I vecchi e il medico di Rosanna Vagge
il blog di Rosanna Vagge
- Autore/rice Rosanna Vagge
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Mentre stavo riordinando le cartelle sul mio p.c., mi sono imbattuta in una vecchia presentazione dal titolo “Vivere l’urgenza” di cui mi ero dimenticata l’esistenza. D’istinto ho aperto il file e, scorrendo velocemente la prima parte che trattava l’evoluzione della medicina nel corso dei secoli, sono rimasta particolarmente colpita dalle diapositive che evocano l’epidemia di peste nel medioevo ed i danni che ne conseguirono
La caccia ai colpevoli, le accuse agli ebrei di avvelenare i pozzi, le processioni dei flagellanti con l’inevitabile diffusione del contagio, la fuga incessante di notai e medici dalle città, insomma la paura della devastazione della morte aveva indubbiamente il sopravvento e le reazioni della gente ne erano una conseguenza.
Il confronto con la pandemia da coronavirus è inevitabile: il mondo cambia, ma i fattori umani rimangono inesorabilmente invariati nel tempo. Ricerco allora un’altra mia vecchia presentazione sulla relazione medico-paziente, cavallo di battaglia di quando lavoravo in emergenza- urgenza. La mia attenzione si sofferma sulla sua evoluzione, dal paternalismo all’autodeterminazione dei cittadini, sul consenso informato ed il concetto di responsabilità professionale ed un groviglio di pensieri mi attorciglia la mente.
E’ indubbio che la relazione medico-paziente, già sofferente per la supremazia tecnologica e scientifica rispetto ai fattori umani, abbia subito un’ulteriore sferzata in questo periodo di pandemia in cui paradossalmente la comunicazione, ampliata a dismisura, ha finito per essere inefficace e addirittura fuorviante. Senza considerare che se la relazione tra esseri umani è importante, per non dire essenziale, per promuovere la salute psichica e fisica nonostante le avversità e la malattia, i principi sui quali si basa non sono affatto gli stessi in emergenza o in cronicità e così le decisioni da intraprendere sia nel singolo individuo che nella comunità.
E già, in emergenza il rapporto medico paziente è caratterizzato da un alto grado di asimmetria, fino a costituire un rapporto di forza, istituzionale. Ed il rischio dell’asimmetria non è affatto irrilevante, né per il medico né per il paziente. Il primo infatti tende a spostare il rapporto di forza dalla “persona” alla “malattia”, il secondo rischia di sentirsi “parte lesa” e non allearsi al medico. Inoltre c’è da considerare che, anche se il grado di pericolosità della malattia è modesto, la persona è emotivamente scossa e, non di rado, la sua lucidità e quella dei suoi familiari è offuscata.
E’ proprio così, l’etichetta Covid positivo appiccicata alla persona, di qualunque età e ceto sociale, ha di fatto annullato ogni possibilità di condivisione di un percorso sanitario e assistenziale personalizzato e omologato l’intera categoria dei contagiati all’isolamento forzato, non certo fiduciario, spesso in sedi ben lontane dal domicilio abituale.
Le persone più abbienti, in genere autonome o con rete familiare consistente capace di sopperire alle carenze assistenziali istituzionali, sono talvolta riuscite a trovare soluzioni alternative per ridurre il disagio della permanenza nelle cosiddette Aree Sanitarie Temporanee costruite ad hoc, ma per i tanti vecchi che popolano la Regione Liguria non è stato lo stesso. E non solo per motivi sanitari e assistenziali legati al Covid e alla co-morbilità, ma piuttosto per la fragilità nella sua accezione più ampia, in particolare sociale: tra questi gli anziani che vivevano soli, pur con qualche acciacco, spesso in zone lontane dai centri urbani o quelli , e non sono pochi, in condizioni economiche precarie e persino i senza fissa dimora.
Ebbene la relazione, la tanto auspicata alleanza terapeutica è svanita nel nulla: difficili se non impossibili i colloqui col paziente, con i conoscenti, con gli assistenti sociali, persino il confronto con i sanitari quando necessario, insomma una cascata di situazioni scomode per tutti che inevitabilmente ha prodotto i suoi effetti, non sempre riparabili.
Mai come in questo periodo ho sentito piangere al telefono amici e familiari! Eppure ho lavorato anni e anni in Pronto Soccorso e non sono state poche le brutte notizie, quelle che hanno il sapore dell’inaccettabile, che ho dovuto comunicare. La disperazione per non poter essere vicini ai loro cari, tener loro la mano, incitarli alla guarigione, assisterli nei momenti più difficili e accompagnarli alla morte con dignità e rispetto, oltre che la fiducia in coloro che hanno fatto il possibile per salvarlo.
Non dobbiamo dimenticare mai che la relazione è terapeutica e tanto più una persona ha bisogno di aiuto, tanto più è in grado di percepire la qualità della relazione.
Perché, come sostiene Giorgio Bert, se la malattia è un problema biologico, il malato è una persona e nell’esperienza soggettiva della malattia , nel vissuto individuale (illness per gli anglosassoni) è racchiuso un universo di senso privarsi del quale impoverisce la possibilità di comprensione e di intervento da parte della scienza medica.
E non servono le stanze degli addii “per non andarsene da soli”, per citare il titolo di un articolo uscito sul Secolo XIX in data 18 gennaio , per la presentazione, con tanto di foto, della stanza allestita al Policlinico San Martino a disposizioni dei parenti dopo il decesso dei loro cari. L’articolo, a mio parere, è davvero sconfortante e a peggiorare il tutto, come in una macabra farsa, è un refuso nel sottotitolo: “Una ex sala operatoria a disposizione dopo i decessi dei parenti”.
Dove andremo a finire? Mi chiedo sconcertata e triste.
Mi accorgo poi che la stessa frase in inglese “Covid-19: where do we go from here?” è riportata sull’autorevole rivista scientifica The Lancet nell’editoriale dell’ultimo numero 2021, citato nell’articolo , pubblicato sul Blog Salute Internazionale, “La scienza e la politica” di Pietro Dattolo, Presidente dell’Ordine dei Medici di Firenze.
Il sottotitolo non lascia dubbi all’interpretazione: “In questa pandemia la scienza ha fatto il suo dovere, mentre la politica ci sta portando al disastro”.
La scienza ha prodotto i vaccini, ma i leader politici non sono riusciti a trovare gli accordi per una distribuzione equa a livello mondiale sicchè le disuguaglianze tra paesi ricchi e poveri si sono amplificate a dismisura. Ciò ha permesso alla variante Omicron di avere la meglio e accanirsi proprio contro le Nazioni che avevano fatto il pieno di vaccini, come gli USA, in cui la copertura vaccinale è la più bassa tra i paesi industrializzati per l’ ostilità contro i vaccini che si è venuta a creare, in nome della libertà individuale e della libertà d’impresa.
I motivi di questo apparente paradosso sono tutti politici, spiega l’autore dell’articolo, ma la politica appartiene agli esseri umani e non può prescindere da quei fattori (chiamati appunto “umani”) che motivano i nostri comportamenti .
A mio parere, il venir meno del principio di autonomia dell’intera comunità non è stato affatto irrilevante nel determinare a cascata le reazioni che tutti conosciamo, mettendo gli uni contro gli altri, enfatizzando le divergenze di opinioni, generando confusione e sfiducia, alimentando un clima di conflittualità dal quale si fa fatica ad uscire.
Ma la salute, come la pandemia è globale e, secondo la teoria della complessità, è una proprietà emergente che non si spiega con la somma dei singoli elementi che la determinano, perché la salute non riguarda solo la medicina ma la vita, con tutte le sue infinite sfumature.
E’ prevalso da parte della politica il metodo “Divide et impera”, ignorando i diritti di ogni individuo in relazione ai farmaci, vaccini, diagnostici, dispositivi di protezione e dimostrando il completo fallimento del programma di cooperazione a favore dei paesi più poveri.
E non c’è tanto da meravigliarci se nel sistema complesso in cui siamo immersi, la voce più grossa è stata quella dell’Economia perché da sempre le altre leggi che lo governano, l’etica e l’equità , hanno avuto maggiore difficoltà ad esprimersi. La diapositiva sottostante, che per infinite volte ho riportato nei corsi di “Primo soccorso aziendale” diretti ai cittadini, rappresenta questo concetto.
E’ facile trovare spazi strutturati e tecnologie se si hanno i soldi per acquisirli, mentre è molto più impegnativo far crescere le altre due voci, organizzazione e professionalità, semplicemente perché sono inerenti agli esseri umani con tutti i loro pregi e difetti, le loro emozioni, i loro limiti, le loro capacità.
Non dobbiamo dimenticare che il finanziamento della medicina preventiva discende dalla politica, mentre quello della medicina d’emergenza discende dalla morale.
La pandemia da coronavirus e il susseguirsi delle sue varianti ha paradossalmente unito prevenzione e acuzie sia nel singolo individuo che nelle comunità ed ha drammaticamente evidenziato l’importanza dei determinanti della salute.
Due anni di pandemia non ci hanno insegnato nulla, conclude Pietro Dattolo nell’articolo sopra citato.
Io voglio essere più ottimista, credere nell’essere umano e pensare che prima o poi il coronavirus ci abbia insegnato a riflettere affinché “ scienza e coscienza” possano correre insieme dandosi la mano.
- Autore/rice Rosanna Vagge
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Nel corso della mia vita mi sono sempre interrogata sul significato della parola “limite”, tante volte sentita nominare in ambito familiare, fin dagli anni della mia fanciullezza. Nonna Rosina è stata indubbiamente determinante con i suoi detti e proverbi, calati sempre a fagiolo nelle situazioni più disparate. Non le sfuggiva nulla ed ogni rimprovero o ammonizione per qualche comportamento che non le andava a genio, e, più raramente, anche qualche lode, era l’occasione per insegnare a me e a mio fratello, vicini in età, qualcosa sul senso del vivere comune, una sorta di lezione di educazione civica. Oltretutto ci azzeccava sempre, guidata dal buon senso, anche in campi non certo di sua competenza come quello sanitario. Quando, con una sola occhiata cupa, pronunciava la seguente frase: “Hai la faccia che non mi piace … covi!” immancabilmente, nell’arco di alcune ore, a me o a mio fratello saliva la febbre o capitava qualche altro inconveniente.
“C’è un limite a tutto” l’ho sentito dire mille volte da nonna Rosina.
Il limite alla pazienza, alla sopportazione, alla tolleranza risuonava nelle nostre menti bambine come un avvertimento, un invito a cambiare rotta, a non insistere su atteggiamenti non graditi, dal momento che il limite, inteso come confine da non oltrepassare, era stabilito dalla nonna stessa.
Il limite alla disubbidienza, all’arroganza, alla pretesa, alla cocciutaggine, pur essendo comunque un avvertimento, ci insegnava, ripensandoci con sguardo adulto, ad assumere la responsabilità di ogni nostra azione valutandone le possibili conseguenze per non sconfinare nel terreno altrui e magari avere la peggio.
Insomma, dai oggi, dai domani, mi è stato ben inculcato il concetto che un limite esiste per tutto e per tutti e che se è possibile demarcare il confine tra ciò che è punibile o sanzionabile e non in alcune circostanze, come ad esempio il codice della strada, ben più difficile è stabilire regole standardizzate quando il limite fa riferimento alle relazioni tra esseri umani.
Sta di fatto che, in questo periodo pandemico, in cui la mia vita è stata ed è tuttora assorbita da rilevanti impegni e responsabilità professionali, nei pochi spazi in cui i miei pensieri scorrono liberamente, questi ricordi di fanciullezza sono riaffiorati nella mia mente, commisti ai soliti interrogativi che rivolgo a me stessa, con forse meno ingenuità rispetto al passato, ma conservando un certo stupore che rasenta a volte l’incredulità.
Trovo un po’ di consolazione scorrendo veloce il libro di Remo Bodei intitolato appunto “LIMITE” e riesco a cogliere, pur con i limiti della mia ignoranza filosofica, alcuni spunti di riflessioni che mi possono essere di aiuto concreto nelle scelte professionali che devo affrontare quotidianamente, oltre che di supporto psicologico nell’accettare la grande variabilità dell’animo umano.
“Fino a che punto posso inoltrarmi nel raggiungere i miei obiettivi o nell’esaudire i miei desideri?”
“Dove si trova, se si trova, la linea di demarcazione tra il buono e il cattivo, tra il lecito e l’illecito?”
