La frase “Herrare umanun est, perseverare autem diabolicum”, leggo su Wikipedia, è attribuita a Lucio Anneo Seneca, detto il vecchio, padre dell’omonimo e più famoso filosofo che siamo soliti chiamare semplicemente Seneca. Che sia giusta o no questa attribuzione, poco importa, ma mi fa sorridere l’idea che una citazione così veritiera, inerente i fattori umani, chiara e profonda nel suo significato, sia stata pronunciata da un signore soprannominato “il vecchio”. Mi fa sorridere, amaramente, perché è proprio nella cura dei vecchi, che noi, cosiddetti professionisti della salute degli anni 2000, persistiamo nel compiere errori, a fronte di ogni evidenza, che ci fanno passare dall’umano al diabolico.
Molti anni or sono, quando lavoravo ancora in Ospedale ed ero responsabile di una Unità di terapia subintensiva internistica, avevo valutato che circa il 7% dei ricoveri di anziani era determinato da eventi iatrogenici, cioè dovuti ai farmaci assunti cronicamente, sia per sovradosaggio che per il concatenarsi di effetti avversi gravi.
Altresì mi ero resa conto in maniera inequivocabile che le capacità di recupero dei pazienti di età più avanzata, che erano la stragrande maggioranza, potevano essere sorprendenti a patto che non si perdesse tempo e si sapessero rispettare le loro condizioni di “vulnerabilità” parola che trovo molto più appropriata rispetto a quella di “fragilità”, oggi a mio parere troppo abusata. Le ragioni di questa mia predilezione, che ho spiegato in un precedente articolo, sono basate sostanzialmente sul fatto che tale termine, più che l’altro, sottolinea l’importanza dei fattori esterni, quali determinanti la fragilità.
Le diapositive sottostanti, tratte da una vecchia relazione dal titolo “il vecchio malato” esprimono il mio pensiero.
È sempre stata mia convinzione che la robustezza delle persone dipenda in gran parte dalle capacità intrinseche dell’organismo di mantenere costanti i cosiddetti parametri vitali in risposta agli stimoli esterni come il caldo, il freddo, l’altitudine, lo stress psico-fisico, i traumi e le malattie. Tra gli stimoli esterni dobbiamo considerare anche i farmaci che ci permettono in molti casi di salvare la vita o in altri, ancor più numerosi, di prolungarla ma che, per la loro intrinseca modalità di azione, specie in caso di associazioni multiple, non sono mai scevri da effetti collaterali o interazioni complesse non sempre e non del tutto prevedibili.
Riporto, a questo proposito, altre due diapositive, tratte da un’altra relazione dal titolo “Invecchiamento e intergenerazionalità” presentata ai corsi UNIAUSER di Genova nel 2012. La prima, “I limiti dei farmaci”, mette in evidenza i fattori che contribuiscono a produrre reazioni avverse, anche gravi e potenzialmente letali. La seconda, “Il paradosso” sottolinea che qualsiasi sintomo che compare in un paziente anziano deve essere considerato un effetto collaterale di un farmaco fino a prova contraria.
La storia ci insegna che la scoperta di ogni farmaco ha comportato rischi e azzardi, polemiche e conflitti di interesse. Basti pensare ai danni provocati dalla Talidomide, tranquillante assunto dalle madri durante la gestazione, che si stima sia responsabile di 12000 nati con malformazioni negli anni compresi tra il 1957 e il 1962.
Che gli anziani risentano di più di reazioni avverse è cosa altrettanto nota e non mancano certo le raccomandazioni, sia da parte del Ministero della Salute che delle associazioni scientifiche di usare cautela nella prescrizione farmacologica che riguarda i soggetti in età avanzata, diminuendo le dosi anche di 5 volte e rispettando le differenze di genere.
Persino la letteratura scientifica non nasconde il fatto che gli anziani sono sistematicamente esclusi dai trial clinici: risulta infatti, come si legge in un articolo di Nair BR, pubblicato sulla rivista Australian Journal Ageing nel 2002, che solo una minima parte (il 3,5% nell’anno 2000) dei quasi 9.000 trial clinici e l’1% di oltre 700 metanalisi erano dedicati alle persone ultrasessantacinquenni .
Nonostante tanto scalpore, l’Agenzia Italiana del farmaco riporta, nel rapporto OSMED del 2007, che un paziente con età ≥ 75 anni consuma una quantità di farmaci 17 volte superiore rispetto ad un giovane adulto di 25-34 anni.
In anni più recenti, nel rapporto OSMED 2017, si legge che un individuo con età compresa tra i 65 e i 74 anni consuma ogni giorno in media 2,6 dosi unitarie di medicinali e, quando supera i 74 anni, le dosi unitarie diventano 3,5.
Le motivazioni per cui gli anziani assumono mediamente un numero esagerato di farmaci e i devastanti effetti della cosiddetta frammentazione delle cure sono espresse in modo chiaro e sintetico nelle sottostanti diapositive tratte dalla stessa precedente relazione.
