VOCI DALLA RETE - BUONE PRATICHE

Voci dalla rete - Buone pratiche

Voci dalla rete - Buone pratiche

  • Pippi Calzelunghe, la metafora delle potenzialità che i bambini riescono a far emergere anche nei momenti più difficili

    ida accorsiNel precedente articolo avevo, solo brevemente, nominato Pippi Calzelunghe, la bambina protagonista dell’omonimo romanzo, dotata di una forza prodigiosa, che, per quarant’anni è stata l’unica eroina femminile, (oltre ad Atalanta di Gianni Rodari) non stereotipata della letteratura per ragazzi.
    Conosciamola meglio, questa favolosa Pippi . Tutto iniziò settanta anni fa.
    […] “Ma che storia vuoi che ti racconti?” chiese Astrid Lindgren alla figlia Karin, che le rispose: “Raccontami la storia di Pippi Calzelunghe”.[…]

  • "Groviglio di vipere": l'attualità del libro di François Mauriac

    diana catellaniDa un po’ di tempo, mi sono messa a rileggere i libri che ho nelle varie scaffalature di casa e qualche giorno fa mi è tornato tra le mani “Groviglio di vipere” di F. Mauriac (titolo originale: Le noeud de vipères) pubblicato nel 1932. Il volumetto in mio possesso, con le pagine ormai ingiallite, appartiene alla collana Oscar Mondadori ed è costato 350 lire!!
    È come una lunga lettera che un avvocato di successo, che si sente alla fine dei suoi giorni per una grave angina pectoris, scrive alla moglie con la quale ha avuto sempre un rapporto fatto di incomprensioni reciproche e di ostilità feroce. Quella lettera vuole essere l’ultima occasione per farsi capire, per far conoscere il vero se stesso a colei che gli è vissuta accanto per tanto tempo senza che i loro cuori potessero incontrarsi.
    Così l’avvocato ripercorre la sua vita: era orfano di padre e solo grazie alla sagacia e allo spiccato senso degli affari della madre aveva potuto studiare, conseguire la laurea e diventare poi un avvocato di successo. Le sue umili origini e la successiva ricchezza avevano radicato in lui uno smodato amore per il denaro che lo fa ritenere avaro ed egoista.
    Conosce, quando ormai è ricco e famoso, una bella ragazza di cui si innamora e si sposano. Lui è felice, si sente amato, ma poco dopo le nozze lei, in un momento in cui è in vena di sincerità, gli rivela quale fortuna sia stata per lei averlo incontrato, quando ormai tutti in famiglia disperavano di poterla accasare, visto che era stata lasciata dal suo precedente fidanzato.

  • "Piccoli vagabondi": il romanzo neorealista di Gianni Rodari

    ida accorsi“Piccoli vagabondi” rappresenta un’eccezione nella vasta produzione di Gianni Rodari, il suo primo romanzo d’impostazione neorealista, poco conosciuto e ingiustamente troppo a lungo ignorato.
    È il 1952 quando Gianni Rodari, pubblica per «Il Pioniere», il primo episodio di un racconto a puntate dal titolo Piccoli Vagabondi. Solo successivamente, e cioè nel 1981, la storia venne raccolta in volume da Editori Riuniti, diventando così ufficialmente "romanzo". Si tratta di una scrittura fortemente realistica, non lascia nessun spazio alla fantasia, ma al contrario intende fornire una diagnosi lucida, della realtà e della storia nel momento stesso in cui accade.

  • “Quasi amici - la badante di quartiere”: un esperimento per contrastare l’isolamento