Queste domande, che sento vive dentro di me, sono riportate al Cap. III - Imparare a distinguere, pag 115 dell’edizione Il Mulino 2018, domande che, secondo Bodei, sono destinate a non avere risposte convincenti e univoche in quanto nell’epoca odierna “siamo di fronte a un vero e proprio politeismo dei valori, a uno scontro tra posizioni per principio incompatibili, sebbene di fatto normalmente conciliate grazie a sottintesi e, talvolta, tortuosi compromessi pratici. Il punto è che – una volta usciti dai binari della tradizione, in base ai quali è la trasgressione stessa a dettare la misura dello scarto rispetto alla norma – non si può più contare né su saldi punti di riferimento, né su netti criteri di giudizio.” Aggiunge poi che, se non è stato facile rispondere a tali questioni neppure nel passato, “oggi la difficoltà è conclamata a causa dell’inflazione delle possibili soluzioni. In mancanza di regole oggettive o intimamente condivise, gli individui sono pertanto sempre più indotti ad adattarsi ad una paradossale morale provvisoria permanente”.
Ebbene, queste frasi, a mio parere, si collocano a pennello nell’emergenza pandemica da Coronavirus che ha semplicemente acuito una tendenza alla dismisura che non solo ha riguardato la natura, ma anche rovesciato, sul piano etico, il modello della filosofia classica, basato sugli ideali della temperanza, come sostiene Orazio che riassume il principio di ogni condotta con queste parole “Vi è una misura nelle cose, vi sono precisi confini oltre i quali e prima dei quali non può consistere il giusto”. Tutto ciò lo troviamo a pag. 99-100 del libro di Bodei. Più avanti, nel paragrafo “Vietato vietare” dello stesso capitolo Bodei scrive : “[…] i limiti da rispettare non cessano di esistere e non smettono di interrogare le coscienze, ponendole di fronte al conflitto tra assolutezza e relatività delle norme, tra la loro origine divina e umana o tra il miope interesse personale e l’esigenza, spesso sopita, di maggiore lungimiranza e apertura verso gli altri. Proprio perché la morale, al pari del diritto, è una faticosa, fragile e mutevole costruzione umana, essa deve essere difesa dalle prevaricazioni, dagli abusi e dal caos”.
E non è tutto. Bodei aggiunge che non esiste uno spazio omogeneo di verità morali, ma uno spazio complesso, caratterizzato da una pluralità di valori specifici a rete, entro i quali muoversi sinapticamente per collegarli a contesti più ampi. Parla di una complessità che intreccia l’universale con il particolare, l’uno con il molteplice e cita Tolstoj in Resurrezione che asserisce che “[…] ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre, e spesso non è affatto simile a sé, pur restando sempre unico e sempre sé stesso”.
Non vorrei apparire presuntuosa ma, nel mio ruolo professionale che svolgo ormai da quasi due anni, inerente l’emergenza Covid, mi sento quotidianamente intrappolata tra le maglie di una rete invisibile in cui le uniche sinapsi possibili avvengono sulla base della solidarietà, del coraggio, della tolleranza, della compassione che condivido con coloro che, come me, toccano con mano la sofferenza fisica e psichica di chi è colpito dall’infezione del fatidico Sars-Cov- 2, gravata a volte a dismisura dalle disposizioni normative per evitare il diffondersi del contagio. Impenetrabili mi risultano le maglie della rete nei confronti di una burocrazia rigida, inflessibile, indifferente, oserei dire disumana, sempre pronta a porre ostacoli ad ogni proposta basata sul semplice buon senso, ritardando o addirittura impedendone la realizzazione.
Questo a mio parere è inaccettabile perché se emergenza è, lo è per tutto e non si può quando conviene fare di tutte le erbe un fascio e quando non conviene appellarsi a ferree regole alle quali non è possibile trasgredire seppur ritenute all’univoco ingiuste o per lo meno inappropriate al contesto.
Su questo devo ammettere di essere irremovibile: le norme che amministrano la nostra società ( e per norme intendo le delibere istituzionali a vari livelli, le modalità di approvvigionamento delle risorse, i rimborsi economici, le procedure dei trasferimenti, i criteri per accedere ai servizi disponibili e tanto altro ancora) siano del tutto incapaci di stare al passo con l’emergenza, peraltro declamata sventolando la bandiera dell’etica oltre che della scienza, incapaci di articolarsi nella comprensione di casi particolari, che non sono affatto rari, incapaci di ridurre sofferenze inutili ed evitabili, sprechi di risorse umane ed economiche. Insomma, in sintesi estrema, capaci solo di andare contro tendenza togliendo la speranza ai cittadini e minando la fiducia sociale, elemento imprescindibile per il bene della comunità.
Bodei, al paragrafo intitolato” Limiti esistenziali” sottolinea che oggi, rispetto al passato, esistono molti più confini cancellati o incerti: sfumano le differenze tra le età della vita e tendono ad eclissarsi o a perdere di solennità alcuni riti di passaggio come, ad esempio, quelli che segnavano la transizione degli individui dalla fanciullezza all’età adulta. Resiste la festa dei quindici anni delle ragazze nei paesi latino-americani e solo ora ne colgo appieno il significato simbolico, essendone venuta a conoscenza per il fatto di aver sposato un argentino . Confesso che, a suo tempo, mi è parsa addirittura come una usanza barbara e, con una buona dose di stolta sfacciataggine, non ho risparmiato critiche per le cospicue spese che comportava alle quali non rinunciavano neppure le famiglie meno abbienti.
Il contesto culturale gioca indubbiamente un ruolo fondamentale nel benessere individuale e deve essere considerato nelle scelte strategiche che la società promuove. Su questo non ci piove.
L’incerta divisione ormai intervenuta tra le tre canoniche età della vita (giovinezza, maturità, vecchiaia) è spiegata dal filosofo dal fatto che la giovinezza, complice l’ insicurezza economica, si prolunga oltre i termini tradizionali, dall’altro perché la vecchiaia si sforza di mimare una vitalità che non possiede. I figli e i nonni conquistano maggiore importanza, reale e simbolica, a scapito dei padri e più in generale delle persone di mezza età, ponendo con maggiore evidenza il problema del ricambio generazionale e della ridistribuzione delle risorse.
Un problema, questo, che è emerso in modo forte in questi ultimi due anni, in cui le RSA o più in generale le strutture residenziali degli anziani sono state oggetto delle attenzioni della politica allo scopo di difendere i vecchi, sia potenziando le misure di sicurezza per evitare il contagio, tamponi a raffica e isolamento, sia privilegiando la scelta di vaccinarli per prima. In generale non c’è alcun dubbio che le misure adottate siano state efficaci in termine di riduzione della mortalità, ma, se consideriamo altri parametri, come, ad esempio, la qualità della vita, possiamo affermare la stessa cosa? Quanti vecchi, riscontrati positivi al tampone nelle circostanze più svariate, spesso a seguito di accessi al Pronto Soccorso per traumi o altri inconvenienti non gravi, hanno perso la loro autonomia, o addirittura la vita, per l’isolamento prolungato nonostante il decorso dell’infezione da Sars- Cov- 2 fosse asintomatico o quasi? Il tutto senza considerare l’allontanamento forzato dal loro habitat, la mancanza di affetti, la solitudine, la perdita della motivazione di vivere.
È proprio così perché il tampone la fa da padrone su tutto il resto, è come l’asso che prende tutto quando si gioca a briscola.
Le persone positive, seppur asintomatiche per l’infezione da Coronavirus, non possono accedere a servizi considerati differibili, percorsi diagnostici per traumi o malattie concomitanti non di rado all’esordio, radioterapia, chemioterapia, riabilitazione neuromotoria, cardiologica e così via. Patologie altre che salgono agli onori della cronaca solo per il peso che hanno sulla prognosi di coloro che risultano contagiati dal coronavirus, senza affatto considerare che tale peso potrebbe essere ridotto se fossimo in grado di assicurare cure appropriate basate sulla prevenzione, sull’ anticipazione e accuratezza diagnostica e sulla tempestività d’intervento. Per raggiungere al meglio questi obiettivi anche nel periodo emergenziale in cui ci troviamo è indispensabile, da un lato, la stretta alleanza tra personale sanitario, pazienti e familiari, dall’altro la fattiva collaborazione tra ospedali, pronto soccorso, istituti riabilitativi, servizi residenziali e domiciliari.
Ebbene, in linea generale, ritengo che tutti gli aspetti valoriali che sottendono le relazioni tra i professionisti della cura stiano crescendo sempre di più assumendo un ruolo fondamentale nel superare questo drammatico momento storico. Peccato che crescano a dismisura, è proprio il caso di dirlo, anche gli aspetti meramente burocratici, peraltro imprescindibili in una società, che non fanno alto che mettere i bastoni tra le ruote proprio alla realizzazione di quel bene comune che si vantano di tutelare.
Ma questo è solo un mio parere.
Ebbene, devo ammettere che, dopo questo saltare di palo in frasca, ho perso il senso del limite e addirittura mi interrogo sulla sua esistenza.
Mi viene in mente un altro detto popolare “Non c’è limite al peggio”, ma subito rifuggo dai pensieri negativi e torno la solita inveterata ottimista.
Ci saranno tempi migliori, speriamo solo di poterli godere.
- Autore/rice Rosanna Vagge
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Quando Marisa, due settimane fa, è entrata per la prima volta nel giardino di Casa Morando, accompagnata dal figlio minore e dalla badante, era agitata, a tratti furiosa, fissava il cancello d’uscita, pronta a darsi alla fuga, tenendo ben stretta la sua borsetta. Del tutto inutili i tentativi di farla accomodare su una panchina, distrarla con gli animali da cortile che scorrazzavano avanti e indietro, spiegarle il motivo per cui si trovava in quel posto, mai visto prima, dall’aspetto insolito.
Si sarebbe dovuta fermare lì per qualche giorno per un guasto idraulico che le aveva allagato l’appartamento, fin tanto che gli operai non fossero riusciti a riparare il danno.
Così era stato concordato con i due figli, disperati ed avviliti per il fatto che la badante, presente solo nelle ore diurne, non riusciva più a contenere la vivacità di Marisa, abituata ad essere indipendente ed a fare tutto di testa sua. Marisa inoltre aveva iniziato a confondere le ore della giornata e, in piena notte, da sola e indisturbata, si vestiva e vagava per la città, perdendosi , così che, raccolta dai carabinieri, finiva in Pronto Soccorso un giorno sì ed uno no, per poi essere recuperata dai figli e ricondotta a casa. I medici le prescrivevano visite specialistiche e terapie che servivano solo a renderla ancora più insofferente alle limitazioni, ad abbassarle la pressione arteriosa e ad aumentare il rischio di cadere e rompersi un femore. Nella mente di Marisa, ovviamente, non rimaneva alcuna traccia di tutto ciò.
“È un agriturismo, sarà solo per pochi giorni, finché non hanno riparato il danno!” continuavamo a ripetere Maria Grazia ed io, invitandola ad accarezzare Vittoria, la gatta rossa, sdraiata placidamente sulla panchina e tenendo d’occhio Grace e Rosy, le oche, affinché non si avvicinassero nel timore che, col loro starnazzare, si potesse spaventare o, ancor peggio, la beccassero. Ma nulla poteva intimorire Marisa che, con timbro di voce sempre più minaccioso, rispondeva alle nostre affermazioni con la solita frase: “Quale danno, cosa è successo? Voglio andare a casa mia!” e tutto ricominciava da capo, il guasto alle tubature, l’allagamento, i tappeti rovinati, gli operai ecc. ecc. mentre il tempo scorreva implacabile. Eravamo tutti esausti e il fallimento nell’accoglienza stava comparendo con prepotenza.
Poi, d’un tratto, un operatore intervenuto in nostro soccorso, invitò tutti ad andarsene e, prendendo a braccetto la new entry, riuscì a condurla all’interno della residenza, le mostrò la camera da letto, le sistemò nell’armadio gli indumenti che aveva in valigia e la riaccompagnò nelle zone comuni.
La prima notte fu un disastro, ma, il giorno successivo, Marisa, del tutto ignara di cosa era riuscita a combinare, era quieta e sorridente: asseriva di aver dormito bene, si era vestita con cura indossando collana e orecchini, aveva fatto colazione e incuriosita dal nuovo ambiente, passeggiava all’interno e all’esterno cercando compagnia e chiacchierando con chi impattava, operatori o ospiti. Di tanto in tanto reclamava che non sapeva cosa fare e che doveva a tutti i costi tornare a casa. Così ricominciava la storia dell’allagamento, degli operai che ritardavano la riparazione, del figlio che non poteva venire a prenderla fino a che non si distraeva con qualche battuta ironica o complimenti sul suo comportamento suadente e sul suo gradevole abbigliamento. Qualcuno provò anche a chiederle un aiuto sullo svolgimento di qualche mansione domestica, ma rifiutò categoricamente: “Non ci penso nemmeno, io non sono una serva e i lavori, se mai, li faccio a casa mia”. Come darle torto?
