Libri
- Autore/rice Lidia Goldoni
- Categoria: Libri
Al primo impatto con il titolo del libro nasce una qualche perplessità, perché pensando al counseling ( una delle tante parole inglesi entrate nel linguaggio comune), s’immaginano tecniche di comunicazione sofisticate.
Poi addentrandoci nella lettura, nelle situazioni prese in esame, nelle competenze assegnate agli operatori socio sanitari, ci se rende conto che in realtà stiamo parlando della quotidianità degli interventi di cura che coinvolgono l’anziano, il famigliare e il collega. L’obiettivo è farlo al meglio.
Tre concetti sono esplicativi.
In una relazione di cura occorre “saper stare” in quella realtà, intesa come ambiente e persone con cui si intrecciano relazioni di vario livello, di cui serve saper cogliere atmosfere, saper dialogare con gli altri
Occorre “saper essere”. Avere consapevolezza del proprio ruolo e del “saper fare” significa non ridurre il lavoro di cura ad un tecnicismo , anche perfetto, ma che ignora l’obiettivo primario di un operatore socio sanitario: essere d’aiuto, sostenere, comprendere.
L’autrice traduce concetti, strumenti e metodi della comunicazione nella attività quotidiana di un operatore socio sanitario, nella sua relazioni di cura con l’anziano, nel rapporto di fiducia che deve creare con l’utente, nello stile collaborativo verso il collega.
Le varie situazioni che si presentano in un servizio diventano, come si direbbe in linguaggio “tecnico” dei “case study” su cui l'operatore può misurarsi con sé stesso, con il destinatario dell’azione, con il collega che lo affianca.
Un capitolo è dedicato specificatamente alle tecniche di counseling con la persona con demenza
Ma non è sufficiente eseguire una prestazione in modo corretto, occorre saper “considerare” quale impatto essa ha su quella persona, sia essa un anziano o un caregiver o un altro operatore.
Il pregio del libro è il trasferimento all’operatore degli strumenti per verificare i risultati del proprio lavoro, perché possa in primis cogliere l’appropriatezza e la qualità erogata.
- Autore/rice Lidia Goldoni
- Categoria: Libri
Sono in maggioranza storie di donne (Frau come le indica Antonella Santuccione Chadha) quelle raccolte nel libro “Una bambina senza testa” (editore Mondo Nuovo- febbraio 2021- Pescara).
Le storie narrate, come precisa l’editore, tranne quella di “Sofia” ( e di Arko pur con un nome fittizio) sono inspirate da casi clinici descritti nella letteratura scientifica, ma ognuna di esse rappresenta ed è un compendio di tante altre esperienze simili.
Non serve sapere se è esistita o no quella persona, perché ciò che ci viene presentato è una storia verosimile e realistica, un vissuto individuale di tante altre e altri.
Raccontano di essere umani che hanno avuto a che fare con disturbi, sintomi e diagnosi finali che riguardano il cervello e la mente, che toccano quelle parte del corpo umano che più sembra misteriosa e inattaccabile, ma che, al contrario, è fonte di patologie spesso ancora incurabili come le demenze e di disturbi devastanti come le “voci” della schizofrenia
Le autrici sono due scienziate italiane- Antonella Santuccione Chadha e Maria Teresa Ferretti- che hanno adottato nel libro un espediente narrativo molto efficace. Interloquiscono tra di loro su ogni caso: Antonella racconta, attingendo anche dalla sua esperienza clinica, il suo sforzo per entrare in relazione con la persona prima ancora che con il paziente di cui espone la storia, i sintomi, la prima diagnosi, e poi chiede a Maria Teresa Ferretti le informazioni scientifiche, quali le parti del cervello coinvolte, cosa si cela dietro una diagnosi o un sintomo, qual è lo stato delle conoscenze in materia, quali le tipologie di farmaci prescritte.
È un colloquio tra due amiche, che permette di esporre conoscenze scientifiche con un linguaggio appropriato, ma accessibile ad un grande numero di lettori e lettrici, con una chiave ulteriore di facilitazione dell’apprendimento. Quando si parla del cervello o di un disturbo specifico o dell’azione di farmaci, semplici disegni indicano la loro localizzazione o dove agiscono.
Un tratto comune unisce la neuroscienziata e la patologa clinica: andare oltre la conoscenza del “paziente” per arrivare alla persona. Per Maria Teresa un’improvvisa “illuminazione” le dice che oltre il microscopio c’è una persona con sentimenti, paure e affetti.
Per Antonella la scelta del percorso di studio era stata indotta da questo interesse per l’essere umano. In tutti i racconti Antonella si pone l’interrogativo su come avvicinarsi alla persona, come entrare in relazione con lei, come poterla aiutare oltre la prescrizione e la cura medica, perché è consapevole che il linguaggio del corpo, il portamento, lo sguardo sono espressione del nostro sentimento e del nostro interesse reale nei confronti di chi ci sta davanti.