    rita rambelliChe ci piaccia o no è sempre più chiaro a tutti che quello delle “badanti”, quasi sempre straniere, è un modello che ha colmato un grande vuoto organizzativo da parte delle istituzioni e che si è diffuso a causa anche degli alti costi e insufficienza di posti nelle strutture residenziali.
    Risulta però altrettanto evidente che questo modello va ripensato perché il sistema assistenziale basato sulle badanti vede tutto il “peso” sia economico, sia morale che organizzativo, interamente sulle spalle delle famiglie che stanno autonomamente cercando altre soluzioni che se non riducono i costi rispetto alla badante, abbassano almeno lo stress organizzativo (ferie, assenze, festività, ecc.) e questo spiega il dilagare in alcune zone dell’Emilia-Romagna delle case-famiglia.
    La sfida oggi quindi è innovare e in particolare migliorare i servizi pubblici che devono essere più veloci, più comodi e sempre più personalizzati.
    Accanto alle necessità assistenziali non devono sfuggire all’attenzione i nuovi bisogni legati alla vita sociale, alla necessità di sentirsi attivi ed utili: le persone che mantengono autonomia e capacità di condurre una vita attiva anche a tarda età sono sempre più numerose e ad esse deve essere data l’opportunità di viverla pienamente.
    Alcuni Comuni si sono attivati per sperimentare nuove modalità di sostegno alle famiglie, finalizzato a ridurre i costi e nello stesso tempo cercando di dare un aiuto alle persone anziane senza sostituire completamente le loro capacità residue.

  • “STORIA DEL GALLO SEBASTIANO ” ovverosia” IL TREDICESIMO UOVO

    ida accorsi

    [Perché due più due deve sempre far quattro? Non potrebbe far cinque una volta tanto?]
    Un meraviglioso romanzo, una bella storia, un "antico" libro per "nuovi" ragazzi:
    di Ada Gobetti (scritto nel 1940 - che visti i tempi - aveva dovuto pubblicarlo con lo pseudonimo Margutte) una riedizione con le illustrazioni di Ettore Marchesini, la prefazione di Goffredo Fofi, - Roma 2019 Edizioni di Storia e letteratura.
    Storia del gallo Sebastiano è il primo libro scritto da Ada Gobetti dopo la morte di Piero e in pieno regime fascista. Fu l’intercessione di Benedetto Croce, (che l’aveva conosciuta a Napoli quando lei e il giovane Gobetti andarono a trovarlo durante il viaggio di nozze), a propiziarne la pubblicazione, allora con Garzanti.

