La Liguria è tra le regioni più vecchie d’Italia con una percentuale di popolazione maggiore di 80 anni del 9,2% rispetto al 6,7% del dato nazionale.
Come si evince dalle diapositive sottostanti tratte dalla relazione dell’antropologo Antonio Guerci dal titolo “Anziani ieri, oggi , altrove”, anche gli ultranovantenni sono in numero considerevole e persino si contano al 2015, 844 ultracentenari, di cui ben 732 donne. D’altra parte è ben noto che noi donne la facciamo da padrone sull’aspettativa di vita, sopravvivendo più a lungo degli uomini. Sopravvivendo, proprio così, perché la vita sana, senza disabilità o malattie gravi si sta riducendo al punto che dal 2004 al 2008 si è addirittura dimezzata mentre gli appartenenti al sesso maschile sono stati meno sfortunati.
Cosa vuol dire? Che nel 2003 una donna di 65 anni aveva circa 13/14 anni di aspettativa di vita sana, mentre nel 2008 da 14 si è passati a solo 7 anni. Un dato, peraltro sotto la media europea, molto meno pubblicizzato del precedente. Possibile che noi donne dobbiamo sempre primeggiare? Penso tristemente.
Di questo passo mi domando quanti posti letto nelle RSA e nelle strutture per anziani si dovranno prevedere in Liguria, tenuto conto che nel 2025, che mi pare proprio dietro l’angolo, le stime sostengono che ci sarà il sorpasso dei pensionati sugli occupati. Meglio ancora dire pensionate, considerato che sopra i 70 anni la percentuale del sesso femminile sul maschile sale progressivamente dal 56% al 74% nella fascia di età tra 90 e 99 anni per arrivare all’87% a quota 100.
Come si fa a non concordare con quanto riportato nella diapositiva soprastante ?
Di fronte ad una realtà incontestabile o incominciamo a posizionarci in una diversa prospettiva oppure finiremo in gran numero, e pure a breve, in qualche struttura socio-sanitaria perché portatori di disabilità fisiche o mentali o perché semplicemente persone vecchie che la società ritiene non più in grado di badare a se stesse .
Non passa giorno in cui io, come responsabile sanitario di una piccola residenza protetta, non riceva una telefonata accorata da qualche parente che cerca urgentemente un posto per istituzionalizzare la madre o la zia, la sorella o più raramente un soggetto di sesso maschile.
Pressoché nella totalità dei casi il familiare richiedente esordisce allo stesso modo: “Mi scusi, vorrei sapere se c’è un posto per mia madre che io ho tenuto in casa fin che ho potuto, ma ora non riesco a gestirla perché si alza dalle sedie e rischia di cadere, gironzola avanti e indietro e a volte mi prende le scale, è già caduta l’anno scorso e si è rotta le coste e poi bisogna starle dietro nel mangiare, a volte scambia il giorno per la notte, a volte è confusa e non sa dove si trova, ho provato con una badante ma non vuole estranei e poi non mi fido, insomma io devo lavorare, ho figli e nipoti, mi creda, l’ho sempre assistita e ora non ce la faccio più . Vorrei sapere cosa costa metterla lì da voi così posso stare tranquilla, mi hanno detto che si trovano bene”.
Come darle torto?
I ritmi imposti dalla vita odierna, la coesistenza inedita di 4 generazioni, la visione della vita parcellizzata in nicchie di età, stereotipate e piene di pregiudizi, l’assenza di alternative, in Liguria particolarmente gravosa, obbligano le persone all’unica scelta possibile: l’istituzionalizzazione, parola per me così sgradevole che non riesco a pronunciarla senza che mi si attorcigli la lingua.