Sono nove le storie narrate che hanno un titolo nominativo, sei sono di donne che sono state ricoverate nell’ospedale, due sono di uomini.
Poi c’è Frau Dr Baumgarten, capo medico di Antonella “dritta, austera, sicura” che compare nella storia di due uomini ricoverati Herr Wraber e Herr Steiner, che manifestavano sintomatologie depressive analoghe ma derivanti da malattie differenti. Alcune di queste storie non si concludono con diagnosi di demenza, ma sono occasione di interrogativi e relative spiegazioni nel dialogo tra Antonella e Maria Teresa, per dissipare i rischi di diagnosi fuorvianti.
Le storie di donne hanno però un potere di attrazione e coinvolgimento maggiore, forse perché anche la stessa identità femminile dell'autrice, porta a cogliere e condividere di più gli stati d’animo.
Le due storie- raccolte nello stesso capitolo- di Frau Weller e Frau Schwank, entrambe colpite da mania di persecuzione, sono occasione per Maria Teresa per fornire la sua preziosa spiegazione, perché tale atteggiamento compare spesso nelle persone con demenza in particolare nelle donne, che sono comunque la maggioranza tra i pazienti con questa patologia
Per Frau Weller, conquistata dai capelli ricci della dottoressa Santuccione, fu esclusa alla fine la presenza di demenza , ma diagnosticata come una personalità paranoide.
Per Frau Schwank era la diffidenza verso tutti quelli che la circondavano che alimentava la sua mania di persecuzione: cieca per una cataratta e sorda non aveva più alcuna possibilità di controllare chi le stava attorno e rischiava di traslocare dal suo ricco attico con vista sul lago di Zurigo ad una casa di riposo, anche se di lusso. Solo una rovinosa caduta a terra la convinse a seguire il consiglio di Antonella e chiedere l’immediato ricovero in una clinica oculistica per togliere quell’impedimento e ritornare a vivere nel suo attico.
Per due donne Frau Ruetli e Sofia la diagnosi di demenza fu certa sin dall’inizio.
Frau Ruetli era stata una giornalista della CNN in Brasile. Si era accorta di trovare difficoltà a ricordare le parole giuste per esprimersi, limitazione che, per una professionista come lei, rappresentava un ostacolo insormontabile. Una prima diagnosi era stata di afasia progressiva primaria su cui Antonella chiede una spiegazione alla neuroscienziata. Dopo numerosi esami con un continuo peggioramento della condizione fisica e psichica, la sua angoscia si manifestò con un pianto a dirotto, ascoltando uno dei pazienti che suonava il piano.
Il libro ci offre un altro prezioso contributo di Maria Teresa che cerco di riassumere.
La patologia di Alzheimer, una delle cause più frequenti di demenza porta ad una progressiva perdita di sinapsi e massa cerebrale per due molecole tossiche che si accumulano nel cervello, Tau e Beta amiloide, che portano alla riduzione progressiva di memoria e di altre funzioni. Ma dice la neuroscienziata “Mentre la maggior parte dei ricordi svanisce la memoria per la musica è una delle ultime a sparire. Pazienti in fase della malattia molto avanzata sono ancora un grado di suonare uno strumento se musicisti e intonare le loro canzoni preferite” ...perché il ricordo della musica è conservato in una rete di neuroni localizzati in lobi che vengono colpiti molto più tardi dalla patologia. Purtroppo per Frau Ruetli ci fu una progressione costante della malattia che richiese il ricorso agli antipsicotici.
Sofia una signora svedese, a quarant’anni, nel 2016 si rivolse al Centro di Zurigo ove Maria Teresa era appena arrivata con una diagnosi di Demenza di Alzheimer “genetico”. Antonella già lavorava in quella città.
La demenza di Sofia era ereditaria, ma poiché colpiva persone molto giovani queste non erano inserite nei casi clinici da studiare. Così fu risposto a Sofia, preoccupata per le sue figlie.
La comparsa all’orizzonte di Sofia contribuì alla nascita del progetto di cui Antonella, con Maria Teresa sono state fondatrici: il “Women’s Brain Project”e di cui Sofia ne è oggi ambasciatrice.
Due considerazioni finali.
Le storie di donne e uomini narrate nel libro “Una bambina senza testa” sono- come già detto- sintesi di casi clinici raccolti in pubblicazioni scientifiche. Sono però anche occasione per parlare di argomenti che hanno influenza sulla salute del cervello e della mente, dallo stile di vita al movimento fisico, dalle relazioni famigliari (Greta) ai traumi fisici e psichici (Frau Berzoni), con la demenza, nelle sue varie forme, sempre come punto di riferimento.
Il libro oltre al dialogo continuo “amicale/ scientifico” tra Antonella e Maria Teresa inserisce le storie narrate in un diario personale di Antonella, su cui, con Zurigo come sfondo, si snoda la sua vita di donna, moglie e madre, di cui racconta timori e paure, gioie e dolori. Da un episodio doloroso nasce anche questo titolo un po’ misterioso. Antonella dichiara di avere un obiettivo: combattere tutti i pregiudizi che riguardano le malattie mentali e del cervello, lo stigma che colpisce le persone che ne sono affette.