Nell’arco di qualche giorno la casa, il figlio, la badante, la fogna, i tappeti inzuppati e quant’altro sono svaniti nei recessi più profondi della sua mente. Marisa ora è affabile con tutti, sempre sorridente, assertiva ad ogni proposta e totalmente autonoma, peccato che esprima la sua massima autonomia ed indipendenza durante la notte in cui le ore di vagabondaggio per i corridoi superano di gran lunga quelle in cui riesce ad addormentarsi. Dei farmaci prescritti dagli specialisti del sonno se ne fa un baffo.
Il 9 ottobre 2021 è stata una giornata speciale in Casa Morando: per la prima volta, dopo il lungo periodo di isolamento dovuto alla pandemia, gli amici del Rotary Lanterna di Genova sono tornati a farci visita. Emilia, Rossana, Massimo, Domenico e Rosavio hanno portato una ventata di allegria, oltre la tipica focaccia di Voltri, con o senza cipolle, che non è affatto paragonabile a quella del Tigullio. L’arietta fresca ha impedito di stare all’aperto, come speravamo, nonostante tutti fossimo in possesso di green pass , così siamo rimasti in palestra a festeggiare, scambiandoci chiacchiere e brindando alla salute e alla fine della pandemia.
Un’atmosfera di gioia che dimostra come si possa essere felici con poco. Perché la gioia è contagiosa e persino Maria Luisa, la più brontolona che lamenta sempre qualche disturbo che vaga dalla punta dei piedi al cuoio capelluto passando per i gomiti, è riuscita ad apprezzare la serenità che si respirava, quasi fino alla fine. Poi, sostenendo che si faceva troppo baccano, ha chiesto di essere portata in un’altra stanza.
Marisa, invece, si è dimostrata entusiasta: ha intrapreso con loro chiacchierate interminabili, si è espressa con battute ironiche sulla sua data di nascita denunciando che non ci sapeva fare con i numeri, ma che comunque non era più tanto giovane. Alla fine abbiamo deciso che, anno più anno meno, lei ed io eravamo coetanee, avevamo entrambe i capelli tagliati cortissimi e grigi ma soprattutto condividevamo il pensiero che la cosa più importate era apprezzare la vita per quello che offre.
Su questa affermazione perentoria concordo appieno: essere soddisfatti della propria vita aiuta certamente a tenere alto l’umore a qualunque età e ben poco importa, penso io, se qualcuno si è permesso di appiccicarti l’etichetta di deteriorato mentale.
Per una persona anziana che vive in comunità ( voglio evitare l’odioso termine “istituzionalizzato” che mi risuona come escluso dalla società) la soddisfazione può derivare dal gustare una fetta di torta al cioccolato, anche se non è indicata per chi soffre di diabete, ascoltare musica o vedere la televisione in salone, nonostante non sia previsto dal piano di lavoro, o passeggiare in giardino, sul terreno sconnesso quando l’equilibrio ed i riflessi si sono intorpiditi o annaffiare una pianta o commuoversi per il sorriso di un bambino o alla vista del tramonto. Perché le emozioni che ci riempiono la vita le prova anche chi non sa ripetere tre parole pronunciate a caso o copiare su un foglio dei pentagoni incrociati.
Non è forse vero che ognuno ha l’età che si sente di avere?
Su questa affermazione non accetto alcuna critica perché è ben chiara nella mia mente: la mia età anagrafica è superiore di quasi 20 anni rispetto alla media dell’età delle mie compagne di allenamento nella camminata - corsa, eppure , quando percorriamo le strade della città, all’alba, senza strafare, non mi sento affatto più vecchia e con la saggezza donatami dalla maturità, sono sempre soddisfatta della mia performance, qualunque essa sia. Il futuro non mi spaventa, anzi mi fa sorridere il pensiero di quando le mie amiche runner avranno la mia età e saranno costrette a spingere la carrozzina su cui io, novantenne, sarò stabilmente accomodata, con tanto di cinture di protezione. Sono certa che le inciterei ad andare sempre più veloci, con una scusa o con l’altra, per potermi godere la brezza del primo mattino, stando ben attenta a non tirare troppo la corda per evitare che mi lascino schiantare contro un muro alla prima discesa, con la scusa di non essere riusciti a trattenere la carrozzina.
Quindi mi associo al pensiero di Roberto Vecchioni che scrive, rivolgendosi a chi ha molti anni di meno: “Io ho 80 anni, ma vi assicuro che quando arriverete alla mia età non sentirete differenze. La differenza arriva e si sente solo quando non si vive, quando non si ama la vita, quando non si vuol più fare qualcosa di nuovo. Ma se si rimane ancorati e aggrappati alla bellezza dell’amicizia, dell’amore, della musica, del mare e della poesia, la vita regala sempre delle sorprese. Alla mia età si sentono gli acciacchi, certo, ma nello spirito non c’è differenza. L’amore non cambia mai. Quando uno si innamora, non importa l’età. Cambiano il riflesso fisico e la potenza sessuale, ma dal punto di vista emotivo forse l’amore è ancora più forte […]”
E, aggiungo io, quando la mente non ci sostiene, le emozioni che proviamo nel “qui ed ora” sono fondamentali per farci sentire vivi.
Poco importa se non sappiamo il giorno del mese o dell’anno o la stagione in cui siamo, o se confondiamo il primo piano con il piano terra, l’importante è come percepiamo il nostro cuore: triste o felice, avvilito o soddisfatto.
A questo proposito, la risposta di Marisa alla domanda “Come ti trovi in questo posto?” è inequivocabile.
“In questo agriturismo, ci si sta da Dio!” ha declamato col sorriso mentre alzava il bicchiere di frizzantino invitando gli amici al brindisi.
E siccome l’ appetito, come la gioia, è contagioso, nonostante qualcuno lamentasse di avere problemi nella masticazione, pizza e focaccia sono sparite dal piatto di portata in men che non si dica.
Grazie, amici del Rotary, alla prossima!
Grazie, Marisa, per insegnarci a gustare ogni momento della vita!
- Autore/rice Rosanna Vagge
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Non l’avrei mai detto, e nemmeno mi è mai passato per la mente che potesse succedere, e invece è accaduto e pure con una rapidità sorprendente.
Mi riferisco a Luciana, l ‘unica zia ancora in vita, la più giovane, che porta il mio stesso cognome e che non so bene per quale motivo, forse più per l’amicizia che ci unisce piuttosto che per la differenza di età di soli 15 anni, ho sempre chiamato con il nome di battesimo e mai zia Cicci come fa il resto della mia numerosa famiglia.
Luciana da poco più di un anno non c’è più con la testa, il suo cervello si è atrofizzato e immensi spazi vuoti lo distaccano dalla teca cranica. Si è visto bene alla TAC e alla RMN, immagini che hanno lasciato di stucco la cerchia di amici medici e chirurghi con i quali eravamo soliti passare piacevoli serate conviviali, seppur dilazionate nel tempo per gli impegni di ognuno di noi, serate che il primo lockdown ha cancellato per sempre.
Il suo aspetto giovanile non è stato assolutamente scalfito, tanto meno la sua performance fisica che, immaginando una curva gaussiana di quelle che si costruiscono per definire il range di normalità, si collocherebbe senza dubbio al punto più elevato. Luciana, ex atleta di ginnastica artistica quando ancora il talento valeva ben più dell’allenamento e ti permetteva di raggiungere mete ambite senza esagerati impegni, cosa impensabile ai giorni d’oggi (infatti era stata scelta per gli europei) univa alla capacità dinamica, una vivacità intellettuale che le ha permesso di partecipare a imprese non affatto comuni.
Nel 2005, all’età di 69 anni, ha preso parte alla spedizione scientifica tra gli allevatori di renne della penisola di Jamal nella Siberia Occidentale.
“Quando hanno visto il mio passaporto, non ci credevano. E poi ho scoperto che il più vecchio del gruppo di ricercatori ha 20 anni meno di me”, mi aveva detto compiaciuta e non affatto spaventata poco prima della partenza.
Ottima conoscitrice della lingua russa, ha viaggiato molto nell’Unione Sovietica, ha conosciuto intellettuali, scrittori, artisti e sciamani, ha collaborato a progetti, al gemellaggio tra scuole dell’obbligo italiane e scuole del Distretto autonomo dei Nency ed ha scritto numerosi articoli, relazioni di viaggio e traduzioni dal russo sulle riviste “Il Polo” e “Slavia”. L’intera famiglia, composta dal marito Luciano ed i due figli, quando ancora non avevano raggiunto l’età scolare, si era avventurata in roulotte per poter girare il vasto territorio russo per più di 6 mesi allo scopo di soddisfare la curiosità intellettuale che univa entrambi i membri della coppia e approfondire la conoscenza della cultura di quei popoli. Luciano era un grande uomo, ma purtroppo la sua salute precaria lo ha portato via all’età di appena 60 anni , dopo un lungo e travagliato periodo di sofferenze, sicché il suo unico libro, scritto con tanta passione e precisione documentale: “P.A. Stolypin: una vita per lo zar”, è stato pubblicato solo dopo la sua morte.
Ma non è tutto, perché Luciana ha anche scritto e curato la traduzione di libri tra cui “Leggende della Lapponia” e “Miti e leggende sugli sciamani siberiani”, “Siberia” , “La gemella ritrovata”, “Il maestro svelato. Bulgakov riemerge dalla Lubjanka”, “Le 8 tribù ed altre storie”, “Popoli artici e subartici – dalla penisola di Kola alla Cukotka” e persino una favola per bambini , pensata e finita in poco più di 10 giorni nel non lontano 2017: “Amina e la foca monaca”.
Nulla poteva far prevedere un epilogo del genere.
Anche dal punto di vista clinico, l’unico fattore di rischio era la tendenza all’aumento dei valori di colesterolemia che tuttavia rimanevano contenuti con l’osservanza di una corretta alimentazione ed una buona attività fisica quotidiana. Anni fa si era sottoposta ad una coronarografia per un dolore toracico suggestivo di cardiopatia ischemica, poi l’angioplastica e tutto era andato a posto. Era solerte nell’eseguire i controlli sanitari prescritti, ma esigeva di conoscerne il motivo e mai assumeva farmaci senza sapere a cosa servissero. Avvertiva forte l’esigenza di quell’alleanza terapeutica di cui tanto si discute nei nostri tempi , alleanza che non può prescindere dalla fiducia e stima reciproca.
Poi la caduta con frattura della spalla destra, avvenuta nella primavera del 2019 e la temporanea perdita dell’autonomia. Luciana deve essere aiutata dai figli, non solo per quanto riguarda l’igiene personale e il vestirsi, ma anche per la spesa e cucinare, in quanto vive sola in una casa di campagna indipendente con spazi esterni e scale ovunque, accessibile in auto dopo una impervia salita lunga un centinaio di metri, non proprio comoda ai servizi. Ci vorrà circa un mese per il recupero, troppo per la tolleranza di Luciana, che nel contempo scopre di avere un piccolo nodulo sulla mammella destra, lato della caduta, e mi chiede consiglio. Cerco di rassicurarla, che sia legato al trauma, tipo un piccolo ematoma non riassorbito? In quel momento, avrei voluto fare come gli struzzi, ma l’essere medico mi ha imposto di consigliarle di procedere con altre indagini per accertare la natura del nodulo.
La sentenza non tarda ad arrivare: carcinoma della mammella.
Gli specialisti sostengono che in considerazione delle dimensioni del tumore e della valutazione del linfonodo sentinella nonché dell’età (Luciana è ottuagenaria nonostante ne dimostri 15 di meno) non sarà necessaria la chemio o la radio, ma occorrerà procedere con l’intervento chirurgico che con buone probabilità sarà limitato all’ asportazione di un solo quadrante piuttosto che dell’intera mammella. La prognosi è buona, anzi ottima e, entro un ragionevole lasso di tempo, non richiede particolare urgenza.
Luciana è preoccupata, come è giusto che sia. Pur pianificando con il medico curante il percorso diagnostico necessario , non sembra affatto convinta di quanto le si propone ed inizia a fare domande che diventano sempre più ripetitive, alcune logiche, altre banali o addirittura futili, rivolte a me ed ai suoi figli, Cinzia e Raoul, domande che non si addicono ad una persona colta e intelligente dal pensiero critico piuttosto sviluppato.