  • 1920-2020 - 100 anni di Gianni Rodari

    ida accorsiQuello che doveva essere l'anno delle grandi celebrazioni rodariane ha incontrato sulla sua strada l'inaspettata emergenza mondiale. Mi sono chiesta tante volte in queste settimane: cosa avrebbe detto il Maestro Gianni?? Forse, come aveva fatto di fronte ad altre sciagure e ingiustizie, ne avrebbe preso atto, tenendo in mano la penna e nella mente la speranza. Così, tra chiusure e difficoltà si continua a ricordarlo, e, ognuno come può, a onorarlo.
    Maggiormente in questo momento sento il bisogno di rileggere Rodari il poeta, lo scrittore, il visionario, sempre dalla parte dei ragazzi, che ha regalato al mondo opere indimenticabili e la più bella e rivoluzionaria delle verità: la fantasia ci rende liberi.
    Per lui conversare con i ragazzi era una necessità per capirne i comportamenti e per penetrare nella loro psicologia; un’occasione per ricevere stimoli e collaudare quanto andava scrivendo. Voleva che il suo lavoro nascesse dalla base. Non gli bastava guardare il mondo, desiderava andargli incontro ed entrarci.
    Gli alunni, non conoscendolo di persona, al primo impatto subivano il fascino del personaggio e perdevano la spontaneità, ma Rodari cercava subito di smitizzare facendosi chiamare “Gianni”, poi con battute spiritose, si metteva sul loro stesso piano; creava il bisogno di sapere e aiutava a penetrare concetti profondi con linguaggio comprensibile e coinvolgente. Era un improvvisatore formidabile, un comico nato. Si vantava, con una punta di orgoglio, di assomigliare un po’ a Totò.
    A scuola con Gianni RodariAnche quando raccontava più volte uno stesso fatto o una favola, introduceva varianti compiendo un lavoro sul lavoro.
    Usava espressioni popolari, sfruttava i luoghi comuni, immetteva nella narrazione dati ambientali o ‘rubati’ all’interlocutore, toccando gli argomenti verso i quali gli adolescenti erano più sensibili e interessandosi ai loro vissuti.
    Pur avendo in mente certi obiettivi, operava senza uno schema fisso. Era un maestro in tutti i sensi, stava a scuola con lo spirito dell’allievo che vuole apprendere dagli altri, sapeva ascoltare e dare consigli pratici agli insegnanti, senza per questo considerarsi depositario di verità assolute. Non volendo mai dire una parola conclusiva, era continuamente disponibile alla verifica.
    Insegnava senza imposizioni: scherzando, gareggiando, stuzzicando la curiosità, in quell’atmosfera l’aula diventava un vivace luogo di ricerca, un laboratorio di invenzioni fantastiche.
    Con lui non esistevano problemi di disciplina. Si guadagnava l’autorità e induceva al rispetto delle regole con l’intelligenza, la cultura, la simpatia, l’amicizia, tra le sue finalità vi era quella di rendere i bambini autonomi, sinceri, capaci di pensare in maniera diversa l’uno dall’altro.
    Il suo grande credo era di fare della scuola un momento di vita.
    Educatore, che sentiva la scuola come la sua grande famiglia, è stato tra i più convinti difensori dei diritti dei bambini.
    Dopo tutta questa lunga presentazione, voglio parlare della sua opera più importante la “GRAMMATICA DELLA FANTASIA - Introduzione all’arte di inventare storie” - l’unico suo volume teorico, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1973 da Giulio Einaudi Editore
    Nasce ufficialmente a Reggio Emilia (città che Rodari apprezzò molto in quanto le sue scuole accoglievano a braccia aperte lui e le sue idee; frequenti le sue visite in Emilia Romagna) dalla paziente trascrizione a macchina da parte di una stagista di alcuni appunti rimasti a lungo dimenticati. Gli appunti in questione, scritti intorno agli anni 1940, facevano parte della raccolta del "Quaderno della fantasia". Vennero recuperati in seguito a un convegno che si tenne proprio nella città emiliana dal 6 al 10 marzo 1972.
    L'opera si sviluppa in 45 capitoli.
    Nella quarta di copertina della prima edizione, si riportavano queste parole dell'autore:
    "Quello che io sto facendo è di ricercare le "costanti" dei meccanismi fantastici, le leggi non ancora approfondite dell'invenzione, per renderne l'uso accessibile a tutti. Insisto nel dire che, sebbene il Romanticismo l'abbia circondato di mistero e gli abbia creato attorno una specie di culto, il processo creativo è insito nella natura umana ed è quindi, con tutto quel che ne consegue di felicità di esprimersi e di giocare con la fantasia, alla portata di tutti."
    Da questa ricerca, che Rodari ha condotto per molti anni, è nata la Grammatica della fantasia, una proposta concreta che intende rivendicare all'immaginazione lo spazio che deve avere nella vita di ciascuno.
    Tra i tanti capitoli cito quello dell’ L'errore creativo dedicato alle potenzialità creative e pedagogico-didattiche dell'errore. Difatti, secondo Rodari in ogni errore riposa la possibilità di una storia come testimonia l'esempio della scarpina di Cenerentola che invece di essere di pelliccia, per un errore di trascrizione, è diventata una fantastica scarpina di vetro. Come già aveva sostenuto nel suo Libro degli errori, persino l'errore ortografico può offrire lo spunto per ogni sorta di storia dai risvolti comici o anche essere l'occasione per un'istruttiva riflessione come nel caso della parola I-ta-glia, nella quale quella brutta g appare come un eccesso nazionalistico. Molti errori dei bambini, poi, sono in realtà creazioni autonome, utili ad assimilare una realtà sconosciuta. Sono errori che fanno ridere e ridere degli errori, ci fa riflettere Rodari, è già un modo di prenderne le distanze. Inoltre un'unica parola può suggerire innumerevoli errori e quindi innumerevoli storie. Per esempio, dalla parola automobile potrebbe derivare ottomobile, altomobile, ettomobile, autonobile, ecc.
    Pertanto Rodari ritiene che il proverbio "Sbagliando s'impara" dovrebbe essere rimpiazzato da uno nuovo che dica "Sbagliando s'inventa".

    ^^^
    L'AUTONOBILE
    Pareva una macchina
    precisa a tante altre,
    invece, ecco qua,
    si scopre che è un'autoNobile.
    Sarà marchesa, contessa,
    baronessa,
    chissà.
    Dallo stato delle gomme,
    dalla ruggine della carrozzeria
    sospetto che si tratti
    di una nobiltà
    decaduta alquanto.
    Non dubito che ai suoi bei giorni
    sia stata ricevuta
    a corte, con la meglio aristocrazia;
    che abbia avuto dame di compagnia,
    il maggiordomo, l'ancella
    il lacchè,
    Sarà stata anche bella
    il giorno delle nozze..
    Ma adesso l'aspetta lo sfasciacarrozze.
    Tuttavia, tuttavia,
    è sempre un'autoNobile:
    lo puoi vedere dalle buone maniere,
    dalle maniglie fini e affusolate
    dalle povere portiere sgangherate.