*********************************
Di Antonella Santuccione Chada e Maria Teresa Ferretti parleremo ancora perché le due scienziate sono cofondatrici dell’organizzazione non profit “Women’s brain project”, Santuccione Chada oggi amministratore delegato e Maria Teresa Ferretti responsabile scientifica.
Questo progetto è una tappa importante perche indaga sull’influenza che il DNA e i ruoli di genere vissuti e/o imposti dalla nostra società hanno sulle malattie del cervello e della mente. Ha come scopo lo studio della specificità dei due sessi, maschile e femminile nelle malattie neurologiche e psichiatriche al fine di adottare cure e terapie personalizzate con gli strumenti e le metodologie della medicina di precisione.
È significativo che sin dall’antichità le patologie del cervello e della mente che colpivano le donne fossero attribuite al demonio e come tali condannavano senza appello la vittima alla morte con i metodi più atroci. Anche sintomi di malattie della mente come l’isteria trovano origine, anche nell’etimologia, in un organo femminile come l’utero, in greco “histera”.
Per una medicina attenta alle specificità di genere e di sesso c’è ancora molta strada da percorrere, ma, dicono le due scienziate, è tempo di abbandonare preconcetti e superstizioni: le patologie che colpiscono le donne non sono malattie immaginarie né opera del diavolo. Serve solo studiare, con strumenti, ricerche e indicatori mirati la differenza e la specificità di sesso e di genere.
Antonella Santuccione Chadha, medico specialista in patologia clinica, neuroscienze e disturbi psichiatrici dopo varie esperienze (e riconoscimenti) post laurea in contesti e paesi diversi ha operato per alcuni anni come medico all’interno dell’ospedale psichiatrico di Zurigo, città in cui ancora risiede per poi interessarsi di farmaci, di biotecnologie e di malattia di Alzheimer.
In Svizzera è stata indicata dal 2018 tra le “Top 100 Women” e nel 2019 è stata eletta donna dell’anno dalla rivista "Women in Business". Nel 2020 le è stato conferito il Premio Mondiale per la Sostenibilità, condiviso con il WBP. Ha ricevuto il Premio medicina Italia per la sua partecipazione nel management della pandemia da Covid-19.
Maria Teresa Ferretti, laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche è una neuroscienziata, che ha svolto ricerche e studi in Università in Inghilterra, Svizzera e Canada. Qui ha conseguito un dottorato di ricerca in Farmacologia e Terapia Farmacologica all’Università McGill di Montreal nel 2011. Esperta in Alzheimer e medicina di genere, studia in particolare la connessione tra il cervello e il sistema immunitario. Attualmente insegna all’Università di Vienna.
Santuccione e Ferretti hanno pubblicato recentemente, unitamente alla psicologa Annemarie Schumacher Dimech “ Sex and gender differences in Alzheimer’s desease” in cui sono presentati i risultati del lavoro svolto dal WBP per documentare la differenza di sesso e di genere per poter giungere a diagnosi e cura della malattia di Alzheimer personalizzate.
- Autore/rice Lidia Goldoni
- Categoria: Libri
Torna Teresa Battaglia, la commissaria di polizia, e la sua battaglia contro il morbo d’Alzheimer che la sta braccando nel nuovo thriller "Figlia della cenere".
Ilaria Tuti, la sua ideatrice, ha scelto sin dall’inizio di misurarsi sul piano letterario per offrire un racconto credibile e avvincente e sul piano sociale parlando di Alzheimer, di violenza sulle donne, di culture maschiliste di cui “La ragazza dagli occhi di carta” come scrivevo tempo fa su questa pagina, forse è stato il promemoria e il programma di lavoro per le opere successive, ma anche un test sul gradimento dei lettori.
In questa nuova avventura, Ilaria Tuti sembra voler raccontare tutto il passato di Teresa, di cui ci ha distillato tanti flash back che facevano intuire la violenza subita dal marito, che qui per la prima volta, assume un nome, una fisionomia specifica, i tratti di una personalità brutale e prevaricatrice fino alle estreme conseguenze.
E quella violenza diventa occasione di una riflessione di Teresa sul perché avesse accettato tutto questo.
La commissaria dimostra però, nonostante le sue dolorose esperienze, la sua disponibilità a capire i comportamenti anche dei criminali più efferati, perché nel racconto entra un serial killer che fece arrestare proprio quando lei fu vittima della brutalità del marito.
La narrazione è distribuita su epoche diverse, dal IV secolo ai giorni attuali, con un ancoraggio e una sosta significativa a ciò che era successo 27 anni prima, quando Teresa rischiò la vita per la violenza subita dal marito e incontrò il serial killer.
Fu allora che cominciò a formarsi anche la squadra dei collaboratori ed amici di Teresa, che ancora lavorano con lei, come il medico legale Antonio Parri a cui si sono aggiunti Marini, De Carli, Parisi e forse anche Alice e il cane Smoky.