Il risultato è la cosiddetta “stratificazione geofarmacologica” che, oltre a determinare un incremento sempre maggiore della spesa sanitaria, è la causa principale di disabilità nel mondo occidentale. Si stima infatti che negli anziani istituzionalizzati, che assumono in media più di 5 farmaci al giorno, gli eventi avversi siano compresi tra il 10,5 e il 54,7%.
Me lo chiedevo anni fa, lo ripeto oggi con maggior enfasi. Cosa ci spinge a perpetuare l’errore?
È solo difesa oppure si tratta di diabolica malvagità?
Come al solito non so rispondere, ma so bene che i medici, per la grande maggioranza, sono disorientati di fronte al mondo geriatrico, così numeroso e eterogeneo, e tendono a perpetuare la prescrizione di farmaci preventivi ( come l’aspirina, gli anticoagulanti orale, gli ipolipemizzanti) anche in età molto avanzata e, ancor peggio, a proseguire a domicilio la stessa identica terapia assunta durante il ricovero ospedaliero per un evento acuto, diuretici, antipertensivi e soprattutto sedativi e antipsicotici, senza considerare le diverse condizioni di vita in cui il paziente si viene a trovare.
Purtroppo, negli anni, la figura professionale che più ha perso potere è senza dubbio quella del medico di famiglia che, sommerso da quintali di prescrizioni farmacologiche reiterate nel tempo mescolate ad altrettanti quintali di richieste di visite specialistiche ed esami diagnostici, nonché dalle pratiche da svolgere per via telematica, ha per forza di cose fissato il suo sguardo al monitor distogliendolo dagli occhi del paziente, che a volte non sa nemmeno chi sia. Cosi, quello che dovrebbe tenere le fila della salute del proprio assistito e fare da regista del percorso diagnostico e terapeutico finisce per essere escluso da ogni decisione e talvolta neppure a conoscenza di quanto sta accadendo.
È un’amara constatazione che condivido con tanti colleghi, ormai quasi tutti in quiescenza o sull’orlo del pensionamento che rimpiangono il medico condotto, quello di una volta. “Abbiamo rovinato, senza nemmeno accorgercene, la professione più bella del mondo”, sostiene un mio caro amico, Claudio, medico di famiglia da sempre, nell’alta campagna ligure, dove le strade dissestate diventano impercorribili durante l’inverno per la neve e per il ghiaccio e dove, per salvare la vita alle persone, si è costretti a bypassare le regole imposte dal sistema.
Se poi il paziente è trasferito direttamente dall’Ospedale alle residenze per anziani, modalità piuttosto frequente nel mio territorio per la consuetudine dei familiari di “prendere la palla al balzo”, ecco che la lotta per sottrarre anche solo ½ compressa o poche gocce di un farmaco dalla terapia scolpita a caratteri cubitali nella relazione di dimissione, diventa veramente dura e chi osa farlo è additato come eretico. Le conseguenze di tutto ciò sono talvolta irreparabili, ma poco importa, il tutto passerà sotto silenzio come un delitto perfetto in cui è impossibile trovare il colpevole. Esistendo peraltro il capro espiatorio (il vecchio), il sistema si purifica e tutto torna come prima, meglio di prima.
Dove va a finire l’appropriatezza prescrittiva, tanto osannata?
L’appropriatezza implica la capacità da parte del medico di valutare attentamente i potenziali benefici rispetto ai potenziali rischi di una terapia e scegliere il farmaco o l’associazione di farmaci che più garantisce la superiorità degli uni rispetto agli altri. Tenendo sempre bene in mente che l’anziano non permette né ritardi né errori perché le sue riserve sono ridotte: bisogna colpire il bersaglio alla prima, nel modo giusto e soprattutto bisogna cercare di non compromettere i sistemi regolatori e la capacità di difesa che ognuno di noi possiede. Un concetto che va ben oltre quello della riduzione della spesa pubblica.
A questo proposito ripropongo una diapositiva dell’antropologo Antonio Guerci intitolata” L’iceberg della malattia” che esprime sinteticamente il rischio di deriva della medicina attuale.
Siamo abituati a diagnosticare e a curare la malattia focalizzando l’attenzione su ciò che affiora in superficie, ossia i problemi mentali e quelli fisici, e per questi utilizziamo tutti i mezzi che la scienza e la tecnologia ci mette a disposizione. Ci dimentichiamo invece del sommerso, cioè del contesto sociale e della vulnerabilità, seppure siano elementi fondamentali per la vita della persona e quindi determinanti per la sua salute, tanto più nelle fasce estreme dell’esistenza umana, bambini e vecchi. Non tenerne conto può fare davvero la differenza perché questi elementi non rispondono alla terapia farmacologica, anzi reagiscono ad essa in modo imprevedibile e talvolta catastrofico.
Il mio grido di allarme, che vale in ogni situazione, sia in Ospedale che nel territorio o a domicilio, è la necessità impellente che ogni professionista sanitario allarghi il proprio orizzonte di veduta per prendersi cura della persona nella sua globalità e non della malattia per come ci appare.
Un concetto antico, se è vero che è attribuita ad Ippocrate la frase “E’ più importante sapere che tipo di persona abbia una malattia, che sapere che tipo di malattia abbia una persona” così come è antico il detto “Errare è umano, perseverare è diabolico”.
Non dimentichiamocene.