Da alcuni giorni, forse per l’emozione che ha suscitato in me il titolo del cortometraggio di Marco Toscani “Senza peccato”, mi frulla in testa un pensiero insistente: può esistere l’innamoramento nel vecchio?
Preciso meglio. Per prima cosa, se avete notato, ho parlato di emozione dettata da un titolo, perché, mio malgrado, non sono riuscita a vedere il breve filmato del regista piacentino, ma, conoscendo la sensibilità e il tatto di Marco nell’affrontare temi strapieni di pregiudizi e ipocrisie, le sole parole “senza peccato” mi fanno commuovere. Fra l’altro il film, la cui proiezione è stata addirittura censurata a Carrara, ha vinto pochi giorni fa il premio “Miglior cortometraggio italiano 2019” con una motivazione accattivante di cui cito uno stralcio: “Marco Toscani ci accompagna nell’universo dei sensi del protagonista con maestria per poi sorprenderci con un finale da grande commedia italiana”. Quale sarà? Mi chiedo, non stando più nella pelle dalla curiosità. Lo vedrò.
Per seconda cosa preciso che non intendo affatto esprimermi sulla sessualità di chi non è più giovane alla stessa stregua dei pochi lavori scientifici che analizzano le cause psicologiche o fisiche della riduzione della performance, ma semplicemente raccontare alcune storie di vita da cui derivano le mie impressioni sulla capacità di innamorarsi in età avanzata, magari per la prima volta.
All’inizio della mia esperienza nel territorio, come medico di struttura per anziani, ero stata particolarmente colpita dal caratteraccio di un vecchio contadino, istituzionalizzato a seguito di un ictus cerebrale che l’aveva reso incapace di muoversi sicché era costretto a passare gran parte della giornata a letto a guardare il soffitto e le poche ore restanti seduto in carrozzina nelle sale comuni, rigorosamente "contenzionato". Aveva il mugugno facile e lo sguardo arcigno e non perdeva occasione di ostentare la sua netta avversione nei confronti delle persone, in particolare delle donne, rivolgendosi in modo sgarbato e pretenzioso contro il personale che, per ironia della sorte, apparteneva per intero al genere femminile.
Mai un sorriso, una parola dolce, un minimo accenno di soddisfazione per qualcosa: non gli interessava nulla, né la TV, né tanto meno la lettura e gli era del tutto indifferente persino il posto dove lo posizionavano, spazio aperto o chiuso che fosse.
Non ricordo il suo nome, ma la sua storia mi è rimasta ben impressa nella memoria. Non si era mai sposato, era cioè “fantin”, termine usato in loco per definire il celibato, non aveva parenti prossimi, aveva sempre vissuto in campagna, da solo, in una casa fatiscente che, per sentito dire da quelli del posto, era persino priva di servizi igienici, in una zona non lontana da dove era ubicata l’ RSA in cui gli assistenti sociali l’avevano sistemato dopo che la malattia lo aveva reso inabile a provvedere a sé stesso.
Parlava pochissimo e quelle parole, sbiascicate in un dialetto ligure stretto, erano pressoché incomprensibili. La sua rabbia contro tutto e tutti la percepivo a distanza, almeno io, e i pochi tentativi di avvicinarmi a lui, chiedergli semplicemente se stesse bene, se avesse qualche disagio o dolore, risultavano fallimentari. Per lo più rimaneva immobile, indifferente a qualunque proposta di dialogo; altre volte, con estrema lentezza, girava il capo e, fissandomi negli occhi con aria di sfida, mi riversava addosso tutta la sua disapprovazione; in rare occasioni emetteva suoni dalla bocca, pressoché incomprensibili, ma dal chiaro significato: “Mi lasci stare!”. Sapeva che io ero il medico e si tratteneva, perché con il restante personale, gli improperi, erano all’ordine del giorno e della notte e il termine “bagasce” indubbiamente il preferito.
Più volte gli operatori si erano lamentati di questo suo comportamento e del fatto che, durante il cambio notturno del pannolone e la vestizione (che, per ragioni organizzative, avveniva prima dell’alba) oltre agli improperi, scalciava e menava con il lato del corpo risparmiato dalla paralisi e tutto ciò era troppo da sopportare per chi era di turno. Continuamente ero subissata da richieste di risolvere questo problema prescrivendo dei farmaci sedativi che funzionassero nel momento esatto in cui era necessario, ma io resistetti ad oltranza e mai acconsentii ad aggiungere una sola goccia dei tanto mitizzati neurolettici. In quel periodo certamente il personale tutto, direttore compreso, doveva essersi convinto che io fossi un pessimo medico, incompetente e, ancor peggio, poco rispettoso delle esigenze dell’intera struttura. Di lì a breve, infatti, fui licenziata, seppur con cortesia: avevano trovato un sostituto, sicuramente più comprensivo e malleabile.
