Silvana Botassis, medico e presidente associazione "Al Confine"-Milano
Tom Kitwood, psicogerontologo, uno dei primi studiosi che ha affrontato il tema della demenza partendo non dalla patologia degenerativa, ma dalla persona. Come presenterebbe la sua elaborazione a un corso di formazione per operatori della cura?
Proprio partendo da qui, da quello che lui stesso chiama il cambio di paradigma: da “persona con DEMENZA” a “PERSONA con demenza”. Si tratta di spostare la focalizzazione dello sguardo, dal deficit in tutte le sue manifestazioni, alla totalità della persona con le sue risorse e il suo inalterato bisogno di relazione. Decenni di focalizzazione sul deficit ci hanno portato ad avere uno sguardo molto parziale che vede solo quello che si aspetta di vedere, e un pensiero che legge come “sintomi” tutti i comportamenti di chi è vittima, se posso usare questo termine, di una diagnosi di demenza.
La difficoltà sta nel tenere insieme un pensiero che tenga conto del deficit, per evitare di chiedere alla persona quello che non è più in grado di dare, e un pensiero che le riconosca la dignità di soggetto della sua vita e sappia trovare un senso ai comportamenti apparentemente “patologici”. Non è facile per un operatore avere questa elasticità mentale che possa poi tradursi operativamente in una relazione positiva, come non è facile per i caregiver informali. Lo dico da figlia, anche per me è quotidianamente difficile essere in questo atteggiamento. In un corso per operatori penso che la cosa fondamentale sia partire dal loro vissuto quotidiano, là dove si inceppa la relazione; per rivedere insieme, e provare a immaginare come, cambiando sguardo e atteggiamento, si stia meglio tutti, anziani confusi e operatori. La relazione con l'anziano disorientato può essere molto ricca e feconda per chi lo assiste, se riesce a entrare nella relazione, e non agire come una specie di pilota che indirizza e corregge o peggio come “badante” come, con orrido e svilente neologismo, si dice ora. E' proprio l'idea del “badare” che inficia alla base la relazione, che rende oggetto, anziché soggetto, l'altro. E allora la relazione semplicemente non esiste.
C'è un altro punto di partenza che ritengo essenziale, ed è la valorizzazione del lavoro dell’assistente. Passare la maggior parte del proprio tempo con anziani disorientati è obbiettivamente faticoso, logorante sul piano emotivo e spesso frustrante. Inoltre risveglia costantemente le paure personali riguardo la vecchiaia, la malattia e la morte. Non parliamo poi di chi ci vive accanto giorno e notte… raramente questo carico fisico ed emotivo è compreso e valorizzato dai datori di lavoro, siano istituzioni, aziende private o famiglie. Credo che i primi ad avere diritto al riconoscimento e alla convalida, insieme agli assistiti, sono proprio gli assistenti. Si può analizzare quello che non va, ma prima va riconosciuta la fatica fisica e psicologica.
Lei è Medico di medicina generale ed è impegnata in un’Associazione di volontariato “ Al confine” che partecipa al Tavolo Alzheimer del Comune di Milano e al progetto “ Una rete per l’Alzheimer”. In che modo vi sono serviti o vi sono stati d’aiuto l’elaborazione di Kitwood e gli studi del Bradford Dementia Group, di cui lo stesso Kitwood è stato promotore e quali risposte, come Associazione avete adottato? In particolare avete sperimentato gruppi di auto-mutuo- aiuto tra i pazienti?
L'idea di creare un'associazione che si occupasse di anziani con deficit cognitivo dal punto di vista psicosociale e non sanitario nasce proprio dal mio ruolo di medico e dalla frustrazione che come tale sperimentavo con i miei pazienti in questa condizione. La medicina ufficiale offriva loro soltanto un desolante percorso diagnostico e dei farmaci di dubbia efficacia, come poi si è dimostrato. Da qui è nata l'intenzione di creare gruppi dedicati a loro. Eravamo nel 2006 e le associazioni allora si occupavano soltanto del carico assistenziale dei parenti, non di loro direttamente. Noi abbiamo aperto il nostro primo Alzheimer café nel 2007 con un gruppo condotto secondo il Metodo Validation di Naomi Feil, allora pressoché sconosciuto in Italia.