Passano i giorni e l’atteggiamento di Luciana non è mai costante: preoccupazione, disagio, avvilimento, rabbia, tristezza, rassegnazione, persino qualche nota di euforismo lasciano tutti coloro che le vogliono bene piuttosto spiazzati. Si direbbe che sia infastidita, più che dalla prognosi della malattia in sé, dalla paura di perdere la libertà di scegliere e decidere autonomamente il da farsi e che la sequenza di eventi, dal trauma alla spalla alla diagnosi di neoplasia, le abbia procurato una sorta di depressione reattiva che rifiuta di accettare per via del suo carattere, forte e volitivo. In più il fatto che l’organo colpito sia la mammella, simbolo della femminilità, rende il tutto ancora più inaccettabile per una come lei: le avrebbero deturpato il corpo la cui fattezza è ancora molto ben conservata.
Comunque, seppur con alcune titubanze, Luciana completa il percorso diagnostico e, dopo aver richiesto un secondo parere nel privato, sceglie il chirurgo a cui affidarsi che opera nell’ospedale pubblico dell’ASL di appartenenza.
Siamo ai primi di giugno del 2019. Luciana ha in programma di scrivere altri libri, ma tutta la sua attenzione si focalizza sul seno destro aggredito da un mostro e, all’insaputa di tutti, dopo aver rinviato di alcune settimane l’ingresso in Ospedale, scrive una lettera al chirurgo prescelto in cui gli comunica, con garbata seduzione, di aver deciso di non operarsi, almeno per il momento, ma, qualora avesse cambiato idea, la scelta sarebbe ricaduta su di lui e nessun altro.
Lo comunica all’intera famiglia: è felice, persino euforica, come se si sia tolta un rospo dallo stomaco. Precisa che non è un no assoluto, ma ha bisogno di riflettere, di provare a fare qualche tentativo per ottenere la regressione del nodulo, rivolgendosi anche ad esperti della medicina alternativa. La conversazione è pacata e convincente e in me prende sempre più forza l’ipotesi che sia la non accettazione di quanto le è successo a condizionare il suo sconvolgimento psicologico, certamente passeggero.
Dal punto di vista clinico, la tipologia del tumore può permettere un periodo di attesa, monitorando ovviamente l’evoluzione, per cui accettiamo di buon grado la sua decisione, incrociando le dita.
Passano altri 3 mesi e Luciana ci rassicura che il tumore sta regredendo.
Ma non è così.
Il controllo ecografico dimostra inequivocabilmente la crescita della neoplasia: non si può più aspettare e la mammella destra deve essere asportata in toto con tutti i linfonodi del cavo ascellare.
Mi tornano a mente le parole di nonna Rosina: “Negare l’evidenza è brutta cosa!”
Siamo ad ottobre e Luciana viene operata dal chirurgo prescelto secondo quanto stabilito e senza complicanze, in tempo utile per permetterle di partecipare alla conferenza organizzata in una biblioteca di Milano, in occasione di una fiera del libro, per presentare il suo testo “Le 8 tribù” alla presenza dell’amico antropologo Antonio Guerci.
Questa foto, tratta da un mio breve video, che la inquadra mentre dialoga con gli studenti sulla popolazione siberiana, è l’ultima testimonianza di Luciana, nelle sue piene facoltà mentali. La performance non è ottimale, ammette lei stessa, ma è stata appena operata e qualche defaillance, soprattutto psicologica, ne è la logica conseguenza. Ne parliamo al ritorno in auto, insieme ad Antonio, la rassicuriamo, a breve certamente si riprenderà.
Invece Luciana , con una velocità sorprendente, dimentica tutto quanto sta facendo, minuto dopo minuto, e ciò la porta ad uno stato di confusione e di agitazione: se esce a piedi, non si ricorda più cosa avesse in mente di fare, se prende l’ auto, non ricorda dove l’ha parcheggiata, commette errori su errori nelle mansioni quotidiane, cancella dalla sua mente le visite dei figli e nipoti che si fanno via via sempre più frequenti, quasi quotidiane, rifiuta l’assunzione dei farmaci. Qualunque cosa le si proponga per ovviare alla perdita della memoria a breve termine risulta fallimentare, come è successo con l’appuntamento per la vaccinazione anti-Covid, annotato sul calendario. “Perché c’è scritto vaccino alle 9 all’Auditorium San Francesco?” ha ripetuto migliaia di volte fissando pensierosa quella inspiegabile frase e portandomi allo sfinimento, oltre che ad una sofferenza che ho avvertito fisicamente. Chissà se anche a me potrà succedere la stessa cosa? “I geni non sono acqua” diceva nonna Rosina ed io sono la figlia di uno dei suoi fratelli. L’unica cosa che ricorda bene è la menomazione del suo corpo, quella cicatrice, quegli orribili punti di sutura che non riesce proprio a sopportare.
“È solo una crisi esistenziale. I test parlano chiaro”, aveva diagnosticato uno stimato amico neurologo al quale Luciana si era rivolta per un parere, accorgendosi che qualcosa stava cambiando in lei. La pandemia non era ancora scoppiata e Maurizio aveva consigliato a Luciana di continuare a partecipare alla vita sociale, agli incontri organizzati dalle associazioni culturali, a scrivere e tradurre ciò che era di suo interesse, per distrarsi da quanto le era successo sul piano fisico, ma l’isolamento forzato ha impedito tutto ciò, contribuendo (questo è il mio parere) all’involuzione della sua corteccia cerebrale con perdita progressiva della memoria a breve termine e non solo.
Gli interrogativi che di lì in poi mi sono frullati nella mente sono aumentati di pari passo al manifestarsi , sempre più prepotente, degli effetti del venir meno delle funzioni cognitive di Luciana, come quello di confezionare la torta di riso senza prima cuocerlo o di gettare nella spazzatura kili di prugne accuratamente lavate e sbucciate per fare la marmellata, nel breve intervallo di tempo in cui la figlia, con la quale aveva condiviso ore di lavoro, si era dovuta assentare. Al rientro Cinzia l’aveva rimproverata, pur pentendosi l’istante successivo di non essere riuscita a trattenersi e Luciana, mortificata, era scoppiata a piangere: la sua intenzione era di riassettare la cucina, come aveva sempre fatto, un comportamento del tutto normale e prevedibile.
Infatti Luciana non è cambiata nel carattere: la sua determinazione, la necessità di autonomia e di indipendenza, la libertà di decidere cosa fare e la pretesa di non chiedere aiuto, soprattutto ai figli, ebbene tutto questo è rimasto intatto. Così come sono rimaste intatte le emozioni che avverte forti e incontrollabili in ogni momento della sua esistenza: vergogna, disagio, confusione, disorientamento, solitudine, avvilimento e paura che purtroppo prevalgono su quelle positive che sembrano attenuarsi col passare del tempo. Luciana, abituata a vivere sola, è più tranquilla tra le mura domestiche, si sente protetta, penso io, mentre, quando ne è al di fuori, qualunque piccolo imprevisto la getta nello sconforto e la paura si trasforma in panico.
Pochi mesi fa è caduta dalle scale e si è recata da sola in auto al Pronto Soccorso. Per fortuna sono riuscita a rispondere ad una sua chiamata in cui si lamentava del protrarsi dell’attesa per la visita: “Sono caduta, ma ho solo un po’ di dolore alla schiena per la botta, qui non mi fanno niente e allora me ne vado. Cosa dici, posso farlo?”. Questa la sua domanda, assolutamente logica e prevedibile per come è lei. In realtà la botta le aveva procurato fratture multiple costali ed un ematoma rifornito del dorso, per cui alla fine è stata ricoverata per monitorare l’evoluzione del quadro clinico, a rischio di emotrasfusioni e addirittura di intervento chirurgico.
Una volta dimessa, la proposta di trascorrere un periodo di convalescenza in casa dei figli, un po’ da uno e un po’ dall’altro, così come quella di ospitare in casa propria, almeno per i primi tempi, una persona che la aiutasse (e sorvegliasse), sono risultati fallimentari. “Io non voglio nessuno in casa mia, faccio da sola” queste le sue parole pronunciate con tono perentorio.
Ma anche questo atteggiamento di Luciana non è frutto del deterioramento cognitivo, ma dell’inalterata percezione di sé stessa e del senso della vita che permane nel contempo in cui la mente si indebolisce e inizia a perdere le capacità di comprendere e analizzare il contesto.
Questo il mio triste pensiero.
Se in tutto ciò c’è un fondo di verità, quello che è più sconcertante è la difficoltà o addirittura l’ impossibilità di trovare soluzioni che rendano la vita accettabile sia per chi è colpito da questa devastante malattia, sia per coloro che devono prendersene cura. L’unico risultato scontato è che la sofferenza aumenta, giorno dopo giorno e si moltiplicano le spese economiche gravando sui singoli e sulla società intera.
Le istituzioni sanitarie offrono visite specialistiche che sono importanti per formulare una diagnosi e la prognosi conseguente, per la prescrizione dei farmaci con relativo piano terapeutico, per ottenere l’invalidità e l’esenzione dal ticket, per consigliare il percorso più idoneo da intraprendere a seconda delle situazioni, ma tutto ciò assume uno scarso rilievo riguardo al mantenimento di una qualità di vita dignitosa sia per il malato che per i familiari.
Se “il convento passa questo” , come diceva Rosina, non ci resta che un’unica soluzione per lenire la sofferenza: attendere che il peggioramento dello stato cognitivo della persona da assistere raggiunga un livello tale da attenuare l’impatto, spesso non gradito, di scelte che altri impongono a chi è colpito demenza.
C’è un’altra cosa che non riesco a togliermi di mente: è possibile che eventi traumatici importanti, di quelli che cambiano la vita, tanto più se non sono accettati, abbiano un ruolo non affatto marginale nel determinare l’atrofizzarsi della corteggia cerebrale da cui dipendono le nostre funzioni cognitive?
Non so rispondere, ma sono convinta che una più accurata attenzione e riflessione sull’integrità e indivisibilità di ogni individuo il cui cervello non comprende solo la corteccia, ma il sistema limbico, l’ippocampo, l’amigdala, il sub talamo e ben altro che hanno a che fare con le emozioni e con gli istinti primari di sopravvivenza, possa aiutare sia il medico che il care-giver nel difficile compito del prendersi cura dell’altro, al di là di ogni etichetta di malattia.
- Autore/rice Rosanna Vagge
- Categoria: I vecchi e il medico di Rosanna Vagge
Una volta c’erano gli Istituti Pubblici di Assistenza e Beneficienza, cosiddetti IPAB, organismi di diritto pubblico istituiti con regio decreto n. 2841 del 1923, che, negli anni, hanno subito numerosi interventi di riforma di pari passo con l’evolversi dello stato sociale e del sistema assicurativo mutualistico.
Questa la definizione di Wikipedia che riporta come premessa alla loro storia l’art. 1 della Legge 17.07.1890: “a)di prestare assistenza ai poveri, tanto in stato di sanità quanto di malattia;b)di procurarne l’educazione, l’istruzione, l’avviamento a qualche professione, arte o mestiere, od in qualsiasi altro modo il miglioramento morale ed economico”.
A quell’epoca l’assistenza sanitaria e sociale era svolta dalle cosiddette Opere Pie, a carattere prevalentemente religioso ed era indirizzata e limitata a poche categorie vulnerabili, come fanciulli abbandonati, malati di mente ed alcuni portatori di handicap. Tali enti agivano in modo del tutto autonomo e fuori controllo, utilizzando per lo più ingenti patrimoni frutto di lasciti.
Già negli anni compresi tra il 1861 e 1896, subito dopo l’Unità di Italia, numerose commissioni d’inchiesta avevano portato alla luce problemi diffusi, abusi di gestione, mancanza di trasparenza e di sistemi contabili, corruzione nella gestione dei patrimoni immobiliari, sicché era emersa la necessità di sottoporre questa assistenza privata al pubblico controllo, obbligando le Opere Pie a compilare bilanci, statuti , registri che permettessero la vigilanza da parte di istituti designati dallo Stato. Tuttavia tali disposizioni risultarono di fatto ben poco efficaci, mentre la successiva legislazione, cosiddetta legge Crispi, regio decreto del 17/07/1890, regolamentò in maniera più chiara e univoca l’organizzazione amministrativa di tali enti.