Fu allora che Teresa s’incontrò anche con chi continuerà ad ostacolarla come il questore Albert Lona e con chi diventerà un personaggio chiave negli avvenimenti dell’oggi.
Se gli attori del libro sono più o meno gli stessi cambia però lo scenario, la location si direbbe oggi.
Se negli altri racconti il paesaggio erano le montagne del Friuli, con i boschi e i fiumi in cui Ilaria Tuti riusciva a darci la sensazione di immergerci nei rumori e nei profumi, in “Figlia della cenere” lo scenario è un monumento costruito nei secoli, in strati sovrapposti, dall’uomo: la basilica di Aquileia.
La basilica ha alla sua origine una commistione tra il culto isiaco portato dall’Egitto dai primi cristiani aderenti allo gnosticismo.
Ilaria Tuti nell’alternare gli eventi del IV secolo utilizza le esigenze narrative del thriller per trasmetterci il fascino di quel monumento. Il tappeto mosaicale, il più antico dell’era cristiana o forse precristiana e le strutture utilizzate per la visita dei turisti e dei fedeli diventano parte integrante del racconto.
Se negli altri libri sentivamo il rumore del bosco, qui possiamo quasi ascoltare i cori e le conversazioni dei primi fedeli che le più recenti ricerche fanno risalire ad un’epoca precristiana.
Poi, forse per deformazione professionale mi sembra di vedere una liana che l’autrice nelle ultime pagine lancia oltre l’Alzheimer.
Gli accorgimenti e gli stratagemmi che Teresa sta adottando, per sopperire alle défaillance di memoria che il morbo di Alzheimer comporta, fanno presagire che Teresa non si arrenderà e con il supporto della sua squadra di collaboratori, riuscirà a offrire loro la sua capacità di entrare nella mente e nella personalità del reo che sta cercando.
In un’intervista Ilaria Tuti afferma che ha già pensato come fare uscire di scena Teresa Battaglia, sopraffatta (?) dall’Alzheimer. In realtà mi sembra di cogliere un’altra àncora lanciata alla Commissaria. Forse non avrà più questo incarico, ma sarà sempre una protagonista di altri racconti.
Perché forse il mandante attuale del serial killer, che per la prima volta agisce su commissione, indica una nuova avventura. Quale sarà il ruolo di Teresa?
Attendiamo la prossima puntata.
- Autore/rice Lidia Goldoni
- Categoria: Libri
Leggendo il titolo di questo libro di Antonio Pinna si pensa subito, agli ospedali, ai medici, agli infermieri. Ci sono anche questi sicuramente, ma davanti a loro in prima linea ci sono le persone che sono state contagiate da COVID in forma grave o meno grave, ma anche letale e ci sono i loro caregivers, quelli che oggi sono stati chiamati “gli assistenti familiari”.
Perché sono molte le pubblicazioni uscite in questi mesi sull’epidemia, la maggioranza scritte da esperti o professionisti, poche dalle persone coinvolte, dai loro familiari.
Nel libro di Pinna il cannocchiale lo manovrano le persone che hanno avuto a che fare con il COVID e/o che sono state emarginati dalle cure. Perché di queste e delle loro esigenze parla il libro.
Però la storia dell’autore aiuta a capire molto delle considerazioni riportate, a volte solo sfumature, e dello stile adottato nella stesura del testo, molto essenziale ma non sbrigativo.
Antonio Pinna è un ex preside, un giornalista pubblicista, un sardo di Ghilarza, paese di Antonio Gramsci come lui ricorda più volte, potrei dire con orgoglio, richiamandone alcune riflessioni
Tre anni fa ha pubblicato un libro “Il mio viaggio nella SLA- Un percorso di conoscenza e condivisione dei problemi dei malati”, partecipe consapevole della gravità di questa patologia essendone stata colpita la sorella Claudia, morta nel 2012, ma ben lungi da solleticare pietismo e compassione.
Pinna è un testimone del mondo della non autosufficienza, delle fragilità, degli aiuti che servirebbero e non arrivano, ma pure delle tradizioni di Ghilarza in cui erano le donne a prendersi cura degli altri, anche con il baliatico. Di questo spaccato di popolazione e di dolore se ne parla negli articoli dei giornali, nei libri, nei telegiornali, ma solo come coloro ai quali dovrebbero arrivare le dosi di vaccino, la disponibilità di posti letto, la cura a domicilio.
Lo spazio per parlare di loro è quello che le Associazioni di rappresentanza riescono a conquistare, ma difficilmente sono protagonisti.
Il libro ha tre piani di lettura.
Inizia con la descrizione di ciò che successe nel nostro Paese nei primi mesi del 2020, quando gli ospedali erano saturi, il numero dei morti giornaliero in continuo aumento, i viaggi delle bare alla ricerca di una tumulazione. E tutti noi eravamo stravolti ed anche sbigottiti che un’epidemia, che collocavamo solo nei secoli scorsi, potesse colpire la nostra digitalizzata e istruita società.