Ebbi il tempo però di vedere la trasformazione del vecchio non appena giunse nella residenza una centenaria, una donna dalla costituzione minuta, ma oltremodo rinsecchita dagli anni, che se ne stava buona buona in carrozzina, con gli occhi semichiusi, senza parlare, indifferente al resto del mondo. Per tutta casualità la sistemarono accanto al vecchio scontroso che, come d’incanto, se ne innamorò perdutamente.
"È bella! È mia moglie” ripeteva di continuo con una voce roca ed una cadenza particolare che nulla aveva a che vedere con gli improperi che eravamo soliti ascoltare.
Nonostante la raccomandazione di sistemarli l’uno accanto all’altro, non sempre ciò avveniva in quanto alcuni operatori temevano di ricevere lamentele da parte dei familiari della vecchietta, anche se, almeno apparentemente, la stessa sembrava del tutto incurante di tanti complimenti.
Un giorno ebbi l’opportunità, parlando con i parenti, di fare loro presente questa situazione e, dal momento che si dimostrarono comprensivi, la vicinanza tra i novelli fidanzati fu mantenuta con più continuità.
Le esternazioni d’affetto si limitavano a queste semplici parole “E’ bella! È mia moglie!”, parole che pronunciava con infinita dolcezza ogni qualvolta girava lo sguardo verso di lei. Quanto basta perché le ore trascorressero serene, senza altre pretese.
Ma purtroppo, la centenaria, concluse rapidamente il suo ciclo vitale rendendo palese, anche ai più scettici, quanto davvero il vecchio scorbutico si fosse innamorato.
Non mangiò più per giorni, rifiutò assistenze e cure e, di lì a poco, fu trovato morto nel letto. Una coincidenza che mi fece pensare alla morte di crepacuore.
Mano a mano che aumentava la mia conoscenza del mondo dei vecchi, numerose sono state le situazioni in cui l’incontro tra due anziani generava la voglia di stare insieme, di condividere quei pochi spazi e quelle minime attività concesse in una Casa di riposo e soprattutto scambiarsi sorrisi di complicità, tenersi per mano, ricercarsi con lo sguardo, in silenzio, perché nulla è più comunicativo del silenzio.
Ma, come è inevitabile che sia, l’altra faccia della medaglia finiva per aggiungere ulteriori problemi ai ritmi serrati e irremovibili imposti dalla vita di comunità. L’allontanamento dall’amato, per i più svariati motivi, generava ansia, preoccupazioni, interrogativi che si manifestavano con stati di agitazione o altri comportamenti considerati devianti e pertanto meritevoli di trattamento farmacologico .
Ma io la penso diversamente e quindi, ogni qual volta mi capitava, entravo in uno stato di velata e confusa sofferenza, se non addirittura in un conflitto etico irrisolvibile.
È infatti mia convinzione che il cuore che soffre per amore, anche se è il cuore di una persona affetta da demenza, non si può curare con la digitale, con i betabloccanti, con i nitroderivati e nemmeno con gli ansiolitici, gli antidepressivi e gli antipsicotici.
Emma, mi pare si chiamasse così, era ancora giovane, ma la vita non le aveva riservato tante attenzioni, era rimasta vedova, senza lavoro, malata fisicamente, aveva litigato con la figlia che se ne era andata a vivere in un’altra città lasciandola in condizioni di indigenza fino a che, per via di ripetute infezioni alle gambe divenute sempre più gonfie per una insufficienza venosa e linfatica cronica, era stata ricoverata in un reparto per acuti.
Dopo un periodo esageratamente lungo rispetto a quanto concesso dai famigerati DRG (sistema che permette di classificare i pazienti dimessi da un ospedale in gruppi omogenei per assorbimento di risorse impegnate) era stata trasferita temporaneamente in una struttura che aveva disponibile un posto, in attesa della sistemazione definitiva nella RSA convenzionata col comune di residenza.
Non appena giunta nella prima struttura, situata sulle alture, il destino ingrato fece sì che Emma si innamorò di un ospite definitivo col quale amava condividere lunghe chiacchierate mentre passeggiavano nel giardino antistante. Avevano anche pensato che un giorno avrebbero potuto vivere insieme, aiutandosi vicendevolmente; in fondo entrambi non erano poi così malandati, avevano più che altro problemi di ordine economico.
Ma l’idillio durò poco perché, di lì a breve, Emma fu spostata di punto in bianco nella residenza definitiva, in piena città. Non accettò di lasciare l’amato o forse di rinunciare all’illusione di poter ancora vivere in libertà e cadde in un grave stato depressivo che fu trattato inutilmente con farmaci. Essendo io stessa responsabile di entrambe le residenze, tentai di riavvicinarli, scrissi relazioni, lettere agli assistenti sociali, alla ASL, al medico di famiglia, ma tutto risultò vano. L’innamoramento non fa parte dei criteri di accesso ad una o ad un’altra struttura né da diritto a privilegi di alcun genere.