Il primo gruppo era inizialmente costituito da persone estranee tra loro, tutte con il loro carico di sofferenza e di frustrazione, e ci sono voluti mesi perché “imparassero” ad ascoltarsi tra loro, ognuno voleva essere ascoltato in maniera privilegiata, tanto era il vissuto di non ascolto. Abbiamo constatato che l'ascolto è contagioso, l'atteggiamento di genuina attenzione dei volontari ha prodotto il “miracolo” che, a poco a poco, anche loro iniziassero ad ascoltarsi reciprocamente, confortarsi, soccorrersi, consigliarsi, a volta anche sanamente litigare, e si è costituito un vero gruppo di auto-mutuo-aiuto tra anziani confusi. Da allora sono passati anni, il turnover, data l'età e la patologia, è elevato, ma lo “stile” del gruppo è rimasto, i nuovi arrivati lo colgono subito e si inseriscono facilmente, il clima è rilassato, tutti dicono che l'assenza di giudizio si respira. Si parla tanto (a volte è un'insalata di parole, ma ci s’intende lo stesso), ci si sfoga, si piange ma anche si ride, ci si aiuta e noi volontari raccogliamo vere e proprie perle di saggezza. Anche il fatto di potere piangere e comunque esprimere le emozioni negative è importante. Raramente nella vita normale è loro permesso di farlo; li si consola, li si rassicura, non si da loro ascolto, spesso per non essere contagiati dal loro dolore: poterlo esprimere liberamente e sentirlo condiviso è di per sé terapeutico, evita che dolore e rabbia si accumulino per poi esplodere magari in qualche “disturbo comportamentale”. Voglio aggiungere che dall'inizio abbiamo tenuto insieme persone con gradi estremamente diversi di deficit cognitivo, ma questo, contrariamente a quanto si pensa, funziona benissimo! I più compromessi si sentono accolti e sostenuti dagli altri, che a loro volta si sentono utili a qualcuno, recuperando un ruolo sociale che rafforza la loro identità. Dal 2010 abbiamo affiancato un laboratorio teatrale che, con un linguaggio totalmente diverso, ripropone la stessa intensità di ascolto, valorizza l’espressione individuale, la partecipazione, il sostegno reciproco. E da due anni abbiamo replicato lo stesso modello in un altro quartiere, con risultati analoghi. Ovviamente in tutto questo percorso il pensiero di Kitwood è stato una traccia costante, un riferimento prezioso.
Leggendo il libro fondamentale di questo studioso oggi tradotto in italiano appare di grande attualità questa sua idea che tutta la cura parte dall’“essere persona”, che oggi tutta la medicina comincia ad affrontare con la dovuta attenzione, parlando di relazione medico/ paziente, di cura personalizzata, dell’incontro “io-tu", del riconoscimento, del rispetto, della fiducia. Kitwood con estremo pragmatismo elenca ciò che valorizza il concetto “essere persona” e cosa lo mina, apportando storie significative, da Margaret a Bessy e Janet. Come può tradursi nell’assistenza nel territorio, nelle diverse tipologie di servizi?
Sembra abbastanza evidente che il luogo privilegiato di quella che Kitwood definisce “psicologia sociale maligna” sia l'istituzione (RSA, casa di riposo, “ospizio” come si diceva un tempo, ma la realtà, al di là dell'architettura e dell'igiene non è poi tanto cambiata…). In realtà spesso tra le mura domestiche si consumano situazioni analoghe. E spesso anche i centri diurni sono contenitori a uso del sollievo della famiglia, dove al massimo avvengono attività di intrattenimento e dove è difficile scorgere una relazione io-tu. Non sto certo dicendo che non esistano isole privilegiate dove la relazione è al centro, ma sono appunto isole, la norma è sconfortante. In Italia non è ancora nemmeno cominciata quella trasformazione che Kitwood descrive come già in atto nel Regno Unito negli anni 90. Basta pensare che le “case di riposo” in Italia sono diventate RSA, dove la S sta per sanitarie; questo la dice lunga sulla medicalizzazione della vita delle persone anziane in generale, figuriamoci di quelle con deficit cognitivo. È uno dei frutti di quella che Kitwood definisce “ideologia neuropatica”, che come ogni ideologia rischia costantemente di non vedere la realtà, ma di piegarla ai suoi presupposti. E credo che si debba tenere presente che dietro all'ideologia ci sono anche tanti e svariati interessi economici, che sarebbero certamente messi in crisi da una demedicalizzazione della demenza. Il punto di partenza, come lui stesso afferma, non può che essere etico, un sussulto di rivendicazione della dignità