Nel periodo successivo, fino al 1945, l’assistenza privata erogata da tali istituti subiva un vero e proprio processo di assorbimento da parte dell’ente pubblico, mentre durante la Repubblica si assisteva ad un procedimento opposto, di de- pubblicizzazione ed alla loro trasformazione in forme associative private, quasi un ritorno alle origini. Protagoniste di tale conversioni sono state le Regioni che, a seguito del DPR 24.07.1977 n. 616 hanno assunto tutte le competenze relative al settore socio-assistenziale.
Si arriva così al D.lgs. n. 207/01 che prevede per gli ex-Ipab il passaggio da personalità giuridica di diritto pubblico a quello privato, conferendo ad essi una serie di benefici nonché tutti i negozi funzionali al perseguimento dei propri scopi istituzionali e all’assolvimento degli impegni assunti in sede di programmazione regionale tra cui costituire società o fondazioni per svolgere attività strumentali a quelle istituzionali e per provvedere alla manutenzione del proprio patrimonio.
Attualmente le Fondazioni, i Consorzi, le Aziende pubbliche di servizi alle persone (Apsp) ex-IPAB sono inquadrati in un modello aziendale dove assumono sempre più una connotazione autonoma e originale di persona giuridica con una presenza al proprio interno di membri di nomina pubblica, comunale e regionale, e soprattutto sono orientate verso forme ibride solo in parte riconducibili al terzo settore, anche se lo stesso è in continua evoluzione.
Ebbene, cambiano i nomi degli enti, cambiano gli organismi di controllo, cambiano i decisori regionali e comunali, cambiano i membri eletti del consiglio di amministrazione, ma quello che più rende originali questi enti rispetto alle aziende socio-sanitarie è lo statuto, obbligatorio fin dal 1890, che deve contenere le norme fondamentali per il funzionamento delle istituzioni in conformità alle volontà espresse dal fondatore, in particolare le finalità da perseguire. E lo statuto è assolutamente vincolante, non può essere modificato nei suoi principi sostanziali, ma solo aggiornato e adeguato all’evoluzione dei tempi e della normativa vigente.
Ed ecco che il mio pensiero va ancora una volta a Casa Morando, che, a seguito del riordino delle Istituzioni Pubbliche, con D.G.R. 1552 del 5/12/2003, è passata da Ente di Assistenza e Beneficienza IPAB al regime giuridico di diritto privato, con denominazione “Fondazione Antonio Morando”.
Lo Statuto firmato in data 20 luglio 2005, fa, come è giusto che sia, riferimento allo statuto originario e così recita all’Art. 1 “[…]in ossequio alle disposizioni di ultima volontà del Sig. Gerolamo Antonio Morando, è stato istituito in Chiavari un Ente di Assistenza e Beneficio Pubblico, sotto il nome di Fondazione Antonio Morando, eretto in ente morale con lo stesso Regio decreto di approvazione dello statuto in data 1942.
La Fondazione aveva lo scopo di aprire in Chiavari un ritiro decoroso ove trovassero ospitalità, con vitto e alloggio, Signore e Signori del Comune di Chiavari, appartenenti a famiglie agiate o già tali di detta città, di buona condotta e buoni costumi, non affetti da malattie in atto, per cui dovessero essere sottoposti a trattamenti curativi che, per vecchiaia ed altra causa, non fossero più in grado di procacciarsi decoroso impiego ed occupazione e che per il passato loro personale e delle loro famiglie (queste impossibilitate a dare loro aiuto) fossero andate mal volentieri a cercare ritiro presso altri Enti congeneri costituiti in Chiavari.
Il numero dei posti gratuiti era stabilito dal Consiglio di Amministrazione in relazione ai mezzi di cui disponeva la Fondazione. ..”
L’art. 2 : Scopi istituzionali riformula gli obiettivi alla luce dell’ordinamento attuale delle strutture residenziali per anziani:
“ La Fondazione Antonio Morando opera senza fini di lucro, ha personalità giuridica di diritto privato, opera con autonomia statutaria e gestionale e persegue scopi di utilità sociale, sempre nel pieno rispetto dei principi morali enunciati dai fondatori […]”
E ancora: “ Al fine del raggiungimento degli scopi statutari la Fondazione si impegna a:
a) gestire una residenza protetta per anziani autosufficienti di sesso femminile e maschile;
b) ampliare l’utenza della Residenza Protetta
c) istituire un centro diurno o comunità alloggio per anziani;
d) rivolgere l’assistenza anche ad anziani provenienti dal circondario, zone limitrofe ed altre regioni.
Ma come si fa a conciliare gli scopi statutari della fondazione e la conservazione del patrimonio con gli incessanti cambiamenti che lo stato sociale e sanitario impongono e che la pandemia da Coronavirus ha reso intollerabili?
Nonna Rosina, nella sua saggia e onesta semplicità, mi ha insegnato che “non bisogna mai fare il passo più lungo della gamba” e questo concetto ha accompagnato tutte le decisioni, personali e professionali che ho intrapreso nel corso della vita.
Allo stesso modo la Fondazione ha sempre proceduto a piccolissimi passi, con tante difficoltà ed anche qualche scivolone all’indietro a seguito di fatalità non previste, perseguendo l’obiettivo di rendere Casa Morando accogliente e protettiva per ciascuna persona che la abita che non è, né più né meno, che il volere del benefattore.
“Tra regole e vita” è il titolo di un intervento di Maria Grazia, la Direttrice, presentato al convegno “Dialogo sulla vecchiaia del III millennio”, svoltosi a Lavagna (GE) nel 2015, due parole antitetiche che complicano ed ostacolano ogni progetto finalizzato al benessere individuale e che il periodo emergenziale ha reso ancor più scottanti e inavvicinabili.
Norme, legate alla pianificazione dei distretti socio-sanitari, ai requisiti strutturali di autorizzazione al funzionamento, ai vincoli ambientali e patrimoniali, alla suddivisione delle strutture residenziali a seconda del grado di assistenza sanitaria da erogare con obbligo di dotazione di operatori qualificati in numero prestabilito in base al servizio. Alle quali si sono aggiunte le disposizioni anti –coronavirus, mascherine, guanti, distanziamento, tamponi , vaccinazioni, aree buffer, isolamento ed altro ormai ben noto, il tutto mescolato a autocertificazioni, privacy , sicurezza ecc. ecc.
Ma quello che più di tutto ha ben poco a che vedere con la vita delle persone, carica di incertezza e imprevedibilità, è la suddivisione in fasce stereotipate degli ospiti residenti in base alla loro presunta disabilità nel preciso istante e contesto in cui vengono valutate.
A farla da padrone è infatti la scheda AGED (Assessment of Geriatric Disabilities), adottata dalla Regione Liguria fin dal 1990, come “strumento” operativo per misurare il tipo e il livello di bisogno assistenziale con modalità obiettive e indipendenti dall’osservatore. Una necessità più che comprensibile dopo il riconoscimento, avvenuto nel 1985, del diritto alla partecipazione del Sistema Sanitario Nazionale alle spese per le cure sanitarie extraospedaliere di anziani e disabili, fino ad allora a carico dei privati o dei comuni per i cittadini indigenti. Oggi è possibile utilizzare anche su supporto informatico la scheda Aged Plus, una scala con 37 voci che riguardano lo stato cognitivo comportamentale, il nursing tutelare, il nursing infermieristico, le attività riabilitative e la stabilità clinica, che deve essere aggiornata ogni 3 mesi, secondo le direttive, e presentata in visione ad ogni controllo ispettivo.
Infatti il punteggio Aged consente l’identificazione della fascia assistenziale dell’anziano e della retta sanitaria che sarà erogata al servizio che lo ospita: le persone con punteggio AGED superiore a 16, definite con l’odioso appellativo di NAT (non autosufficienti totali) sono avviati alle RSA, mentre quelli con punteggio inferiore a 10 possono essere ospitati nelle Comunità Alloggio. Tra 10 e 16 si collocano le persone con un grado parziale di non-autosufficienza ( NAP) che possono essere accolte nelle Residenze Protette. Come è evidente a tutti, almeno lo spero, tale valutazione trascura gli aspetti della massima autonomia potenziale dell’anziano che può essere conseguita solo superando le problematiche legate alla persona, spesso di ordine psichiatrico, ma anche e non ultime per importanza, quelle socio-ambientali.
E questo è il principale motivo per cui l’ Aged non ha mai goduto della mia simpatia.
Devo riconoscere però che in periodo pandemico la scheda ha perso parte del suo potere discriminatorio ed è caduta in disuso, soppiantata dai test antigenici rapidi e dai tamponi molecolari per la ricerca del fatidico Sars- Cov-2 che interpretano in modo eccellente il dualismo cartesiano di cui il mondo odierno è impregnato.
Ritornando alla rigida differenziazione delle strutture per anziani adottata dalla Regione Liguria , Casa Morando è stato piuttosto fortunata perché nel 2009, vai a sapere per quale svista o altra ragione, è stata autorizzata al funzionamento come Residenza Protetta per n. 25 ospiti non autosufficienti , cioè con punteggio Aged superiore a 16. Se, da un lato, a seguito di tale documento che definirei contradditorio, la Fondazione ha dovuto far fronte ad impegni economici per gli opportuni adeguamenti strutturali e di personale, dall’altro ha garantito la permanenza “a vita” dei residenti che, pur etichettati autosufficienti all’ingresso, hanno presentato nell’inesorabile scorrere degli anni la perdita della loro autonomia. Esempi di “lungodegenza”, per usare un altro termine odioso, in Casa Morando ce ne sono stati parecchi: Safena è stata residente per 23 anni, Sandra 14, Germana 18, Fortuna dai 94 ai 104 anni e mezzo, solo per fare qualche esempio che ricordo a memoria. Safena, poco prima di raggiungere l’ambita meta dei 100 anni, era stata protagonista di un singolare episodio: era stata trovata a letto nelle ore diurne ad un controllo dei carabinieri del Nucleo NAS e questi avevano lamentato il fatto che una residenza protetta non avrebbe dovuto ospitare una persona con necessità assistenziali così elevate, sicché bisognava trasferirla. Dove non si sa. Nessuno ha osato proferir verbo e tanto meno sottolineare che la centenaria era allettata solo dal giorno precedente il loro arrivo. Poche ore dopo Safena si è addormentata per sempre nel letto su cui aveva riposato per ben 23 anni e la storia ha potuto avere un lieto fine.
Resta il fatto che doversi aggrappare alla buona sorte per far combaciare le regole imposte con la dignità della vita e della morte, mi sembra una evidente testimonianza di quanto la ruota del sistema si inceppi con troppa facilità e in troppe circostanze. Infatti potrei scrivere un intero libro riportando episodi paradossali che mi sono capitati nel corso della mia vita professionale, ai quali è stato possibile ovviare esclusivamente appellandosi al soprannaturale. D’altra parte la preghiera, nelle sue varie forme, come sostiene l’Antropologo Antonio Guerci , avvalendosi di dati documentali certi, è il primo farmaco al mondo. Ed è pure priva di effetti collaterali.
Insomma, il discorso è sempre lo stesso: la medicalizzazione della vita, la burocratizzazione e la monetizzazione del sistema che infarciscono di norme a costi elevati la vita stessa a partire dalla nascita fino alla morte, il fallimento, almeno questo è il mio parere, dell’integrazione tra il sociale e il sanitario, conducono inevitabilmente a separare, aggregare, isolare, sequestrare, emarginare gli individui a seconda della categorie di appartenenza e a frammentare l’individuo stesso utilizzando parametri che nonna Rosina definirebbe “scriteriati”. E l’umanizzazione delle cure, declamata a gran voce, va a farsi friggere.
Proporrei di adottare il termine di “animalizzazione” delle cure in quanto sarebbe opportuno prendere esempio proprio dagli animali che dimostrano grande sensibilità nei confronti di coloro che hanno bisogno di aiuto, anche appartenenti ad altra specie senza chiedere nulla in cambio o accontentandosi di una carezza o di qualche pezzetto di pane stantio. I social sono intrisi di immagini e video che lo testimoniano. Come Grace, Rosy e l’inseparabile Angy che ci emozionano giorno dopo giorno per la relazione che in pochissimo tempo sono riuscite a instaurare con i nostri vecchi, allietati e divertiti alla sola vista del loro buffo ondeggiare e starnazzare nel cortile.
Sono certo che il Sig. Antonio Gerolamo Morando , il fondatore, sia orgoglioso di quanto è stato fatto e stiamo facendo affinché le sue volontà siano rispettate e questa è la cosa più importante.
È stata forse una casualità o chissà se ci ha messo lo zampino qualche energia nascosta, ma sono stata ritratta con Grace in braccio, nell’intento di somministrarle l’antibiotico per una infezione ad una zampa, proprio accanto alla foto del benefattore.