Una seconda parte descrive quel periodo e il successivo sino ai giorni nostri e dietro al cannocchiale ci sono le persone fragili i disabili, gli anziani non autosufficienti, i vecchi ricoverati nelle RSA che diventano, forse neppure involontariamente il simbolo di tutto ciò che non ha funzionato per allontanare da ognuno di noi qualsiasi colpa, anche quella di non contribuire in maniera corretta a fornire il paese delle risorse necessarie ad esempio per il servizio sanitario.
Le RSA però sono anche un banco di prova per molti attori della cura e del prendersi cura, termine a cui Pinna dedica un’interessante ricerca etimologica.
Aggiungendo che “Il nostro fascismo emotivo nei confronti degli altri è stato alimentato dalla diffidenza...... e (Margareth Tacher e Ronald Reagan) ci “hanno voluto convincere che la società non esiste, esistono solo gli individui”.
Nel libro Pinna riporta poi molte delle osservazioni e anche denunce fatte dalle associazioni dei disabili e in difesa dei diritti dei cittadini per proteggere i disabili dall’allarmismo, per introdurre misure di salvaguardia della loro salute fisica e psichica, anche durante i lockdown.
La terza parte del libro parla degli assistenti familiari, siano essi componenti del nucleo originario o inseriti al bisogno.
Confrontarsi con la disabilità di bambini o di adulti è ogni volta come attraversare una palude di promesse mancate, di lotte quotidiane per ottenere piccoli sostegni indispensabili per la vita delle persone. Pinna conosce bene questo mondo e si fa più volte latore di queste richieste.
Parlando di caregiver si entra in un mondo di persone che hanno la vita quotidiana e la visione del futuro legata alle sorti del famigliare che accudiscono.
Pinna sia parlando della cura e dei caregiver, delle (poche) protezioni di cui le persone con disabilità possono godere, sia dell’esordio della pandemia, riesce a non cadere nella trappola della diffusione di allarmismo o di diffidenza.
Tutto il libro infatti può essere anche consultato come un compendio, un “bignamino” come si diceva a scuola, di tutte le norme importanti che vigono nel settore, senza essere pedante o burocratico ma collegandole a situazioni specifiche.
Il suo apprezzamento quasi entusiastico per la normativa della Regione Emilia Romagna per i caregiver, per le iniziative che le varie associazioni di famigliari attivano sul territorio, per la stima espressa per la Cooperativa “Anziani e non solo “ di Carpi più volta apparsa anche su questi spazi testimoniano un interesse reale per ciò che di nuovo riesce a scoprire, pronto a divulgarlo e esportarlo.
- Autore/rice Lidia Goldoni
- Categoria: Libri
È stato ristampata dalla casa editrice Tunuè lo scorso anno la versione italiana della graphic novel o con termine più comprensibile il fumetto “Rughe” di Paco Roca, un autore spagnolo che con questa opera ha vinto premi in tutto il mondo. Dal fumetto è stato tratto anche un lungometraggio di animazione che ha partecipato anche agli Oscar.
“Rughe” (nella lingua originale “Arrugas”) racconta la storia di un vecchio, Emilio, che mostra i primi sintomi dell’Alzheimer.
Vive da solo in casa propria e ha un figlio sposato, che non sopporta le perdite di memoria e i comportamenti, indotti dalla malattia, del padre.
Dopo una burrascosa lite il figlio cerca una residenza che possa accogliere Emilio, che vi sarà velocemente trasferito.
Qui inizia la sua “nuova vita”. Conosce gli altri residenti, più o meno danneggiati dalla malattia, si adatta alle regole della struttura con tutte le loro ripetitività, impara che qui ci sono percorsi “obbligati”, che accompagnano anche materialmente la progressiva perdita di autonomia.
Questa è la storia di Emilio ma il suo dipanarsi nel libro e nel film accosta momenti di tristezza e compassione a teneri ritratti degli ospiti, a gag umoristiche, anche nella loro “cattiveria”
Avendo frequentato per anni le residenze assistenziali per anziani è stato inevitabile anche cogliere quelle condizioni di vita a cui i residenti, devono adattarsi, perdendo, anche per questo, tanta parte della loro autonomia: i grandi saloni con la TV che, quando funziona e non ha lo schermo annebbiato, propone sempre gli stessi programmi. Sempre i documentari sugli animali, dice Miguel un altro residente che fa, con qualche buon tornaconto, il maggiordomo che accoglie i nuovi ingressi.
Poi gli altri momenti che scandiscono la vita delle persone: la distribuzione delle medicine con qualche approssimazione, le attività ricreative assolutamente illogiche, la preparazione per andare a coricarsi dopo cena, la lunga fila per non dover aspettare delle ore prima che arrivi un operatore disponibile.
Questo tono umoristico, più immediato nel lungometraggio che nel libro, credo sia utile anche per togliere il tono della predica e far immedesimare nella realtà delle residenze assistenziali.