umana, una sana indignazione per la morte sociale di tante persone e per gli abissi di sofferenza che vivono senza alcun riconoscimento, perché non sono più in grado di esprimerla, se non attraverso quei “disturbi comportamentali” che portano a un'accentuazione ulteriore della medicalizzazione. Certamente se il pensiero di Kitwood fosse più conosciuto anche da noi la realtà comincerebbe a cambiare. Basta pensare alle diciassette voci in cui riassume la PSM per verificare quanto siano costantemente messe in atto in tutti i luoghi dell'assistenza, e anche in casa propria. Prendiamone anche solo alcune come esempio. L'esautorazione che è costante: quando mai si chiede il consenso per quello che “va fatto”, sia igiene, spostamenti, e anche intrattenimenti? L'infantilizzazione, che è presente nei nomignoli con cui spesso gli anziani vengono interpellati, nella scelta delle attività proposte, nel tono condiscendente e un filo didascalico con cui spesso ci rivolgiamo a loro… L'oggettivazione, norma di tutte le procedure quotidiane nelle RSA ma molto spesso anche a domicilio, con il frettoloso disbrigo di tutto l'accudimento che potrebbe invece essere un momento di incontro. Appunto, potrebbe! Può sembrare banale, ma davvero basta guardare l'altro come un tu anziché come l'oggetto di pratiche di assistenza, che si aprono scenari inediti: il difficile è proprio fare quello spostamento. Il fatto è che non è richiesto, né dalle istituzioni, né dai familiari che si affidano alla “badante”. Ciò che è richiesto è che l'anziano sia - come soleva dire una nostra operatrice - “lavato e stirato” e ovviamente anche adeguatamente nutrito, e che tutte le terapie vengano somministrate agli orari prestabiliti… la relazione non rientra nel contratto, è un optional che, molto spesso, viene garantito dalla splendida umanità di tante assistenti familiari e di tanti operatori nei servizi, ma non è poi neanche tanto riconosciuto. Intendo dire che tutto è affidato alla personalità, alle capacità relazionali, alla disposizione d'animo dei singoli. Dovrebbe esserci a monte un forte accento sulla relazione, sull'integrità della persona, sul rispetto dell'autonomia, ma di fatto non c'è. Forse non ho risposto alla domanda, ma come può “tradursi” un pensiero che non è nemmeno vagamente conosciuto? Il cambio di paradigma è lontanissimo, per quello che costato.
Una delle domande che si pongono con più frequenza, anche negli studi di Kitwood riguarda la diagnosi di demenza. A quali indicatori dare rilevanza e possono esistere degli standard di diagnosi e di cura?
Questa domanda mi mette in difficoltà perché spesso ho l'impressione che la diagnosi sia un'arma a doppio taglio, che garantisce prestazioni e servizi e però garantisce anche lo stigma, tanto che a volte mi chiedo se il diritto alla diagnosi tempestiva, tanto sbandierato, non si traduca in un diritto a una condanna. È pur vero che, come accennavo prima, la diagnosi garantisce la persona anziana, almeno in teoria, dalla richiesta di prestazioni impossibili e ha quindi un suo perché. Mi chiedo però che senso abbia sottoporre una persona con evidenti segni di deficit cognitivo a stressanti e umilianti test psicometrici, i cui risultati saranno inevitabilmente alterati dall'ansia che elicitano in una persona già compromessa, o a procedure invasive come la puntura lombare, a fronte del totale fallimento delle possibilità farmacologiche, almeno allo stato attuale. Come medico mi sono sempre attenuta alla norma che un'indagine diagnostica sia utile se e per quanto possa cambiare la condotta terapeutica e di conseguenza migliorare l'assistenza. Evito ulteriori commenti sull'utilità delle sottigliezze diagnostiche nel campo delle demenze.
In un passo del testo Kitwood dice: «Nonostante l'etichetta “malattia”, la demenza sta cominciando a essere depatologizzata e accettata come parte della condizione umana»: ecco, pensare alla demenza come a una condizione di vita invece che come a una malattia certamente aiuterebbe a perseguire sempre e comunque la relazione come asse portante anche della terapia, se proprio vogliamo chiamarla così. Non credo potranno mai esserci standard di cura, se la cura ha da essere “care” e non “cure” (peccato che nella nostra lingua non ci siano i due vocaboli, forse siamo culturalmente un po' indietro?). L'unico standard che vedo è l'attenzione che so prestare a quella persona in quel preciso momento che stiamo vivendo assieme.