Mi chiedo spesso, come se lo chiedeva nonna Rosina: “Non è che si stava meglio quando si stava peggio?”
Oggi ci sono tanti mezzi e strumenti a servizio dell’uomo, ma se manca la solidarietà, la tolleranza, la visione globale, se manca la passione, l’amore, il cuore, la vita si svuota del suo intrinseco significato e diventa sopravvivenza piatta e priva di emozioni.
Questo non deve succedere, mai.
- Autore/rice Rosanna Vagge
- Categoria: I vecchi e il medico di Rosanna Vagge
La pandemia da coronavirus, in Italia e nel mondo, ha svelato lo stato di salute generale delle nostre società, mettendo in evidenza le gravi fratture in cui abbiamo vissuto negli ultimi anni: l’ambiente, il sistema economico, la sanità. Lo sostiene Gino Strada, fondatore di Emergency ONG Onlus. “Quella che ci troviamo di fronte è una sindemia, come la definiva il medico antropologo Merril Singer: la concentrazione e l’interazione di due o più malattie o altre condizioni di salute in una popolazione, soprattutto come conseguenza dell’ineguaglianza sociale e dell’esercizio ingiusto del potere”. Aggiunge molte altre argomentazioni sulla spesa, sui tagli, sulle scelte politiche, tutti basati sull’assunto che “essere curati è un diritto universale ed un bene comune” e sostiene che “l’idea di investire e ricavare denaro sulle sofferenze altrui è inconciliabile col concetto di cura come diritto umano” (tratto da La nostra idea di Sanità).
Come dargli torto? Penso io. Anche il “Progetto Arco della vita”, nato nel 2011 per dare un’anima a Casa Morando, fonda le sue radici concettuali sul “rispetto dei diritti e delle prerogative inalienabili della persona, declamati a gran voce da tutte le organizzazioni internazionali, ma così difficili da raggiungere nei fatti concreti”.
Ebbene sì, bisogna ammetterlo, quando si parla di diritti, è pressoché impossibile venirne a capo perché, sul piano dell’adesione teorica, non c’è praticamente nessuno che osi rifiutare apertamente i diritti umani, in altre parole, il loro riconoscimento è universale, mentre sul piano concreto, i diritti umani continuano ad essere violati in mille modi, sotto gli occhi di tutti, ovunque nel nostro pianeta.
Sono parole che traggo dal libro della filosofa Jeanne Hersch dal titolo “I diritti umani da un punto di vista filosofico” la cui lettura, propostami da Elisa, una mia cara amica, mi ha indotto non poco a riflettere sul fatto che, se è facile riempirsi la bocca di questi diritti, soprattutto da parte dei decisori politici delle nostre sorti individuali e della comunità, molto più fallimentare è definirli giuridicamente ed assicurarne l’attuazione. Qui “cade l’asino”, direbbe nonna Rosina. Le contraddizioni concettuali, se non addirittura i paradossi la fanno da padrone e i diritti e i contrapposti doveri rischiano di rimanere svuotati della loro ragion d’essere.
Ma quale è il fondamento dei diritti umani? In che modo questo fondamento può essere nel contempo assoluto e plurale? Che significato hanno? Sono utili per il mantenimento della pace, la conquista della felicità, la produzione di beni? In che senso si può parlare di universalità dei diritti umani? Ma, in primo luogo: che cos’è quest’essere umano di cui si tratta di rispettare i diritti?
L’autrice, che ha diretto la Divisione di filosofia dell’Unesco cerca di dare una risposta a queste domande proponendo una digressione filosofica che, per sua stessa ammissione, può sembrare inutile o persino inaccettabile, quasi indecente. A me, invece, è risultata chiarificante. So poco e nulla di filosofia, lo ammetto, sono un medico e mi occupo della salute delle persone, ma rileggere l’art. 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani alla luce delle considerazioni della Hersch e calandomi nella concretezza del contesto sindemico odierno che ho modo di toccare con mano, mi ha stimolato altre domande, che definirei piuttosto inquietanti.
L’Art. 1 della Dichiarazione, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Di primo acchito si direbbe che questo enunciato è menzognero, infatti gli esseri umani non nascono affatto liberi, essendo i più dipendenti e i più incapaci tra tutti i piccoli di mammiferi e tanto meno uguali, avendo occasioni di sopravvivenza assolutamente disuguali. Sono però liberi e uguali in dignità e diritto, spiega la filosofa, non a livello della realtà empirica, dei fatti oggettivi, ma al livello virtuale di ciò che possono e devono pretendere, vale a dire della loro libertà responsabile e di tutto ciò che le è dovuto. La seconda frase dello stesso articolo, continua la Hersch, constata il loro dono (non ancora attualizzato) della ragione e della coscienza e conclude con un imperativo morale: “(essi) devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
L’uomo, infatti, è un’anima e un corpo. In quanto corpo vivente appartiene alla natura, che è il regno della forza: “Tutto mangia tutto” e non conosce né il diritto né i diritti. Se fosse solo un’anima, l’uomo potrebbe disinteressarsi della forza e la questione di mangiare o non essere mangiato non si porrebbe. Ma in quanto è un’anima e un corpo vive la propria umanità precisamente nell’intersezione dell’una e dell’altro e la realtà della natura, dei dati di fatto, assume una importanza decisiva, in quanto ogni individuo ha bisogno di vivere per …, cioè si propone dei fini: vuole, desidera, opta, sceglie.
È proprio questa esigenza di attualizzare e conquistare, per quanto diverse ne siano le sue espressioni, quella che la Hersch definisce “libertà responsabile”: fonte, fondamento e senso dei diritti umani. Una esigenza che supera, trascende o persino contraddice i dati di natura, cioè i caratteri biologici dove vige la forza. In ogni essere umano esiste la possibilità di una decisione assoluta e questo punto, il più radicato, il più concreto è la fonte della universalità dei diritti umani. In sintesi ogni uomo vuole "essere un uomo” ed essere riconosciuto come tale. Se non lo è, qualche volta preferisce morire, in quanto è in gioco la libertà con il suo assoluto. Un assoluto che non ha nulla in comune con l’arbitrario e non resta “allo stato selvaggio”, ma che occorre mettere in atto nelle realtà relative e vincolanti, nel corso della storia, in ogni società, a tutti livelli.
Insomma, secondo la Hersch, l’art. 1 non potrebbe essere più giusto: grazie all’equilibrio dei termini, esso riconosce la condizione dell’uomo tra il fatto e il dovere, e il compito infinito dei diritti umani, tra il relativo del dato e l’assoluto dell’esigenza sino alla fraternità inaccessibile.
L’art. 2 afferma l’unità e l’interdipendenza di tutti i diritti e di tutte le libertà proclamati dalla Dichiarazione, rifiutando ogni eccezione, quanto a coloro che ne devono beneficiare. Aspira cioè a una portata assolutamente universale che protegge tutti gli esseri umani e ciascuno di essi di fronte a un genere umano che in realtà sarà sempre alla ricerca di deroghe e scuse. Mentre, empiricamente, non c’è da nessuna parte vera libertà, la Dichiarazione chiama a renderla possibile. Mentre, empiricamente, non c’è da nessuna parte uguaglianza, la Dichiarazione chiama a un compito sociale, politico, storico, quello di rendere uguali, e quindi di migliorare, nel corso della storia, le occasioni della libertà responsabile.
Ma quali sono questi diritti e quale è la loro esigibilità?
La filosofa ne evidenzia tre:
-i diritti elementari, civili e politici, i più facilmente esigibili perché condannano ogni costrizione fisica esercitata dalla forza contro la vita, le scelte, gli spostamenti, l’azione, l’espressione di un essere umano, rendendogli così impossibile l’esercizio della sua libertà responsabile. Tra queste evidenti costrizioni, il ricatto, seppur meno flagrante e diretto, è, agli occhi dell’Autrice, la più terribile delle violazioni dei diritti umani, in quanto s’insinua nel centro stesso della libertà possibile di un soggetto. Se egli cede, tradisce la sua essenza. C’è una libertà che si suicida.
-i diritti economici e sociali che tendono ad alleggerire le costrizioni della “natura” che pesano su ciascuno a causa dei bisogni vitali che deve soddisfare, per sé stessi e i suoi cari, pena la morte, e il cui onere, se assorbe tutto il suo tempo e tutte le sue forze, lo asservisce al corpo riducendo le possibilità di accedere alla propria libertà responsabile. Le società umane non forniscono a nessuno la libertà responsabile, ma è compito di ogni società accrescerne le occasioni. Dipendendo dal contesto di sviluppo, dall’ambiente, dalle risorse date, è evidente che la loro esigibilità è di gran lunga inferiore a quella degli altri diritti.
-i diritti culturali che riguardano più direttamente l’esercizio effettivo della libertà responsabile, ritenuti da alcuni meno necessari dei precedenti, ma, sostiene la Hersch, non è affatto così. L’uomo non diventa un essere libero e responsabile e non permette agli altri di accedere a questa libertà se resta solo e allo stato bruto, tale quale la natura l’ha fatto. Qualunque sia il luogo e l’ambiente in cui è nato, bisogna che abbia vissuto in un contesto culturale, che ne abbia imparato la lingua, che vi abbia ricevuto una educazione e una formazione. Per fare uso della sua libertà responsabile, ha inoltre bisogno di uno spazio ulteriore che si apra al di là del suo ambiente prossimo e gli permetta di orientarsi e di situarsi nello spazio e nella storia. La minaccia è il vuoto interiore, una sorta di opacità della coscienza, che si arrende al regno naturale della forza.
A questo punto i pensieri si ingarbugliano e mi compaiono immagini confuse e frammentarie, ma nel contempo chiare ed esplicite, che sono rimaste impresse nella mia mente in tanti anni di professione medica.
Rivedo lo sguardo attonito dei vecchi quando varcano la soglia di un luogo che non conoscono e non scelgono, alla ricerca continua di un qualcosa a cui aggrapparsi , rivedo i volti spauriti e rassegnati allo stesso tempo, di coloro che, all’ennesimo trasferimento, accedono nei centri Covid per essere isolati quanto basta, rivedo la tristezza mista a stupore dei famigliari quando apprendono che non potranno mai più vedere i loro cari che se ne sono andati senza nemmeno un saluto, perché il tempo non è bastato.
Mi chiedo se nell’invecchiamento o negli stadi avanzati della demenza, l’esigenza assoluta, che ha a che fare con la libertà e che è insita in ognuno di noi, si attenui fino a svanire del tutto oppure rimanga intatta nell’anima.
E poi mi immobilizzo di fronte ad una domanda cruciale: che senso ha appellarci ai diritti, sempre più numerosi, ma nel contempo sempre più vaghi, talvolta addirittura ambigui, per la loro stretta dipendenza da condizioni naturali, se poi è impossibile realizzarli in questo mondo?
Il mio pensiero ritorna al “Progetto arco della vita” e rileggo la frase che conclude la premessa: “L’anziano deve sentirsi utile, considerato, amato e rispettato per quello che è stato, che è, e potrà ancora essere e ha il diritto, che diventa il nostro dovere, di portare a conclusione il suo arco di vita nel modo migliore possibile. L’arco della vita che, come un arcobaleno, ha infiniti colori con infinite sfaccettature, diversi e indistinguibili al tempo stesso”.
Come è possibile attuare questo progetto nel contesto operativo? Mi chiedo con un certo imbarazzo.
Come conciliare i buoni propositi con le innumerevoli disposizioni e raccomandazioni alle quali attenersi, in nome della salute e sicurezza degli anziani, che limitano non poco le libertà di pensiero e di espressione? Disposizioni standardizzate non sempre applicabili in contesti specifici, talvolta addirittura inaccettabili che, in epoca pandemica, si sono moltiplicate a più non posso.
Sono presa dallo sconforto, ma non fa parte della mia natura rassegnarmi alla disfatta e abbandonare il campo.
Riprendo in mano il libro della Hersch e vado all’ultima pagina, la 102 dell’edizione Mondadori del 2020, dove l’autrice, dopo aver scritto così a lungo sui diritti umani e guardando all’attualità (e non era epoca pandemica) ammette di aver voglia di posare la penna.
Tuttavia, come tacere quando sembra che la radice interiore dei diritti umani rischia di atrofizzarsi?
Quella radice che dice “tu devi” o che dice “no, a nessun costo”, senza la quale i diritti perdono tutto il loro senso,” bisogna curarla, nutrirla, stimolarla, pur preservando in sé e negli altri la misura di una incarnazione sempre imperfetta e progressiva, da realizzare in molti modi e, in particolare, con l’ausilio di strumenti giuridici ispirati alla Dichiarazione universale”. Queste le sue parole conclusive.
