Questa mattina mi sono svegliata con un pensiero dominante: le parole.
Le parole hanno un senso, talvolta un doppio senso, le parole sono pietre, possono fare male, tanto, ma possono anche consolare; il potere delle parole è enorme, le parole esprimono concetti e sui concetti si costruiscono le leggi, le istituzioni, le organizzazioni e quindi i permessi, i vincoli a cui conseguono punizioni o premi. Qualsiasi forma di organizzazione umana non può prescindere dalle parole e il mondo sanitario, tanto per rimanere in tema, ne è ampiamente fornito e in diverse lingue.
La lingua italiana ha persino difficoltà a trovare nuovi termini e quindi spesso si limita a mantenere inalterate le espressioni appartenenti ad altre lingue, in genere l’inglese - sarà per pigrizia di pensiero o per aver maggiore spazio interpretativo? Chissà ? Senza considerare i termini stranieri, che restano generalmente confinati in ambito più strettamente tecnico, negli ultimi anni numerose parole, alcune coniate ad hoc, hanno preso campo nel linguaggio comune e un po’ tutti, e a vari livelli, le usiamo, con nonchalance, a suffragio dei nostri propositi.
Ci sono parole per accogliere, parole per rifiutare, per deridere, per bleffare, per consolare, per programmare, per costruire, ma anche per boicottare e distruggere.
Ma mi chiedo, nel tentativo, del tutto personale, di mantenere una sorta di par condicio delle parole: la forza delle parole, nel bene e nel male, è per tutte simile, se non uguale oppure esiste una sorta di gerarchia delle parole, indipendentemente da chi le pronuncia, che ne rende qualcuna più convincente o avvincente, se non proprio di potenza si tratta, più proficua elettoralmente parlando, semplicemente più comoda, più di effetto e più di moda?
Provo a spiegarmi meglio: parlare di beneficio, di risorse, di sicurezza, di protezione, di prevenzione, di riduzione del rischio, di centralità della persona, di continuità assistenziale, d’integrazione, di ottimizzazione, di efficacia, di efficienza o ancor meglio di appropriatezza, di trasparenza, di competenza, di diritti, di deontologia, di etica, solo per citarne alcune, è sicuramente bello e rende belli chi le pronuncia agli occhi dei più. E non c’è dubbio che tutte queste parole presuppongono finalità importanti per la società intera.
Ma, mi chiedo, se tutti o quasi ci riempiamo la bocca di queste belle parole perché è così difficile passare dalle parole ai fatti? Forse non è sufficiente assemblare in modo caotico tutte queste belle parole per agire proficuamente, ma occorre trovare un metodo, un ordine, anche sono cronologico, in cui disporle perché i concetti espressi dalle parole si traducano davvero in fatti concreti. Ovviamente il metodo deve essere condiviso, chiaro trasparente, non dare adito a confusioni, insomma onesto e rispettoso, cioè giusto e, possibilmente sobrio, visto i tempi, in una sola parola (che è tanto di moda) “slow”.
In nome del rischio e della prevenzione, per esempio, le società tutte, sia nel mondo occidentale che nei paesi in via di sviluppo si sono spese molto, sia in termini economici che d’impegno morale. Eppure gli sforzi a oggi compiuti, più che risultati apprezzabili in termini statistici (si pensi anche solamente agli infortuni sul lavoro), sembrano mettere in evidenza che esistono ancora troppe discrepanze tra le aspettative e i benefici reali, quasi a indicare che la strada intrapresa può e deve essere corretta. In alcuni casi sembra cadere a fagiolo il detto popolare ”Si stava meglio, quando si stava peggio”.
Niente paura, basterebbe trovare dove sta l’inghippo e correggere il tiro.
“Prevenire è meglio che curare” è noto, senza alcun dubbio. Ma prevenire cosa? Tutto? Mi sembra esagerato, utopico, poco applicabile. Ciò che più ci interessa? Beh, questo mi pare più realistico. Ciò di cui siamo più a rischio? Anche in questo caso la domanda è più circostanziata, centrata, personalizzata, tanto per usare parole “di moda”.
Comunque sia, per prevenire qualcosa, bisogna prevedere cosa può capitare. Siamo tutti d’accordo che nessuno, o quasi, è in possesso della sfera di cristallo, ma qualche idea di come stanno andando certe cose dobbiamo pur averla. Disponiamo della possibilità di confrontare dati elaborati da formule matematiche e algoritmi complicatissimi, elementi appartenenti alle cosiddette “scienze esatte”, in grado di stabilire le percentuali di rischio, relativo o assoluto, i rapporti tra rischio e beneficio, l’efficacia, l’efficienza, l’appropriatezza e quant’altro di utilità sul piano statistico. Sul piano individuale della cura le cose sono un pochino più complesse e l’esperienza dimostra come il prevedere debba necessariamente tener conto anche di altre scienze, come quelle “umane” che di esatto non hanno proprio nulla. Capisco che a nessuno faccia piacere complicare le cose, aggiungere difficoltà al ragionamento, ma, purtroppo, apparteniamo al genere umano, che ci piaccia o no e ogni giorno ci troviamo di fronte a problemi complessi dalle infinite, o quasi, variabili. Come si può non tener conto delle scienze umane?