Tra le caratteristiche del “metodo Kitwood” emergono sia il tipo di cura e assistenza da assicurare sia la costruzione della risposta al bisogno della persona con demenza, in altri termini l’organizzazione e il personale.
Lei è anche formatrice e chiudiamo riallacciandoci alla prima domanda. Quali sono le resistenze maggiori e quali invece le disponibilità degli operatori?
Credo che le resistenze sia negli operatori di tutti i livelli – a partire dai medici! - sia nei familiari derivino da oltre tre secoli di positivismo, che ha fondato la conoscenza sull'analisi: dalla persona al cervello, dal cervello al neurone, alla placca amiloide, al neurotrasmettitore. E anche da oltre due millenni di “principio di non contraddizione” per cui se uno è malato non può essere sano. Questi presupposti “non pensati” li abbiamo bevuti tutti col latte materno e fanno parte di noi, sono la base di quell'ideologia neuropatica di cui Kitwood parla, sono entrati a far parte del senso comune; basta leggere un po' di stampa quotidiana, quando si occupa di salute, per capire come sia pervasiva. È questo modo di pensare che inevitabilmente porta al modo di agire che Kitwood definisce “psicologia sociale maligna”, che come lui stesso afferma non è quasi mai legata a trascuratezza o malanimo, ma quasi sempre guidata dalle migliori intenzioni, non liberate, però, dal pregiudizio implicito. È chiaro che questo tipo di resistenza che ci riguarda tutti – me inclusa – non è superabile con un corso di formazione o con un atto di buona volontà, è talmente radicata da richiedere un allenamento duraturo. Non basta certo aver deciso di essere convalidanti, con la massima adesione al principio, per esserlo davvero nel mezzo di una crisi di agitazione psicomotoria, mentre stai aiutando un anziano a fare la doccia. E’ solo l'esperienza sostenuta da una formazione continua che può gradualmente fornire gli strumenti adeguati per superare anche una situazione del genere, senza desistere e senza umiliare l'anziano, con soddisfazione di entrambi. È molto interessante in proposito l'idea di Kitwood dell' “operatore riflessivo”: colui che agisce, sbaglia, sa ritornare sulla propria azione e, a dialogo con altri, si rivede e riparte a sperimentarsi, sapendo che sbaglierà ancora e ancora, ma sempre aperto alla trasformazione. Chiaramente il lavoro di équipe, la supervisione reciproca rivestono qui un ruolo fondamentale. Anche noi nel nostro piccolo facciamo seguire a ogni incontro con gli anziani un'ora di riflessione tra operatori e volontari su quel che è successo, in cui molto liberamente ci si scambiano le sensazioni avute: dove si è “lavorato bene” e dove invece si è ricaduti nei vecchi schemi, consigliando, esortando, consolando… Sono momenti autenticamente formativi per tutti, anche per gli operatori più esperti. Credo che questa semplice pratica, se diffusa a tutti gli ambiti della cura, sarebbe l'inizio di una rivoluzione. Anche perché credo sinceramente che la disponibilità da parte degli operatori ci sia, nel momento in cui scoprono che il loro lavoro diventa più interessante, più creativo, più gratificante e anche meno faticoso. Il fatto è che quasi sempre (salvo geniali intuizioni personali, più frequenti di quanto si possa pensare) non riescono a formulare un'alternativa alle modalità consuete, perché difficilmente chi sta “in alto” - dirigenti delle istituzioni, medici specialisti, formatori – le conosce o ha interesse a diffonderle. Credo davvero che il compito più urgente, per chi ha a cuore la sorte degli anziani con demenza, sia di contribuire alla diffusione del “nuovo paradigma” come lo definisce Kitwood, che non esclude affatto l'approccio scientifico, ma lo incorpora in una visone più ampia, che abbraccia tutte le dimensioni dell'essere umano e mette al centro la relazione tra persone, persone in situazioni diverse ma con pari dignità. Credo che le maggiori resistenze alla diffusione del nuovo paradigma non provengano dagli operatori, ma dai poteri costituiti, accademici, economici e politici, che sarebbero messi non poco in crisi da una visione della demenza come “parte della condizione umana”.
Da "Riconsiderare la demenza": "La psicologia sociale maligna"


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