Mi rincuoro e, con un pizzico d’orgoglio, sento crescere in me la forza per andare avanti, perché la minaccia della tabula rasa, dell’apatia, del vuoto di esseri umani che non sanno più chi sono è molto peggio della minaccia di sanzioni pecuniarie.
E rivolgo un invito, a tutta la società: fermiamoci un attimo a riflettere per ri-pensare al domani.
- Autore/rice Rosanna Vagge
- Categoria: I vecchi e il medico di Rosanna Vagge
Mi è capitato per caso, pochi giorni fa, di trovarmi fra le mani il libro di Ivan Illich “Nemesi Medica” scritto e pubblicato mezzo secolo fa. Stavo riordinando, appunto, le scartoffie impilate sulla scrivania della mia camera da letto che regolarmente Perla, la più corposa dei miei tre gatti, riesce a scompigliare all’alba di ogni giorno facendone precipitare alcune e costringendomi ad alzarmi ancor prima che possa suonare la sveglia, peraltro impostata alle ore 4,57 per via del mio inconsueto ritmo circadiano, simile a quello di una gallina. La copertina è sgualcita, dal bordo spuntano segnalibri, alcune pagine riportano appunti al margine e sono contrassegnate da pieghe, le cosiddette “orecchie”: cerco di sistemarle, ma, istintivamente mi soffermo alla pagina 93 e leggo:” Quanto più la vecchiaia diventa soggetta a servizi d’assistenza professionale, tanta più gente viene spinta in istituti specializzati per gli anziani, mentre l’ambiente di casa, per quelli che resistono, si fa sempre più inospitale”. Siamo alla Parte seconda del libro intitolata “La iatrogenesi sociale” con sottotitolo “La medicalizzazione della vita”.
Sfoglio il libro avanti e indietro cercando la definizione che l’autore attribuisce al termine “iatrogenesi sociale”. La trovo a pag. 49: “[…] parlerò di iatrogenesi sociale, intendendo con questo termine tutte le menomazioni della salute dovute appunto a quei cambiamenti socio-economici che sono stati resi desiderabili, possibili o necessari dalla forma istituzionale assunta dalla cura della salute. La iatrogenesi sociale insorge allorché la burocrazia medica crea cattiva salute aumentando lo stress, moltiplicando rapporti di dipendenza che rendono inabili […] e addirittura abolendo il diritto di salvaguardarsi. La iatrogenesi sociale agisce quando la cura della salute si tramuta in un articolo standardizzato, un prodotto industriale […]”.
Sono parole forti che mi risuonano come un avvertimento; non posso far a meno di pensare ai danni provocati dalle disposizioni normative ritenute indispensabili per affrontare questo drammatico periodo segnato dalla pandemia da Coronavirus.
Mi imbatto, a caso, alla pagina 86, capitolo intitolato “L’imperialismo diagnostico” e leggo: ”La burocrazia medica suddivide gli individui in quelli che possono guidare l’automobile, quelli che possono assentarsi dal lavoro, quelli che possono fare il soldato […]”. E, aggiungo io, in quelli con tampone per la ricerca del virus Sars- Cov-2 positivo e in quelli negativi. Con tanto di certificazione medica allegata.
Non riesco a staccare gli occhi dal libro, scorro velocemente lo scritto, più con il cuore che con la mente e rimango colpita da altre frasi che non ricordavo più, considerato che sono passati parecchi anni dalla mia lettura integrale del testo. Illich riflette sull’organizzazione della società protesa a medicalizzare i periodi di rischio delle diverse fasi della vita, dalla nascita alla morte, ben diversa dal rito, breve per quanto drammatico, richiesto dagli stregoni della tribù Azandé per segnare il passaggio di un membro da uno stadio della sua salute al successivo, rito che peraltro metteva in luce le forze generatrici della comunità e l’importanza degli aspetti culturali per la preservazione della salute. “La supervisione medica permanente fa di tutta la vita una serie di periodi di rischio, ciascuno dei quali richiede una tutela speciale. Dalla culla all’ufficio e dal Club Mediterranée al letto di morte, ogni fascia di età è condizionata da un ambiente il quale definisce la salute per conto di coloro che segrega”. Prosegue il filosofo con modalità che definirei piuttosto corrosive, mentre il verbo “segregare” mi riporta alla situazione pandemica attuale.
Chissà cosa direbbe il filosofo antropologo se fosse ancora vivo!? Probabilmente si sta rivoltando nella tomba, penso io, perché la deriva, iniziata molti anni fa, sta prendendo una piega intollerabile per la dignità dell’essere umano.
Le situazioni che sto vivendo, per un motivo o per l’altro, pongono l’accento sulla controproducente assurdità di un’organizzazione socio-sanitaria basata sulla separazione tra gli individui e nella quale l’individuo stesso è reso inabile in specifico rapporto all’età. Quest’ultime parole sono presenti alla pag. 89 dell’edizione in mio possesso di “Nemesi Medica” e seguono una frase che riporto integralmente che dovremmo sempre tenere a mente, anche se può apparire addirittura caustica. Eccola: “Tra il parto e il termine estremo, questo fascio di interventi biomedici trova la sua migliore collocazione in una città che sia costruita come un utero meccanico […]. L’esempio più ovvio quello dei vecchi, vittime di cure impartite per una condizione incurabile”. Preciso che l’autore ironicamente fa riferimento alla cura intesa come terapia medica e alla vecchiaia come malattia, non al prendersi cura, che è sempre possibile in qualsiasi condizione si trovi un individuo.
La burocrazia medica sovrasta ogni decisione e l’organizzazione che ne consegue non sgarra di un millimetro. Le istituzioni preposte alla verifica e controllo delle norme imposte minacciano sanzioni, ritiro delle autorizzazioni e convenzioni, emarginazione dal sistema; il “razionale economico” supera di gran lunga il ragionamento clinico, che dovrebbe essere basato da millenni su scienza e coscienza, e la ruota della vita, con il suo carico di sofferenza, disagio ma anche gioia e speranza, si inceppa, poi si ferma, a volte riparte di colpo, lentamente o accelera vorticosamente, per poi arrestarsi di nuovo e così via. In modo apparentemente casuale. La sua irregolarità crea incertezza, confusione, disorientamento e miete molte vittime, in primo i pazienti, quelli più anziani, quelli ai quali noi medici abbiamo appiccicato l’etichetta di malattie, spesso concomitanti, che necessitano di farmaci specifici per ciascuna etichetta, farmaci a vita, anzi “salvavita” che non possono essere mai abbandonati e l’ora di assunzione deve essere spaccata al secondo altrimenti perdono di validità. Per poi meravigliarci se, dopo un evento acuto, il vecchietto di 99 anni muore a seguito di emorragia digestiva imponente dopo 30 anni di assunzione di Aspirina o di qualsiasi altro anticoagulante, seppur in associazione con gli irrinunciabili protettivi gastrici.
Sarò più esplicita. Non parlo di coloro che accedono ai pronto soccorso dei nostri Ospedali per sintomi correlati all’infezione dal virus Sars- Cov-2 e necessitano di ricovero nei reparti Covid, ordinari o nelle terapie intensive o sub- intensive a seconda della gravità della malattia, ma di coloro che acquisiscono la positività del tampone molecolare nel corso del percorso diagnostico- terapeutico ospedaliero per altre patologie mediche o chirurgiche o traumatiche, talvolta proprio sul finire del percorso stesso, invalidando tutto ciò che si era precedentemente stabilito: il rientro nel proprio luogo abitativo o la prosecuzione della cura, finalizzata al recupero funzionale, in istituti a minor intensità assistenziale o, ancor peggio, l’interruzione del percorso ospedaliero, come succede in caso di necessità di interventi chirurgici specialistici. Questi pazienti che non sono affatto una eccezione, anzi rappresentano, secondo la mia esperienza, la maggior parte dei casi, sono destinati all’isolamento, difficile da attuarsi al proprio domicilio, per gli stessi motivi imposti dalla norma. Per lo più si tratta di persone con una età anagrafica che la burocrazia colloca nella fascia di anziani, autonomi e ancora produttivi, per usare un termine caro al governatore della mia regione, persone che gradirebbero conservare la loro produttività, a vantaggio di tutti, anche dopo l’evento intercorrente acuto. Ma ci sono anche quelli che, mi verrebbe da dire sfortunatamente, non hanno ancora compiuto i fatidici 65 anni, per i quali le cose si complicano ulteriormente. E’ proprio così, perché i decisori della mia regione, una delle più anziane di tutta Italia, se non di tutta l’Europa, hanno previsto , con normativa speciale approntata ad hoc, le RSA per post-acuti Covid, le cure intermedie ospedaliere geriatriche con posti a singhiozzo un po’ Covid, un po’ non Covid, gli Hotel covid e le navi per quelli autosufficienti asintomatici, dimenticandosi che esistono i pazienti con disabilità temporanee o permanenti collocabili nell’età adulta o giovanile che auspicherebbero essere trattati come gli altri e soprattutto, nel caso la pandemia impedisca il completamento del percorso terapeutico da positivi, di essere destinati ad una struttura che possa garantire per lo meno una assistenza appropriata , quindi implicitamente dignitosa, in attesa della negativizzazione del tampone. Considerato che spesso i sintomi dell’infezione Sars- Cov-2 sono minimi o addirittura assenti, mentre le possibili complicanze derivate dall’interruzione del percorso terapeutico della patologia di base, comprensive di quelle psicologiche, possono cambiare il futuro della loro vita.
Così la continuità assistenziale, la giustizia sociale, l’etica professionale se ne vanno a farsi friggere.
E Enrico, nato nel 1969, assistito da sempre dalla sorella per un lieve handicap e arruolato nel progetto comunale “Vita indipendente” si trova ingarbugliato in una situazione assurda in quanto, dopo il suo ricovero avvenuto circa 3 mesi fa per una riacutizzazione dell’ artropatia e dermatite psoriasica che si porta addosso da parecchi anni, ha presentato una serie di problemi gravi subentranti uno dopo l’altro, tra cui la scabbia norvegese, infezioni batteriche varie e una pericolosa dislocazione di protesi d’anca. La terapia medica ha permesso la guarigione dalla scabbia e dalle infezioni, ma il problema ortopedico impone l’intervento chirurgico, per di più giudicato piuttosto complesso. Ma, ahimè,il riscontro occasionale di un tampone per la ricerca del Coronavirus, risultato positivo, scombina ogni cosa: non si può più trasferire in Ortopedia, bisogna isolarlo fino a che non si ottenga la guarigione virologica dall’infezione, seppur asintomatica e l’ unica destinazione possibile è un centro post-acuti Covid che, pur essendo in tutto e per tutto equiparato sulla carta ad una RSA, è strutturato in modo tale da rendere accettabile, se non gradevole, la permanenza anche a persone più giovani, autosufficienti o non. Ma non è finita: Enrico si negativizza, può essere operato, ma il reparto ortopedico non ha disponibilità di posti a breve e, nel contempo, il paziente non ha più diritto a proseguire la degenza presso il centro, con lo spauracchio della Corte dei Conti, né può rientrare a domicilio per l’incapacità della società di offrire assistenza continuativa ad un paziente che non è in grado di alzarsi dal letto.
Ed ecco che, in periodo pandemico, il detto “Il vecchietto dove lo metto?” pare essere soppiantato da altri: il cardiopatico, il traumatizzato, il disabile, soprattutto se non sono vecchietti, dove li metto?
L’alternanza dei tamponi, un po’ positivi e un po’negativi fa girare la testa e inceppa la ruota. Inoltre la rigidità delle norme, nonché la ristrettezza della mentalità odierna, complici le scarse soluzioni alternative predisposte dalla politica, sempre più confusa e ambigua, rendono piuttosto discutibili le scelte intraprese, nelle diverse circostanze. E sottolineo che il termine scelte è del tutto improprio in questo contesto.
Ritardi, disagi, avvilimento, sprechi di risorse pubbliche, solo per elencare alcune tra le conseguenze inevitabili di questo approccio burocratico ad un problema di salute, sono all’ordine del giorno e l’etica della cura quotidiana non trova più basi su cui appoggiarsi.
È questa la iatrogenesi sociale di cui parla Ivan Illich? Mi chiedo.
O forse il mio carattere ribelle ed un tantino anarchico, mi impedisce di comprendere fino in fondo, soprattutto per le scarse risorse economiche, che non si poteva fare diversamente?