Alla fine, letto il fumetto e visto il lungometraggio mi sono chiesta se questi non potevano divenire materiale di studio per gli operatori di assistenza, (dall’ASA all’OSS, all’infermiere sino all’educatrice e alla terapista occupazionale, magari anche i medici) nei corsi di formazione e aggiornamento. Quanti di loro, nel tirocinio o nel lavoro, hanno saputo cogliere quanto annullamento dell’identità possa esserci in un servizio che non riconosce che ogni persona, anche quella più compromessa dall’Alzheimer, possa comunque avere qualche momento di lucidità o la percezione del disagio e dell’annullamento? Potrebbe essere una buona esercitazione!
- Autore/rice Lidia Goldoni
- Categoria: Libri
“Perso e ritrovato- storie di famigliari che affrontano la demenza” è un libro curato e pubblicato dall’associazione Novilunio, con il coordinamento editoriale di Eloisa Stella, che dell’Associazione è vicepresidente e co-fondatrice unitamente a Cristian Leorin il presidente.
È stato difficile scegliere come presentare questo libro “Perso e ritrovato” perché ogni storia raccontata ha una sua identità, una sua collocazione, che non può essere riassunta, non può essere ridotta in alcune righe, per non farne un racconto incolore.
Sono ventiquattro “video” più o meno lunghi di un’esperienza vissuta da un coniuge, un figlio o una figlia improvvisamente messi di fronte ad un famigliare progressivamente distrutto da una forma di demenza.
Perché qui, tra l’altro, protagoniste sono spesso forme rare ( o poco conosciute) di demenza, per le quali le diagnosi arrivano con ritardo, spesso dopo anni, anche se l’esordio si manifesta il più delle volte in persone giovani, nel pieno della loro maturità, della loro carriera lavorativa, del loro coinvolgimento in relazioni famigliari strutturate.
Ho, alla fine, scelto di raccontare queste storie con una frase del testo, un “fermo immagine del video” tra le ventiquattro “instantanee” che il narratore/ narratrice ha scritto che più mi ha colpito, mi ha fatto riflettere, mi ha aiutato e confermato che nel legame tra famigliare/ caregiver e persona con demenza si instaurano sempre rapporti unici, non ripetibili e non standardizzabili.
Perché in ogni persona con demenza c’è sempre una storia individuale e famigliare che riemerge spesso anche nel decorso della malattia, perché come dice Leorin nella prefazione ci vuole “ fatica e coraggio nel raccontare parti così intime e personali del loro contesto familiare”.
Aggiunge Eloisa “Il concetto di perdita del titolo (del libro N.d.R.) però non si riferisce al diffuso stereotipo della demenza che concentra il suo sguardo solo su quello che manca…mentre dimentica che la parte più importante che va preservata è la persona tutta”... “ L’aspetto che vogliamo cogliere è il cambiamento che ogni familiare vive sulla sua pelle”....... ma soprattutto hanno scoperto che si può uscire dalla gabbia dello sconforto chiedendo aiuto”.
Il primo "fermo immagine" è su una moglie e una figlia
- Eleonora e Francesca presentano Sandro, 50 anni, il protagonista con la sua demenza frontotemporale. Eleonora racconta quella visita medica che ha aperto uno spiraglio e conclude: “Grazie dottore per avermi ascoltata e per aver dato un primo senso a tutto ciò che sta accadendo .... Sono sicura che qui avremo ascolto e sostegno - ed è di questo che noi abbiamo bisogno”
-Francesca, la figlia- “Faccio fatica ad amare quella persona che continua a cambiare dentro al corpo del mio papà. Ci provo e, a volte, ultimamente ci riesco anche, ma faccio davvero fatica”.
-Alessandra- “La malattia mi ha fatto accettare che questo ruolo si è invertito. Da mamma che era guida, esempio sei diventata dipendente, inerme inconsapevole......”
-Bruno e Elisa- Nulla può essere dato per scontato-“Sono arrivato a rendermi conto che non ce la faccio da solo” “Bisogna chiedere aiuto”
-Elena- “Poi sopraggiunge la rabbia. Io non credo di non poter mai dire ci sia stata accettazione da parte mia. Trovare rifugio nel gruppo di auto mutuo aiuto… “… oggi mi sto chiedendo chi ha il dritto di decidere che devo abbandonarlo?”