Anche Emma perse la voglia di vivere e, nonostante avesse da poco superato i 70 anni e le sue patologie croniche, pur invalidanti, non mettessero a rischio la sua vita, se ne andò da questo mondo senza che potesse essere formulata una precisa diagnosi. Lo seppi in ritardo, perché non ero più responsabile di quella RSA, ma non mi meravigliai affatto: un’altra morte di crepacuore, dissi tra me e me.
Tanti altri piccoli episodi affiorano alla mia memoria. Ricordo Adolfo e Carmen che amavano ricavarsi piccoli momenti di intimità nascondendosi in camera dell’uno o dell’altro, eludendo la sorveglianza degli OSS che non vedevano affatto di buon occhio questo loro appartarsi. Chissà mai per quale motivo! Mi chiedevo, nella consapevolezza che, su questi temi tabù, è difficile abbattere pregiudizi, evitare sorrisetti maliziosi e ironici, o addirittura gesti di odiosa contrarietà e disapprovazione per comportamenti ritenuti “scabrosi”.
Maria, invece, una arzilla novantaseienne, solo parzialmente compromessa sul piano cognitivo, si era affezionata, fin dal primo giorno di ingresso in comunità, ad un’altra ospite, Luciana, che sapeva pronunciare solo il suo nome e quello del cane della figlia, Ambrogio. Tra loro era nata una grande amicizia, si cercavano continuamente, se una non c’era, l’altra si faceva prendere dall’ansia e si agitava, vagando senza meta alla ricerca di qualcosa che non sapeva nemmeno lei cosa fosse, insomma una vera e propria dipendenza. Non è difficile immaginare che entrambe avessero bisogno di un punto di riferimento per continuare a sentirsi partecipi del nuovo mondo in cui, loro malgrado, si erano trovate immerse. Col tempo, qualche piccolo escamotage e l’aiuto dei familiari, la dipendenza dell’una dall’altra si attenuò fino a scomparire.
Ricordo Fortuna che, all’età di 104 anni compiuti, davanti alla macchina fotografica dell’amico Alberto Terrile, impiegò un solo istante ad atteggiarsi a donna sensuale capace di accattivare l’attenzione con un solo sguardo.
E non mi stanco di guardare il breve video di Dario, grande seduttore, impegnato in un appassionato valzer lento, che non perde l’ occasione di stringere a sé Francesca e baciarla con tenerezza. Lei si sorprende, si retrae con grazia e poi si abbandona di nuovo alla danza: ne ha subito il fascino, non c’è dubbio. Eppure Francesca è affetta da Alzheimer in fase avanzata e non è in grado di identificare né i luoghi, né il tempo, né le persone accanto a lei, marito compreso. La sequenza fotografica che vi mostro ne è la testimonianza.
Insomma, la vita, per essere chiamata tale, ha bisogno di emozioni, di quelle sensazioni che succedono, a volte senza nemmeno sapere il perché, in tutti gli esseri umani, sani o malati, e dettano i nostri comportamenti. Certo è più facile mediare con esse e tenere sotto controllo il nostro modo di atteggiarsi se si possiede una mente cognitivamente intatta, meglio se accompagnata ad una personalità quieta, tollerante, solidale; il difficile è quando la mente non ci sostiene e le emozioni, positive o negative, ci invadono con tutta la loro forza prorompente. Di questo dobbiamo tenere conto noi, professionisti della cura, perché ostacolare fino a privare le persone anziane, soprattutto quelle affette da demenza, di quelle espressioni vitali, e sottolineo vitali, dettate dalle emozioni, equivale a ucciderle.
Sono parole forti, le mie, ma ne sono convinta, così come sono sempre stata convinta dell’esistenza della morte di crepacuore. Oggi la medicina la chiama “cardiomiopatia acuta da stress”, le dà un nome altisonante, difensivo, poco comprensibile al volgo, ma questa non è altro che un cedimento improvviso della funzione di pompa del cuore che nella stragrande maggioranza dei casi porta a morte repentina, appunto il crepacuore.
In Casa di riposo questa entità nosologica viene passata per naturale, ma, a mio parere, sarebbe meglio inquadrarla tra le cause di morte “iatrogena”, che, per motivi facilmente comprensibili, non risultano mai sulle schede ISTAT.
A questo punto non posso far altro che esclamare a gran voce: “Evviva l’amore!”
Perché l’amore, ricordiamocelo, in qualunque luogo o circostanza, è sempre “senza peccato”.