Le nicchie generazionali hanno trovato nei media dei partner formidabili che le hanno diffuse senza difficoltà alcuna in una società in piena crisi identitaria, ricorda ancora Guerci , mentre Gianluca Olcese, antropologo dell’Università di Wroclaw, nella sua relazione presentata al convegno del 2015 “Dialogo sulla vecchiaia del III millennio” sottolinea che l’arroccamento in un sistema di identità chiusa è piuttosto una trappola, un’identità ben misera, intrinsecamente fragile, di poco conto, anzi un’identità da niente, incapace di sopportare l’altro anche quando l’altro non fa niente e con la sua sola presenza ‘dice’ la diversità (parole tratte da L’ossessione identitaria, 2010, p. VII di Francesco Remotti).
Olcese prosegue poi con una triste riflessione su quanto avviene nel contesto occidentale in riferimento alle case di riposo: “[…] le conoscenze e le competenze pratiche acquisite – anche con l'esperienza – dagli anziani sembrano non avere più alcun valore – se non in forma di un sempre più labile legame sentimentale con amici e familiari – ma purtroppo gli anziani, perdendo la propria autosufficienza, necessaria alla partecipazione in un tipo di ambiente culturale in continuo cambiamento, mettono spesso in mostra apertamente una situazione di bisogno e l’ineluttabilità della morte, che si cercano invece di nascondere o di rimuovere. Per questo i nostri anziani sono al centro di un processo di rimozione e di occultamento, all’interno di strutture specifiche […]”.
Il ragionamento mi pare indiscutibile e i pochi chiarimenti che ho dato alla figlia sugli obiettivi che si poneva la struttura di cui ero responsabile mi paiono altrettanto esplicativi di quanto sia difficile in questo momento aiutare le persone che si trovano nell’impossibilità fisica ed emotiva, oltre che economica, di prendersi cura dei propri cari.
Le ho spiegato semplicemente che la residenza protetta nella quale aveva chiesto l’inserimento della madre affetta da demenza è “un luogo di vita per ciascun individuo” e che, nei limiti sacrosanti imposti dalla vita di comunità, si cerca di mantenere il più a lungo possibile l’autonomia della persona, evitando le misure di contenzione fisica e farmacologica affinché non si alzino dalla sedia, non scendano dal letto, non camminino e non si allontanino. Come conseguenza, il rischio di cadere, nonostante le misure di sicurezza a norma di legge, così come quello di allontanarsi dalla residenza, non potevano essere esclusi. Ho aggiunto che non sarebbe stato nemmeno incentivato l’uso del pannolone per semplice comodità o quello del cucchiaio al posto della forchetta e così, riguardo all’igiene e alla vestizione, la raccomandazione sarebbe stata quella della supervisione piuttosto che la sostituzione da parte dell’operatore.
La tariffa mensile, a questo punto, non aveva più alcuna importanza e nemmeno se ci fosse un posto disponibile. Avevo deluso le aspettative della figlia, convinta che le case di riposo fossero luoghi di assistenza e cura in grado di garantire l’incolumità della persona in ogni suo aspetto. Avrei voluto chiederle che cosa ne pensava la madre di questa sua intenzione, di solito lo faccio, ma l’impeto della telefonata non me l’ha concesso.
Non fraintendetemi, non biasimo affatto la signora, le sue preoccupazioni sono più che legittime.
Conosco bene cosa può comportare per chi è vulnerabile un qualunque evento traumatico, una malattia acuta, un’ospedalizzazione protratta, in termini di sofferenze e costi economici per tutta la famiglia, ma mi chiedo come sia possibile che la società non intervenga in tempo utile in queste situazioni, offrendo quel minimo di supporto, oltre l’invalidità e il relativo assegno di accompagnamento, che possa aiutare le persone a fare la scelta più adeguata nei singoli casi e a evitare il devastante senso di colpa.
Si parla troppo poco della disperazione del care giver soprattutto di chi deve assistere una persona affetta da demenza. Ricordo con sincera emozione il marito novantenne di Francesca, quando mi riferiva, esterrefatto, le assurde richieste della moglie che lo scongiurava di riportarla a casa, ma erano già in casa e nulla poteva servire a convincerla. In queste circostanze, che diventavano via via più frequenti, né la razionale comprensione che sua moglie era affetta da Alzheimer e non riconosceva più luoghi e persone, né l’alto livello di istruzione di cui era dotato, erano sufficienti a lenire la sofferenza che gli rodeva il cuore. Non ce la faceva proprio più. Per un breve periodo Francesca ha frequentato la nostra residenza, ma solo di giorno, in assenza di posti letto disponibili ed è stata bene, partecipando con esuberante simpatia , a tutte le attività di gruppo e permettendo al coniuge di tirare un sospiro di sollievo.