-Cristina- (da quattro anni nel gruppo di auto mutuo aiuto di Novilunio)
“La ripartenza diventa più semplice se trovi un gruppo che cammina con te e ti sostiene…”
-Daniela- (rivolgendosi alla madre) “Il momento più brutto nella tua malattia iniziale quando mi hai confuso con tua sorella…”
-Lidia (il marito con demenza precoce)-“L’affetto raggiunge il suo cuore, se non il suo cervello”
-Nieves- José è ancora lui…c’è ancora. Lo sguardo attento, la capacità d’ascolto, la tenerezza, la vicinanza”
-Luigina- Io, caregiver, di fronte una demenza a Corpi di Lewy e poi raccogliere le idee e cominciare a scrivere”
-Giuseppe- (Anna) la moglie “È ancora lei la mia “Stella Polare, quella che.. mi dà e mi sostiene per l’apparizione di una pazienza che non mi riconoscevo”
-Emanuela- “Mi sono affidata a lui (Gesù). La pace significa per me trovare la calma nel mio cuore, tra il rumore e la tempesta, la calma la si trova nei nostri cuori”
-Lorena “L’importante è farsi aiutare”.” Chiedere aiuto a un’assistente familiare mi ha anche permesso di mantenere vivi i miei interessi come il volontariato nella mia comunità”
-Irene- “Il fatto che il suo cervello sia ammalato non toglie dignità e senso alla vita della persona”.
-FDC- IO /Solitudine/Accettazione (…mai totalmente)
TU un eterno presente per me e te.... C’è un ordine nuovo nello scorrere del tempo.
-Ramira- Robinson Crusoe abbandonati su un’isola sperduta
-Julia- Sono consapevole del fatto che devo trovare la forza e le soluzioni dentro
-Annalisa e Sofia- L’aspetto positivo di tutte queste fatiche è che ho capito di riuscire a fare tutto: sono in grado di decidere per me stessa, per mio marito e per tutto il resto della famiglia.
-Melina- A molti sembrerà assurdo, ma oggi sono serena Sono assorbita dall’assistenza a mio marito ma ho tanta pace nel cuore
-Valeria- La mia mamma c’è perché c’è il suo corpo…..La mia mamma non c’è più perché quella che era la sua personalità – i gesti tipici, il carattere, le espressioni del viso, le reazioni- sono stati cancellati quasi totalmente
- Autore/rice Lidia Goldoni
- Categoria: Libri
Un’altra storia di bambini, di persone disperate, di boschi pieni di misteri ma anche di informazioni, fascino e attrazione. È un paesaggio analogo a quello di “Fiori sopra l’inferno”, alla foresta di Travenì, il libro che ha fatto conoscere Ilaria al grande pubblico, assicurandole un immenso successo internazionale. Di quei personaggi ci sono tracce anche in “Luce della notte”, con Andreas, il bimbo di quella storia.
Ilaria Tuti è ritornata con un libro- testimonianza a parlarci di Teresa Battaglia, la commissaria che conduce la sua battaglia per risolvere i crimini ma pure per contrastare un mostro che incombe su di lei: la malattia d’Alzheimer.
La protagonista- oltre al Teresa Battaglia e al suo ispettore Marini- è una bimba Chiara, colpita da una malattia genetica che la costringe a fuggire dalla luce del sole e vivere di sera, con luci artificiali. Chiara passeggia nel bosco circostante l’abitazione di notte e parla con gli alberi, fino a quando scopre che qualcuno ha ferito un tronco. tracciando solchi che hanno scorticato il fusto. I ritrovamenti diventano sempre più tragici senza che se ne trovi il bandolo.
Con Chiara c’è la madre che cerca di alleggerire il peso che la figlia si porta appresso perché anche se così piccola ha già conosciuto le discriminazioni, le cattiverie verso i “diversi” i “fragili” che sembrano espresse dai bambini, ma in realtà inspirate dagli adulti.
C’è un padre Alessandro che sembra essere una delle possibili ragioni di quella atmosfera plumbea.
Poi c’è tutto il paese, le figure principali come Pieri e le comparse.
Tutto sembra allacciarsi ai tragici avvenimenti, che quelle zone di confine vissero a metà degli anni 90 del secolo scorso durante la guerra nell’ex Jugoslavia tra le varie repubbliche ed etnie.
Allora c’era una “rotta balcanica” che coinvolgeva profughi non nell’estremo oriente, , come ora, ma delle varie regioni ex Yugoslavia sconvolte da una feroce pulizia etnica contro i musulmani.
Nel libro appaiono tanti riferimenti a quel periodo: le ronde delle popolazioni locali per tenere lontano i profughi, i campi di “accoglienza”, il rimpatrio. Niente di diverso da quanto succede ora in Croazia e Bosnia.
Il racconto trova poi la sua strada nell’avventurarsi in quella tragica storia per dipanare il groviglio di indizi e prove che la squadra di Teresa Battaglia ha raccolto, organizzato e inserito in un quadro di violenze, miserie e corruzioni.
È un libro che ha due agganci, uno letterario che già si è detto nel libro “Fiori sopra l’inferno” e uno alla realtà di questi mesi con la situazione dei campi profughi della Bosnia e della Croazia.
I protagonisti sono ancora una volta i più fragili: i bambini e le bambine, le donne profughe ricattate, i disperati a cui era stato sottratto tutto ciò che possedevano, senza dar niente in cambio, se non botte e torture. Fragile è anche Teresa Battaglia perché sta conducendo da sola una lotta contro la sua malattia.
