“IL VECCHIETTO DOVE LO METTO?” leggo su una locandina del settimanale “Il Levante” di ritorno dal consueto allenamento di corsa. Incomincia ad albeggiare ed io sono sola, avendo già salutato le restanti componenti di quella combriccola, capace di alzarsi alle 5 del mattino, quasi tutti i giorni, e di condividere fatiche e pazzia.
Mi fermo all’istante, anzi mi paralizzo. La stessa domanda ce la ponevamo spesso, anni fa, quando lavoravo in pronto soccorso e vi era la cronica carenza di posti letto a disposizione nei reparti di degenza. Per fortuna, oserei dire, i vecchietti ne avevano di tutte un po’, di patologie, per cui potevano essere ricoverati, quasi indifferentemente, in medicina o in neurologia o in pneumologia o in chirurgia generale, purché si avesse l’accortezza, per evitare ripercussioni “primariali”, di sottolineare alla voce “ ipotesi diagnostica” la malattia più consona al reparto prescelto. Le donne, per fortuna in maggioranza, avevano una chance in più degli uomini, perché, alla disperata, potevano essere collocate in Ginecologia, mentre il reparto di Urologia era dotato di un numero molto ridotto di posti letto.
Insomma, il problema “il vecchietto dove lo metto?” è sempre esistito anche per ovviare a situazioni di disagio sociale che imponevano il ricovero ospedaliero più per motivi assistenziali che prettamente sanitari. Infatti, in Liguria, vuoi per l’età avanzata della popolazione, vuoi per le caratteristiche geografiche, i percorsi diagnostici e assistenziali di tipo ambulatoriale, hanno sempre presentato notevoli problematiche organizzative.
Ma “Il Levante” non faceva affatto riferimento all’evento acuto malattia, al Pronto Soccorso, all’Ospedale, ma a ben altro ricovero, questa volta a vita. La riga sottostante dà una risposta ineccepibile alla domanda: “LE 43 STRUTTURE”. Proprio così, si tratta di strutture dedicate agli anziani: centri diurni, comunità alloggio, residenze protette, residenze sanitarie assistenziali.
Sono ancora lì, immobile, davanti all’edicola dei giornali, quasi incredula e penso: “Perché non lo chiediamo a loro?”.
Ci avevo provato, anni fa, quando ho approntato un questionario dal titolo “Come vorrei crescere vecchio” che propongo anche a voi, se avrete la pazienza di leggere questo mio articolo.
Ora vi spiego come è nata l’idea.
Nel 2013, con Maria Grazia, direttrice di Casa Morando, avevo partecipato a un convegno a Lastra a Signa in cui venivano presentati i risultati di una ricerca indipendente sullo stato di benessere dei residenti del Centro Sociale , dopo 40 anni dalla sua nascita. Ne uscimmo soddisfatte facendo tesoro del libro intitolato “Il centro sociale di Lastra a Signa – La sfida continua” a cura di Leonora Biotti e Gavino Maciocco che avevano consegnato a tutti gli intervenuti. Sempre sarò grata a Lidia per avermi invitato.
Tra tutto quello che ascoltai, devo dire con grande attenzione, mi entusiasmarono le parole con le quali il prof. Francesco Maria Antonini, allora ordinario di Geriatria all’Università di Firenze, smontò all’istante l’intenzione del sindaco di costruire nel territorio del Comune una casa di riposo, parole riportate da Gavino Maciocco, nel suo prologo: “Le case di riposo sono la negazione della dignità degli anziani, perché li privano della libertà, perché la vita quotidiana viene regolata dalla struttura e ciò li rende passivi e gli impedisce di utilizzare ed eventualmente sviluppare le loro capacità residue – fisiche, intellettuali, affettive-“.
Finalmente, Maria Grazia ed io, avevamo trovato qualcuno, ben più altolocato di noi, con il quale essere in sintonia di pensiero sicché l’idea di realizzare nel nostro territorio un piccolo condominio solidale adiacente alla casa di riposo, peraltro nata nella mente della direttrice ancor prima del mio avvento come responsabile sanitario, ne uscì decisamente rafforzata. Purtroppo, devo dire, a distanza di 5 anni, i vincoli attualmente esistenti, non ultimo il piano di bacino, appaiono ancora ostacoli insormontabili.