Tanto per fare un esempio, solo apparentemente banale, le sponde al letto, utilizzate abitualmente negli ospedali e nelle case di riposo, sono in grado di generare sentimenti individuali diversissimi che non possono essere considerati ininfluenti sul processo di cura. C’è chi le richiede perché si sente sicuro, c’è chi le esige come diritto ineluttabile, c’è chi le rifiuta perché si sente prigioniero, c’è chi le scavalca e c’è chi riesce a smontarle e le usa come arma di difesa. Proviamo a fare un semplice ragionamento: le sponde al letto sono mezzi di protezione per prevenire le cadute, la decisione di applicarle è di pertinenza sanitaria, medico o infermieristica, la legge richiede la motivazione e la durata della prescrizione, oltre che di darne informazione scritta al paziente o al familiare per ottenere il cosiddetto “consenso informato”. Si tratta cioè di un atto sanitario a tutti gli effetti. Ma a chi spetta il compito di prevedere le reazioni del paziente? Non ci vorrà uno specialista ad hoc! Uno specialista della previsione! No, sarebbe una follia …
Se questo ragionamento è valido per le sponde al letto, figuriamoci quando si tratta di intraprendere o interrompere terapie farmacologiche o intraprendere un percorso diagnostico terapeutico che richiede manovre invasive e atti chirurgici in cui tutto è in dubbio e in discussione. Noi medici siamo avvezzi ad avere a che fare con la prevedibilità “esatta”, cioè quella correlata alle statistiche, alle linee guida, ai protocolli, agli algoritmi: una qualche risposta, spesso ancorata ai numeri, la sappiamo dare.
“Cade l’asino”quando siamo chiamati in causa per ciò che concerne la prevedibilità “non esatta”, quella correlata all’essere umano. A cosa ci ancoriamo? Ai numeri: impossibile. All’intuizione: poco professionale. Alla sfera di cristallo: scomoda e pericolosa. E allora torno alla domanda di prima? A chi spetta? Che sia davvero necessario uno specialista della “previsione non esatta”? No, impossibile. Si tratta di un ragionamento folle …
Di questo passo è evidente che non riuscirò a uscire dalla centrifuga dei miei pensieri: frammentazione, riduzionismo, parcellizzazione, competenze, specializzazioni, no, questa strada non è percorribile.
Devo tornare indietro per capire dove sta l’inghippo, devo riprendere l’origine del mio ragionamento, la storicità, per così dire (perché la storia insegna) non dimenticando, tanto per farmi forza, che la complessità è una cosa semplice.
Sono partita dal chiedermi se le parole hanno un qualche ordine che le rende diverse e diversificabili che condiziona in qualche modo il passare dal “dire” al “fare”: questo è il punto.
Riferendomi all’esempio delle sponde al letto, mi sembra ovvio che la parola “prevedere” (che possa cadere) debba precedere la parola “prevenire” (le cadute), altrimenti che senso avrebbe mettere le sponde. Il concetto generale potrebbe essere espresso in questo modo: la parola “previsione” deve sempre precedere la parola “prevenzione” perché il nostro agire abbia un senso. Da ciò ne conseguirebbe che esiste un ordine cronologico ben definito tra le parole, ordine che sottende, ovviamente, un preciso ragionamento che ha senso solo se l’ordine è rispettato. Questo è già qualcosa.
Abbiamo però parlato di prevedere e prevenire le cadute, ma non di prevedere e prevenire le emozioni scatenate dal mettere le sponde al letto. Per le prime possiamo prendere spunto dai dati statistici, in altre parole avvalerci delle scienze esatte. Per le emozioni, invece, dobbiamo fare i conti con ciò che non è esatto, quantificabile, misurabile, dove tutto è approssimativo, sfumato e l’unica certezza è l’incertezza.
Se è così, sembrerebbe che tutto ciò che è misurabile e che ha indubbiamente una valenza statistica, sia maggiormente rilevante rispetto a ciò che non è traducibile in numeri. Riferendoci alle scienze, quelle definite “esatte”, sarebbero più importanti, più potenti, più comode, più opportune, più vantaggiose rispetto a quelle “ non esatte”. Non solo ordine cronologico sullo stesso piano, ma anche diversi piani gerarchici in cui una parola sovrasta o addirittura cancella l’altra, modificando il senso dell’agire.
Esiste allora una gerarchia delle parole: una gerarchia negata, mascherata, subdola.
Che sia proprio qui l’inghippo ?
Se è così, è proprio paradossale.
Come può un essere umano cadere nel tranello di considerare, nei fatti, le scienze umane meno rilevanti di altre? Che necessità c’è di riempirsi la bocca di termini come umanizzazione, personalizzazione, centralità della persona? Non siamo forse essere umani? Non è forse implicito che un essere umano desideri avere la cura giusta per sé e le attenzioni che si merita quando ha bisogno?
Forse se sprecassimo meno parole e ci concentrassimo sul significato profondo, sostanziale, completo di ognuna di esse, il mondo sarebbe diverso, forse migliore, anche di una sola briciola.
Mi fermo qui.