La ruota dei miei pensieri incomincia a girare vorticosamente, devo chiudere il libro, distogliere la mente e concentrarmi su qualcosa di positivo, che mi faccia scorgere la luce in fondo al tunnel.
Penso a Grace, Rosy e Angel che sono state accolte con grande entusiasmo da tutti i residenti di Casa Morando, annoiati e afflitti dal lungo periodo di reclusione imposto dalla pandemia. Li hanno distratti dalla monotonia della vita di comunità, limitata nell’animazione e nelle feste e privata dei consueti e numerosi incontri con amici e parenti, sono state capaci di farli sorridere e i vecchietti, a loro volta, le hanno riempite di coccole, le stesse che avrebbero voluto ricevere.
Eccole mentre razzolano per la prima volta nel cortile.
Ed ecco Rita e Piero intenti ad accarezzarle e a farsele amiche.
Le oche, se non conoscono, possono essere aggressive e devono essere addomesticate da piccole. È quindi necessario impegnarsi per arrivare all’obiettivo di una buona convivenza.
Angel, l’anatroccola inseparabile dalle due, è un po’ più timida e paurosa, ma col tempo capirà che nessuno vuole farle del male.
Mi viene in mente di proporre ad altre strutture per anziani l’addestramento di oche come valido ed efficace antidoto alle iatrogeniche disposizioni anti-Covid, ma blocco all’istante questo bizzarro pensiero.
Forse la mia passione per gli animali e la natura in genere, mista ad una buona dose di stanchezza, mi sta facendo andare fuori dal seminato.
È meglio che mi fermi qui.
- Autore/rice Rosanna Vagge
- Categoria: I vecchi e il medico di Rosanna Vagge
Era il 25 febbraio del 2020, quando, dopo una sospensione di quasi 3 anni a causa dell’alluvione, gli organizzatori avevano dato l’ok per riprendere a correre la faticosa maratona “Arco della vita” e fortunatamente avevano considerato valido il percorso precedente.
L’articolo dal titolo “Maratona sospesa al km 9- si riprende a correre” pubblicato su questo stesso Blog racconta nei dettagli con quanto entusiasmo “Casa Morando” fosse ripartita, nella consapevolezza delle difficoltà insite in un territorio fragile quanto i suoi abitanti, ma con la volontà di perseguire l’ obiettivo di dare dignità alla vita e di rendere il più possibile concreta la parola inclusione.
Il racconto che la mia mente aveva accantonato in un angolo recondito fino a dimenticarsene, concludeva con questa frase: “Ora si parte, dobbiamo riprendere un passo sostenuto senza esagerare. Non manca molto al ristoro del Km 10 e dobbiamo arrivarci in buone condizioni per acquisire ulteriore energia e, a testa alta, battere i pugni affinché Casa Morando diventi a pieno titolo una Residenza Protetta aperta”.
La rileggo più volte, questa frase, e mi accorgo che il sentimento di amarezza misto ad avvilimento che di primo acchito mi ha invaso lascia il posto alla voglia di ricominciare, di raccogliere le forze, stringere i denti e andare avanti, anche se al ristoro previsto al Km 10 non siamo riusciti ad arrivarci.
Proprio così, perché, dopo aver percorso poco più di 700 metri, la maratona è stata bruscamente interrotta per evitare la diffusione del contagio dell’infezione Covid-19 e tutti indistintamente siamo stati mandati a casa fino a data da stabilirsi. È infatti l’11 marzo del 2020 quando il Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità , Tedros Adhanom Ghebreyesus dichiara la pandemia da Coronavirus essendo in netto aumento i casi di infezione, più di 118.000 in ben 114 paesi, e già oltre 4000 le vittime.
Un anno paradossale, interminabile e nello stesso tempo volato via, come sospeso nel nulla, privo di aspettative, di risorse, brulicante di dolore e sofferenza, incertezza, delusione, sfiducia e morte. Un anno di vita perso, monopolizzato da una particella invisibile capace di esaltare le meschinità insite nell’animo umano e indebolire fino ad annientare i pensieri più nobili.
Un anno in cui gli anziani residenti di “Casa Morando” hanno subito le restrizioni imposte dalle autorità competenti: niente più shopping al mercato del venerdì di Chiavari, niente più lezioni di musica all’asilo della Scuola Maria Luigia, niente più visite dei parenti o rientri a casa, in famiglia, per il fine settimana. Un cambiamento radicale delle loro abitudini che, nonostante gli sforzi della direttrice Maria Grazia di rendere gioioso il periodo di reclusione offrendo preziosi momenti di svago all’interno della residenza, non ha certo giovato al loro benessere legato soprattutto al sentirsi liberi di scegliere come e dove muoversi, godere della musica, del ballo, delle feste a sorpresa, degli incontri con gli amici del Rotary, del calore insostituibile di un bacio e di un abbraccio.
Ringraziando la buona sorte ed incrociando le dita, come la tradizione ci insegna, il virus non li ha colpiti e pure la seconda dose del vaccino Pfizer non ha provocato alcun effetto collaterale, nemmeno il minimo risentimento al braccio nel punto di iniezione. Sarà per il fatto che abbiamo cercato di esorcizzare la paura con allegria e creatività, complice un ambiente accogliente, reso vivace dall’andirivieni dei nostri gatti, il cui numero è salito a 6, dopo l’arrivo di Tinetta e l’adozione di due dei suoi cuccioli, Cesare e Topo. Poi ci sono Gertrude, Anita e Zoe che popolano il cortile antistante, ma non disdegnano affatto di entrare all’interno della casa per sgranocchiare ciò che resta nelle ciotole dei felini e ripulirle di tutto punto. Ed ora è arrivato anche Germano, un giovane e timido galletto dalle piume dorate che sveglia il circondario anticipando l’alba con il suo canto discreto, ma insistente. Gli ospiti sono felici di tanta animazione. “È questa la vita!” sostiene Rita dall’alto dei suoi 93 anni che non dimostra affatto né nel fisico né nella mente, “Svegliarsi con il suo canto è delizioso!”, mentre Carlo, dritto in piedi al centro della palestra e con il braccio alzato per richiamare l’attenzione, proclama a gran voce: “Evviva Germano, un gallo in mezzo alle galline ci voleva proprio!”.
Concordo, penso io e le immagini che vi propongo testimoniano, più che le parole, l’atmosfera vivace , in armonia con la natura, che si respira in Casa Morando.
L’arrivo di un gallo ha sempre segnato una svolta importante nel percorso di vita degli ospiti. Il primo è stato un galletto di piccola taglia, vecchio e spennacchiato che abbiamo chiamato Ugo e che apparteneva a Rina, una anziana signora che i servizi sociali avevano ritenuto non più in grado di vivere autonomamente in casa propria e le avevano nominato un amministratore di sostegno per istituzionalizzarla. Rina era una donna di campagna, molto riservata, attaccata alle sue abitudini, indossava sempre il grembiule da cucina e non si separava mai da una borsa da spesa, sgualcita dal logorio del tempo. Si adattava male alla vita di comunità, si annoiava, non si sentiva utile ed allora abbiamo pensato che poter continuare ad accudire Ugo sarebbe stato per lei di grande conforto. Fu l’amministratore di sostegno in persona a consegnarcelo, rinchiuso in uno scatolone di cartone con i buchi, ma purtroppo visse solo pochi mesi lasciando vedove Teresa e Gilda, le due galline che solo Rina riusciva a confortare con le sue coccole. Poi fu la volta di Osvaldo, il più birichino perché di tanto in tanto rincorreva le persone che non le erano simpatiche cercando di speronarle. Osvaldo ci lasciò all’età di 5 anni, improvvisamente; noi ci preoccupammo pensando a qualche malattia fulminante, ma i veterinari dell’ASL ci rassicurarono sostenendo che avesse raggiunto la fine dei suoi giorni per anzianità. Nel frattempo era nato in casa Fortunello che, quando era ancora giovincello, si perse lungo il fiume Rupinaro e non fu mai più trovato. Da più di un anno, causa pandemia, Casa Morando era priva della sua mascotte e gli ospiti attendevano con gioia l’arrivo del promesso sposo di Gertrude, Anita e Zoe. I vicini un po’ meno, considerato che qualcuno si è già lamentato per il chicchirichì. Come può infastidire il canto di un gallo? Mi chiedo senza trovare risposta.
La svolta segnata da Germano, sarà la ripresa della vita sociale per gli ospiti di Casa Morando che hanno tutti completato la vaccinazione anticovid in data 5 febbraio. Aspetteremo con pazienza i tempi previsti per la produzione degli anticorpi specifici che ci renderanno immuni dall‘attacco del fatidico virus e, una volta ottenuta la certificazione e l’autorizzazione dall’ASL, almeno verbale, con mascherine e tutte le precauzioni del caso, potremmo finalmente varcare il cancello della residenza, passeggiare per le strade del centro cittadino, ammirare le vetrine dei negozi , incontrare persone di tutte le età, chiacchierare con conoscenti, parenti, amici, sorridere alla vista dei bambini che corrono di qua e di là approfittando della zona pedonale del carruggio. E, perché no, salire orgogliosamente sul trenino turistico che fa il giro della città per festeggiare, anziché il Natale, come di consueto, la riacquistata libertà dopo la vaccinazione. Un modo divertente per promuovere la profilassi anti-Covid, ma soprattutto un invito alle istituzioni affinché riflettano sull’importanza dell’inclusione in tutto l’arco della vita.
Così Nina, che è solita camminare a passo veloce nel giardino antistante per mantenersi in forma, si potrà comprare delle scarpe comode, misurandosele, perché quelle che il fratello le ha portato, pur essendo del suo numero, le vanno strette. In tempi di pandemia, purtroppo, per chi vive in comunità, non è permesso di uscire né in autonomia né tanto meno accompagnata, cosa che Nina, per l’amicizia che ci lega, ha accettato di buon grado riempiendosi i piedi di cerotti. Una accettazione che non sono riuscita a digerire e che mi ha lasciato l’impressione di tradire la sua fiducia perché, sarà per il mio spirito rivoluzionario o chissà per quale altra cosa, certe restrizioni a cascata, rigide e assurde, si collocano al di fuori del mio pensiero logico. E poi un buon paio di scarpe, capace di attutire il peso e di preservarti sani i tegumenti, è fondamentale per chi ama camminare o correre.
Bruna, invece, ha continuato a uscire ogni mattina dalla residenza, mostrandosi del tutto indifferente alla normativa vigente, non perché non la conoscesse, legge due quotidiani al giorno, ma per convinzione: lei, codice 1721, erede degli Asburgo, non può essere toccata dal Coronavirus.
È stata redarguita dai Carabinieri e minacciata di sanzioni allargate all’intera struttura con obbligo di sorveglianza, come chiaramente espresso nell’articolo sottostante pubblicato sul Secolo XIX in data 2 aprile 2020, ma ogni giorno dei mesi successivi fino ad oggi, ha continuato imperterrita a proseguire le sue abitudini. Per fortuna nessuno ha più osato fermarla.
†Ed eccola, in una foto tratta da face book pubblicata da un passante incuriosito dal lento procedere dell’audace vecchina, carica di sacchetti all’apparenza pesantissimi, sacchetti dal contenuto misterioso che nessuno può sottrarle.
Cosa succederà?
Si riuscirà a ripartire?
Considereranno valido il percorso precedente?
Oppure annulleranno il tutto costringendoci a ricominciare dal Km 0 e chissà quando?
Mi chiedo, colta da una emozione talmente forte da comprendere il tutto e il nulla. Cerco di analizzarla e mi accorgo che a mano a mano i sentimenti negativi come la rabbia, la delusione, l’indignazione, capaci di bloccare ogni movimento del corpo fino a paralizzarti, sfumano a poco a poco lasciando il posto ad una malinconica neutralità che si trasforma a breve in speranza, fiducia nelle proprie forze, certezza di non perdere mai di vista la meta.
Sono stati necessari 10 anni per correre, tra una interruzione e l’altra 9,7 km della maratona “Arco della vita”, 10 anni in cui abbiamo acquisito la consapevolezza dei nostri limiti, ma anche delle nostre potenzialità, mentre l’esperienza ci ha addestrato alla pazienza, alla prudenza e al coraggio. Tutto ciò non può essere cancellato.
Ora le nostre gambe fremono per ripartire, alla grande e non importa se ci daranno il via ufficiale, sapremo attendere e nel frattempo ci alleneremo duramente.
Perché il diritto ad una vita e a una morte dignitosa non debba mai più essere calpestato.