Quando si è liberato un posto in un’ altra residenza, il marito esausto non ha potuto far altro che coglierne l’opportunità ma Francesca, ahimè, complice una sindrome influenzale e, forse, qualche intolleranza di troppo alla sua esuberanza , è stata “costretta” a letto e non si è più rialzata.
Storie di tutti i giorni, storie vere che fanno male.
Si parla tanto di violenza fisica e psicologica degli operatori nelle strutture per anziani, atti criminosi che portano all’indignazione delle persone, non c’è dubbio, ma mi sorge spontanea una domanda: la società che spesso è incapace di dare risposte adeguate a chi ha bisogno , non esercita anch’essa un sopruso impedendo ogni libera scelta?
Saranno obbligatorie le telecamere nelle strutture per anziani per controllare, disincentivare, reprimere abusi e violenze di ogni genere, ben vengano ma consensualmente non sarebbe opportuno accendere i riflettori sulle situazioni, troppe e in continuo aumento, che costringono i familiari a rinchiudere i loro cari in residenze privandoli dei loro spazi, dei loro affetti, della loro libertà?
Sembra, e lo ripeto ancora una volta, che sia solo il numero di posti residenziali che conta.
Sembra pure che quelli dedicati agli “stati di minima coscienza” rendano più di tutti gli altri.
Non sto delirando, purtroppo, cito frasi sentite, con le mie orecchie, da chi organizza, decide, perché ha i soldi per farlo, forse anche pensando di fare del bene. Che razza di mondo è questo?
Mi affiorano alla mente tristi pensieri e immagini desolanti che vorrei rimuovere per sempre, ma, nel contempo, si scatena in me una gran voglia di riscossa.
Credo proprio che tocchi a noi, che abbiamo superato i sessant’anni, promuovere il cambiamento affinché “l’età non più giovanile sia vista non come un problema, ma come un’opportunità di crescita sociale per tutti”.
Non lo possono fare i giovani, troppo immersi nella visione parcellizzata della vita e impegnati a garantirsi un futuro per niente scontato, non lo possono fare gli adulti, costretti a sbarcare il lunario e a pagare il prezzo delle disuguaglianze, non lo possono fare le persone rese inabili dalla malattia fisica o mentale e nemmeno i professionisti socio-sanitari intrappolati nella fitta rete di norme imposte dalla società.
Lo possiamo fare solo noi se vogliamo vivere bene fino alla fine dei nostri giorni e assicurare un degno futuro ai nostri figli e nipoti.
Alla luce di quanto sta succedendo, è fondamentale mettere l’accento sulla differenza che esiste tra aggiungere vita agli anni e non anni alla vita, qualunque sia il prezzo da pagare. Allo stesso modo è indispensabile pensare in modo diverso all’ organizzazione delle strutture residenziali che devono proteggere e non contenere chi ne ha effettiva necessità.
Da dove cominciamo?
Innanzitutto dobbiamo unire le forze per informare e rendere consapevoli le persone del contesto in cui ci muoviamo e delle possibili conseguenze delle nostre azioni; dare voce a chi soffre, a chi è disperato, a chi non ce la fa perché il diritto alla salute e alla vita deve essere garantito per tutti; prendere esempio dalle virtuose iniziative che pur esistono nel territorio nazionale e divulgarle affinché possano essere applicate in altre realtà; forzare la mente e la mano dei decisori (evito volutamente l’odioso verbo costringere) affinché si convincano della necessità di un cambio di rotta.
Allora, sessantenni e oltre, rimbocchiamoci le mani e diamoci da fare! Tocca a noi.