo di animatore del gruppo e il punteggio della scheda Aged è sceso drasticamente fino ai livelli che non dovrebbero necessitare di assistenza sanitaria.
Eppure se gli si chiede dove ci troviamo, esclama, allargando le braccia in segno di soddisfazione, che siamo a Castiglione e, trascinando chicchessia da un lato all’altro del giardino antistante la casa di riposo, inizia a mostrare strade e case del vicinato e nomina ad una ad una gli abitanti della zona, intercalando “Lo conosci?” e, se nota un minimo segno di perplessità nello sguardo dell’interlocutore, aggiunge altri particolari per ravvivarne la memoria.
Per il momento l’etichetta di demenza non è stata ancora appiccicata, ma dubito che, considerato il suo disorientamento temporale e spaziale , possa passare inosservato ai prossimi controlli ASL che faranno nuovamente salire il punteggio AGED a valori elevati, solo per il fatto che Carlo non conosce il giorno o il mese o l’anno ed è convinto di essere a Castiglione e non a Chiavari.
E pensare che questa sua fantasiosa costruzione della nuova realtà permette di ridurre drasticamente i suoi bisogni assistenziali. Sarà dotato di grande resilienza, penso io, cioè di quella capacità intrinseca all’individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà, capacità che ha ben poco a che vedere con il deterioramento cognitivo e che ci permette di vivere meglio.
Peccato non sia mai presa in considerazione!
Anche Luisa deve essere dotata di una buona resilienza, perché è migliorata in breve tempo dopo l’ingresso in casa Morando, avvenuto nel febbraio dello scorso anno a seguito della solita trafila: ospedale per frattura di femore nel novembre 2017- RSA riabilitativa per un mese – altra residenza protetta per ulteriori 2 mesi, tutti luoghi in cui veniva tenuta seduta, legata alle cinture di sicurezza e fatta deambulare solo in presenza del fisioterapista.
Come impone la norma, le patologie di cui è affetta sono messe in rilievo nella relazione di dimissione: insufficienza renale cronica, frattura pertrocanterica destra (operata di osteosintesi), deterioramento cognitivo, scompenso cardiaco cronico, cardiopatia dilatativa ipocinetica, resezione intestinale per infarto, stipsi cronica.
Eppure Luisa, alla mia domanda di riferirmi le malattie che ha avuto risponde: “Non ho mai avuto che mi ricordi malanni grossi. Qualche influenza sì, quella può venire, non tutti gli anni, ma quasi. Sono stata in ospedale per i figli, Angelo e Emilia, oppure ho partorito in casa, non ricordo. Di malattie non ne ho avute, sono nata giusta, senza difetti. Non mi ricordo di essere mai caduta. Mi danno un po’ fastidio le correnti d’aria, ma per il resto, io sono un carattere calmo, non mi sono mai bisticciata con nessuno e cerco di fare quello che posso”.
Accenna ad un sorriso quando parla della mamma Fiorina che faceva la stiratrice di camicie da uomo, rigorosamente bianche, come usavano in quegli anni, e del padre Alessandro che lavorava in comune, non ricorda cosa facesse ma non era nei posti alti. Luisa si è sposata, ma ora è vedova, ha avuto due figli Emilia e Angelo, più piccolo, non ricorda bene se ha 1 o 2 nipoti. Si rattrista quando mi parla dei suoi dispiaceri: “Sono morti quasi tutti perché io sono vecchia. Sono morti mia madre e mio padre e mio marito è morto giovane da un giorno all’altro. E’ stata una cosa breve”. Le chiedo se ha voglia di raccontarmi qualcosa, così, a ruota libera, e mi risponde secca: “Guarda, di piacevole non ho proprio da dirti niente. Lavorato ho lavorato ma c’erano dei periodi che non c’era tanto lavoro. Sono stata 10 anni in ufficio dal notaio Leonardi Francesco, una bravissima persona che credo sia morto da un pezzo. Si facevano gli atti di vendita di appartamenti, pezzi di terreno, i documenti che ci chiedevano le persone”.
Luisa ora è collaborante e cordiale con tutti, attenta e sensibile agli umori che circolano nell’aria e utilizza con maestria il deambulatore spostandosi autonomamente a suo piacimento negli spazi interni ed esterni alla struttura. Solo in alcuni momenti , sempre più rari, viene colta da ansia improvvisa e, guardandosi intorno atterrita, riprende la cantilena che era pressoché continua nei primi giorni di accoglienza: “Aiuto! Aiuto! Aiuto!”. Ma è sufficiente adottare un approccio cortese e affettuoso per rassicurarla e se le si chiede perché grida aiuto, risponde serenamente che si tratta di una vecchia abitudine, di cui non si rende conto e non sa nemmeno il perché avvenga.
Credo che il merito di questo successo debba essere attribuito alla fiducia che le è stata accordata, fiducia che ha permesso di liberarla dai legacci e dalle terapie sedative e che le ha concesso di godere di quelle relazioni di cui tutti abbiamo tanto bisogno. Un giorno è caduta, si è fratturata il bacino, è stata costretta a letto per due settimane, ma poi tutto è tornato come prima e non esiste traccia nella sua mente di questo spiacevole inconveniente.
Questi racconti di vita mi fanno riflettere e sempre più mi convinco che la rigidità nell’applicazione delle regole imposte dalla normativa abbia portato a fraintendere il compito delle strutture residenziali per anziani e a creare vincoli che contrastano la capacità propria di ogni individuo di adattarsi al nuovo ambiente. Il tutto in nome del rischio clinico.
Eppure è ben noto che la qualità della vita non dipende dal fatto di avere la pressione arteriosa, la glicemia o qualsiasi altro parametro entro il range di normalità, ma da tutt’altro, così come è ben noto che le contenzioni fisiche e farmacologiche producono gravi patologie fino alla morte.
Possibile che non ci si accorga che sono comportamenti paradossali?
Ha ragione Tom Kitwood a puntare il dito sull’attitudine mentale alla quale dà il nome di psicologia sociale maligna, che conduce il pensiero umano alla depersonalizzazione e all’esclusione del diverso. Nel suo libro “Riconsiderare la demenza", al capitolo 1 intitolato “Essere una persona” parla dell’influsso dell’estremo individualismo che domina le società occidentali e scrive testuali parole: “[…] la categoria dell’essere Persona è davvero in pericolo di essere minata e con essa il riconoscimento morale delle persone con deterioramento cognitivo […]”. Poi riporta i suggerimenti di Stephen Post tratti dall’opera “The moral Challenge of Alzheimer’s disease” che sottolineano come l’essere Persona, piuttosto che all’autonomia e alla razionalità, dovrebbe essere legato molto più strettamente alle emozioni e alla capacità di vivere in relazione, ambiti in cui le persone con demenza sono spesso altamente competenti, talvolta più di chi si prende cura di loro.
Sommersa in un baratro di confusione, mi tornano alla mente le parole di Pietro pronunciate durante il nostro incontro “Comunque è bello quello che stiamo facendo” ed il mio cuore si rasserena e risponde “Sì, è bello. E’ questa la vita!”.