Il testo riportava inoltre i contributi dei diversi autori che avevano partecipato alla ricerca per valutare lo stato di salute dei residenti e in particolare il benessere e la qualità di vita, contributi dai quali ho preso spunto per approntare il questionario sopra citato.
Entrambe determinate, forti di aver visto realizzato un progetto ben più ambizioso del nostro, avevamo iniziato a somministrare il questionario “Come vorrei crescere vecchio” alle persone che frequentavano il Centro Anziani della vicina Parrocchia e che ogni mercoledì si riunivano intorno ad un tavolo per fare due chiacchiere, una tombolata e alla fine sgranocchiare qualcosa di merenda.
Avevamo in mente anche un altro progetto, il “Quartiere Solidale” per cui era indispensabile tastare il terreno sulle criticità del territorio e sulle esigenze delle singole persone residenti, esigenze che, come è noto, hanno molteplici sfaccettature.
Il tutto sarebbe servito, da un lato, a promuovere iniziative di tipo formativo, culturali, ludico-ricreative che aiutassero a mantenere il più a lungo possibile l’autosufficienza e dall’altro, a intervenire precocemente cercando di fronteggiare i bisogni degli anziani per evitare che situazioni di particolare vulnerabilità degenerassero in patologie conclamate tali da richiedere l’allontanamento dall’ambiente consueto di vita.
L’uso del passato e del condizionale è d’obbligo perché, purtroppo, anche questo progetto, nonostante il ruolo attivo assunto dalla Parrocchia, non è riuscito a decollare.
Ebbene, tornando al questionario, alla domanda “Hai mai pensato di vivere in comunità?” solo uno, della trentina di persone presenti, ha risposto di sì, che ci pensava spesso e che si stava interessando per scegliere una struttura che lo potesse soddisfare. Tutti gli altri, in modo più o meno accorato, chi scuotendo il capo, chi indietreggiando, chi facendo smorfie con la bocca, hanno risposto che la vita in comunità non la prendevano nemmeno in considerazione. Dover dipendere dagli altri, figuriamoci, non era pensabile; addirittura un’arzilla signora, ex sciatrice olimpionica, sosteneva che avrebbe preferito morire piuttosto che finire in ospizio, non autosufficiente. Lei, che all’età di 93 anni, si era rimessa gli sci ai piedi e, senza incertezza né paura, era scesa fino in fondo alla pista, meravigliandosi della memoria dei suoi muscoli, capaci di eseguire con eleganza e scioltezza tutti i movimenti richiesti. Qualcuno l’aveva notata, si era permesso di chiederle come avesse fatto a mantenere tale bravura: era un organizzatore delle Olimpiadi invernali che si sono svolte in Russia e l’aveva pure invitata alla premiazione. Ma la sciatrice rifiutò, era troppo lontano.
Quindi un solo anziano su trenta pensa alla casa di riposo come soluzione futura. Comprendo che con numeri così bassi non si può parlare di dati statisticamente significativi, ma si tratta di poco più del 3% (esattamente 3,33 periodico) e in pieno centro storico di una città sul livello del mare. Posso immaginare le risposte che avrebbero potuto dare gli anziani sempre vissuti nelle campagne, a lavorare la terra o nelle miniere.
In Liguria, il problema, proprio non se lo pone nessuno, almeno in termini di precocità e, come logica conseguenza, si comprende bene la forza prorompente della frase “Il vecchietto dove lo metto?”.
A questo punto non mi resta che appellarmi a voi, lettori di questo blog e a tutti coloro che hanno a cuore il mondo sempre più popolato dei vecchi.
Vogliamo intraprendere una campagna di sensibilizzazione nazionale su questo tema?
Vogliamo dare voce ai bisogni e alle esigenze delle singole persone che invecchiano, ognuno nella propria realtà territoriale?
Vogliamo indirizzare le strategie politiche verso un’offerta di servizi a contenuto educativo, riabilitativo e preventivo piuttosto che contenitivo e assistenziale?
Vogliamo migliorare la fiducia sociale che si sta affievolendo sempre di più?
Io ci sono. Il questionario pure.
Eccolo qua