  • Anziani in vacanza. Il turismo non ha età

    rita rambelliA me piace molto viaggiare e non ritengo che essere considerati “turisti” sia un problema di età perché sempre più persone pensano che l’età della pensione sia proprio il momento ideale per viaggiare e vedere tutte le bellezze naturali ed artistiche che esistono nel mondo. La vita si è allungata ed anche le caratteristiche e le esigenze delle persone. Il sistema turistico italiano è consapevole dell’importanza che può costituire il turismo della Terza Età, ma spesso gli “anziani” sono considerai ancora solo dei riempitivi per i periodi della bassa stagione, ma non li si considera un target privilegiato ed in molti casi in grado di spendere. In generale si ritiene che gli anziani siano più “vecchi” di quanto loro realmente non siano o non sentano di essere. Le ricerche più recenti hanno sfatato molti dei miti legati alla terza età e in particolare occorre prendere atto che gli anziani:
    • non vogliono essere considerati persone non attive, deluse e sole,
    • né vogliono essere considerati persone che sono a pieno titolo membri della società,
    • non vogliono essere chiamati vecchi, o pensionati, ma sottolineano una sostanziale continuità con la stagione di vita precedente,
    • non possono essere incasellati in un gruppo unico, perché sono piuttosto un aggregato di esigenze eterogenee,
    • amano riconoscersi individualmente, desiderano proposte e servizi personalizzati, e non vogliono essere ghettizzati.

  • Anziani prigionieri? Una riflessione sulla realtà di questi mesi e qualche ipotesi per un futuro diverso.

    rita rambelliMi sono interrogata spesso ultimamente sulle modalità di prevenzione che sono state adottate nelle strutture per anziani e disabili in questi mesi. Me lo sono chiesto anche perché lo sto vivendo personalmente avendo una sorella, Anna, gravemente disabile fisicamente, ma normale intellettualmente, che vive in RSA da circa 20 anni e che da un oltre un anno non esce da quella struttura, prigioniera, per motivi di sicurezza sanitaria.
    Io e gli altri familiari eravamo abituati a portarla fuori più volte alla settimana, festeggiare con lei le festività, restare con lei nella sua camera o in giardino a chiacchierare e bere caffè; tutto questo da un anno non è più possibile, e lei è comprensibilmente molto stanca e demoralizzata.
    Quella dove vive Anna è una struttura piccola, 25 ospiti, fortunatamente molto ben gestita e hanno superato questi mesi senza nessun caso di Covid. Nelle scorse settimane sono stati tutti vaccinati, sia gli ospiti che gli operatori, ma ancora, e non sappiamo per quanto, noi non possiamo entrare né tanto meno uscire con lei: ci parliamo solamente in video chiamata ed è molto difficile giustificare questa lunga attesa e sostenere il suo morale.
    Riepiloghiamo come sono andate le cose in questi mesi dal gennaio 2020:
    9 gennaio 2020: riunione del Tavolo tecnico del Coronavirus a Roma
    • 20 febbraio: il “paziente 1” all’ospedale di Codogno
    • 22 febbraio: al Nord ordinanza per la chiusura di scuole e chiese
    • 24 febbraio: Veneto, Liguria, Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia
    consigliano “di limitare l’accesso degli ospiti delle Rsa”
    • 5 marzo: entra in vigore il Dpcm Conte che limita l’accesso dei visitatori nelle strutture di lunga degenza
    • 8 marzo: il governo emana il lockdown in tutta Italia.
    Da allora, tranne qualche breve spiraglio durante il periodo estivo durante il quale abbiamo potuto incontrare Anna, previo appuntamento, uno alla volta, a distanza e per 30 minuti, le cose non sono cambiate.
    Nonostante migliaia di anziani e disabili di fatto siano imprigionati dentro le loro strutture da oltre un anno, il virus è entrato ugualmente perché lo hanno portato dentro gli operatori, spesso poco professionalizzati e in meno di due mesi le cronache ci dicono che nelle Rsa di Brescia sono morti 1.800 ospiti; in quelle di Milano 1.700, in quelle di Bergamo oltre 1.300.
    Il fenomeno dell'istituzionalizzazione riguarda in Italia circa 300 mila persone e ma alla luce dei fatti risulta chiaro che tutta la legislazione riguardante le così dette 'case di riposo' va modificata, privilegiando strutture più piccole, rivisitando gli spazi e l’organizzazione, ricreando, nei limiti del possibile, un clima familiare e rassicurante, così da non perdere le residue capacità di autonomia funzionale e relazionale delle persone accolte.
    Come è stato per la riforma sui manicomi, dovremmo pensare al superamento delle strutture attuali dandoci un arco di tempo utile, ma non lunghissimo, (diciamo entro la fine del 2026), con contemporaneamente la messa in campo di misure che aiutino le famiglie o i singoli nella permanenza in casa, allargando l’assistenza domiciliare, aumentando i sostegni economici e riducendo i costi legati alla regolarizzazione delle persone che forniscono assistenza a domicilio. (come le cosiddette badanti, oggi al 60% in nero e senza nessun controllo).
    Quando poi non fosse possibile mantenere la persona anziana o disabile nella sua casa, dovremmo pensare a strutture che siano il più possibile vicine ai luoghi di residenza e che non ospitino più di 15/20 persone; dotate di tutte le soluzioni tecnologicamente avanzate di domotica e telemedicina. Queste nuove strutture possono essere qualificate con prevalenza sanitaria, sociale o socio-sanitaria ma devono avere requisiti minimi di residenzialità, camere singole, giardini e terrazzi, palestre per la riabilitazione, sale per l’intrattenimento e le attività del tempo libero.
    In questa direzione sta andando anche il Governo, come risulta da un recente comunicato Ansa del Ministro Orlando che dice:

    (ANSA) - ROMA, 15 MAR - Il Governo punta a finanziare la riconversione delle case di riposo per gli anziani molto diffuse sul territorio in gruppi di appartamenti autonomi, dotati delle attrezzature necessarie e dei servizi attualmente presenti ovvero la creazione di reti che servano gruppi di appartamenti non adiacenti, assicurando loro i servizi necessari alla permanenza in sicurezza della persona anziana sul proprio territorio. Lo ha detto il ministro del Lavoro Andrea Orlando in una audizione al Senato sulle linee programmatiche del ministero e il PNRR (Piano Nazionale Ripresa e Resilienza) spiegando che "elementi di domotica, telemedicina e monitoraggio a distanza permetteranno di aumentare l'efficacia dell'intervento".
    La dimensione dell'"abitare assistito" - ha detto - è cruciale anche nel cambiare le prospettive dell'intervento in favore delle persone in condizione di marginalità estrema e senza dimora, oggetto di politiche fortemente disomogenee a livello territoriale, spesso limitate solo a interventi emergenziali.
    Con le risorse del PNRR (Piano Nazionale Ripresa e Resilienza) - ha detto ancora - sarà possibile superare tale situazione con investimenti mirati a livello territoriale, da realizzare attraverso i comuni titolari dei servizi sociali territoriali, in particolare quelli di dimensioni maggiori e/o facenti parte di un'area metropolitana, nell'ottica cosiddetta dell'housing first, ossia assistenza alloggiativa temporanea ma di ampio respiro, fino a 24 mesi, per coloro che non possono immediatamente accedere all'edilizia residenziale pubblica, affiancata da un progetto individualizzato volto all'attivazione delle risorse del singolo o del nucleo familiare, con l'obiettivo di favorire percorsi di autonomia". (ANSA).
    Immaginare un mondo diverso per chi invecchia è possibile e ci riguarda tutti e credo che tutti dovremmo contribuire a renderlo reale!!