Poi Ilaria riesce, come anche negli altri suoi romanzi a trovare uno spiraglio positivo nelle conclusioni, che alzano la coltre di angoscia che si aggira su tutto il libro, proprio forse per le ragioni che l’hanno inspirato.
PS. “Luce della notte” è un libro dedicato a una bambina Sarah, morta precocemente. Tutti i proventi saranno devoluti al Centro di riferimento oncologico di Aviano, a favore della ricerca e in memoria di Sarah.
- Autore/rice Lidia Goldoni
- Categoria: Libri
“La storia di Ina”, un romanzo ancorato alla tutela dei diritti dei più fragili, siano essi bambini, disabili, persone interdette e mai più “liberate”.
L’autore non poteva che essere Paolo Cendon, già professore ordinario di Diritto Privato nell’università di Trieste, presidente di “Diritti in movimento” e come si autodefinisce un “debolologo” nel suo ultimo libro “I diritti dei più fragili” qui su PLV.
Il libro ha però una sua identità che richiede di essere valutata per il suo valore letterario e culturale.
Perché come ogni testo può essere letto con lenti diverse, perché ognuno di noi cerca in un libro messaggi che lo coinvolgono, emozioni da condividere.
La struttura del libro è a più voci: c’è la voce narrante dell’avvocato, amico del professore, che segue la pratica ufficiale e racconta in prima persona, anche con il supporto del “diario personale” del professore; poi c’è la narrazione della storia dove Ina e M. sono personaggi protagonisti “in terza persona”, con un corollario di altre figure che girano loro attorno.
Ina è una ragazza che ha avuto un’infanzia difficile, di cui porta ancora tracce fisiche invalidanti, che cerca di trovare una sua strada nel mondo.
Dopo una drammatica esperienza di violenza sessuale subita da un ragazzo straniero, si rivolge al suo ex professore di diritto, individuato nel libro semplicemente con l’iniziale del cognome M. per chiedere un’assistenza legale per sporgere denuncia.
Ina è una ragazza giovane, bella, che segue le proprie inclinazioni e i propri desideri con naturalezza e sincerità e, dopo aver abbandonato l’università, cerca una sua strada.
Ha un rapporto disinibito con il proprio corpo che l’accompagna sin dall’adolescenza.
M. è vedovo, sui sessant’anni ben portati, con “lineamenti armoniosi, viso magro, voce profonda” un ruolo professionale apprezzato, un rapporto altalenante con i figli, che, dalla morte della moglie non ha più cercato rapporti sentimentali.
Il rapporto tra Ina e M. si costruisce a piccoli passi, in cui la denuncia di violenza via via si allontana nello sfondo, sino alla conclusione concordata, ma tutta la rete di condivisioni di momenti e emozioni, esperienze anche professionali (Ina lavora nello studio di M) ha creato un legame diverso, di complicità e qualcosa che intreccia fiducia, rispetto, affetto e amore.
Attorno a loro girano tutti gli altri protagonisti. Molti di loro portano una immagine di umanità fragile, anche quando sembrano essere dalla parte della ragione.
Il fratello di Ina è autistico e ricoverato in un istituto, il figlio di M. non accetta questa relazione del padre sino a promuovere azioni giuridiche, i colleghi del professore “approfittano” delle occasioni per screditare il professore che ha sempre difeso i diritti dei più fragili, fossero interdetti nei manicomi o sottoposti a tutele non giustificate.
La storia tra Ina e M. procede in fasi alterne, che vedono la ragazza cercare altre vie d’uscita. Si danno ancora del “lei” o del “tu” con una logica non chiara.
Questa atmosfera di un rapporto costruito su tanti episodi, senza prevaricazioni, con dolcezza e disponibilità restituisce un’atmosfera di tenerezza e il messaggio che un amore, qualunque sia la natura e l’origine, porta sempre serenità anche in chi lo legge.
Poi c’è il prof Cendon che discute, si arrabbia -tramite M. -con i giudici tutelari e gli accademici, con chi non difende i più fragili, chi non vuol capire le difficoltà altrui, chi applica la legge senza ragionarci sopra.
Forse però questi episodi portano anche un appesantimento del libro, perché, pur riconoscendo che sono molti i temi troppo spesso elusi o non considerati, molti i soprusi, i torti e le angherie della “giustizia ufficiale”, nell’economia del testo rischiano di essere un po’ troppi, quasi un pretesto per parlare di tutti i diritti non rispettati.
Quando M. s’interroga su quanto poco della vita difficile delle persone deboli, delle loro lotte quotidiane arriva alle cattedre universitarie o agli scranni dei giudici emergono la sensibilità e i valori dell’autore.
Perché parafrasando il “Questionario delle cento domande da fare nel visitare gli ospedali e le unità dei lungodegenti” del King’s Fund Center (1980) quando si arriva alla fine della visita, quando si deve emettere una sentenza che limita un diritto bisogna sempre chiedersi “A me se fossi “fragile” piacerebbe essere trattato in questa maniera?”