  • Anziani? Solo a partire dai 75 anni

    rita rambelliLa Società Italiana di Gerontologia e Geriatria ha annunciato che si diventerebbe anziani a 75 anni, cioè che i vari miglioramenti delle condizioni di vita renderebbero oggi le persone di quell’età equivalenti per “forza fisica” a una persona di 55 anni nel 1980, e forse è così per molti che come me vanno regolarmente in palestra e fanno attività fisica, ma se mi chiedessero cosa per me conta di più, al primo posto non metterei la forza fisica, ma la memoria e la capacità di ragionare e non la forza ma l’indipendenza fisica.
    Alcuni mesi fa, il più importante centro di indagini demoscopiche americano (Pew Research Center) si diede l’obiettivo di capire cosa pensano le persone sulla vecchiaia, e in particolare quando pensano che abbia inizio. Le scoperte furono anche un po’ sorprendenti.
    Lavorando con un campione di 3mila persone tra i 18 e gli ultra-sessantacinque anni scoprivano che negli Stati Uniti le persone pensano che in media si diventa vecchi a 68 anni (sotto i trent’anni si pensa che si sia vecchi a 60). In realtà, più si è avanti con l’età e più si sposta in avanti l’età della vecchiaia: chi ha più di 85 anni dice che la vecchiaia inizia a 74 anni. Per le donne si diventa vecchi a 70 anni, mentre per gli uomini a 66. Tra le persone di età compresa tra 65 e 74 anni sono il 20% quelle che si sentono vecchie e sono il 35% quelle si sentono vecchie pur avendo più di 75 anni.

  • C'era due volte il barone Lamberto: l’uomo il cui nome è pronunciato resta in vita

    ida accorsiIdaLamberto“C'era due volte il barone Lamberto”: l'intera narrazione si svolge attorno allo spericolato tentativo, messo in atto dal barone novantaquattrenne insieme al fido maggiordomo Anselmo, di evitare un ormai inevitabile trapasso.
    L'isola di San Giulio, il Lago d'Orta e i suoi dintorni sono protagonisti, insieme al barone, del racconto: non solo il paesaggio lacustre, ma anche molti dei circostanti centri abitati (da Verbania, a Domodossola, a Gravellona Toce) vengono citati a più riprese in quella che pare una piccola ode alla provincia natale di Gianni Rodari.
    In effetti, per chi abbia visitato l'isola – sede di un monastero benedettino e percorsa da suggestive mulattiere, lungo le quali regnano il verde e il silenzio – non è difficile pensarla come la custode di qualche mistero, come quello che permette al facoltoso barone di restare in vita e che in parte resta velato anche alla fine del libro.
    Di ritorno da un viaggio in Egitto, durante il quale hanno consultato un vecchio mago, Lamberto e Anselmo scelgono accuratamente e assumono sei persone: esse hanno il compito (per il quale sono largamente ricompensate) di ripetere senza sosta, a turno e in gran segreto, il nome del barone; dopo qualche tempo, il corpo di quest'ultimo comincia inspiegabilmente a ringiovanire: la morte, così prossima a Lamberto prima del viaggio in Egitto, sembra allontanarsi sempre di più, per lasciare spazio a una seconda giovinezza che il barone trascorre praticando ogni tipo di attività fisica. Ma qualcuno non sembra entusiasta della curiosa trasformazione: il nipote Ottavio, ansioso di mettere le mani sull'eredità dello zio, e i cosiddetti Ventiquattro Elle, un gruppo di banditi senza scrupoli che irrompono sull'isola e prendono in ostaggio il barone... Il crescendo narrativo sarà inaspettatamente risolto dall'intervento di Delfina, l'unica fra i sei 'dipendenti' di Lamberto (tenuti all'oscuro del fine per il quale sono chiamati a ripetere il suo nome) che si chieda insistentemente il perché della propria strana occupazione.
    In “C'era due volte il barone Lamberto” (come del resto in molte delle altre opere di Rodari) la leggerezza dello stile non deve ingannare: molti sono gli spunti di riflessione suggeriti da questa spassosa vicenda, che più volte nel corso della lettura regala al lettore di qualunque età sorrisi molto divertiti.
    Estremamente significativo, ad esempio, è il personaggio di Delfina, nettamente contrapposto a quello del barone: mentre Lamberto ha passato i propri 'primi' novantaquattro anni a fare e pensare ciò che gli altri gli imponevano, e quindi non ha mai davvero seguito le proprie aspirazioni, la ragazza dimostra di non lasciarsi influenzare dalla superficialità e dall'indifferenza altrui, e non rinuncia mai a ragionare con la propria testa, preferendo interrogarsi sempre sul perché delle cose. Delfina è l'unica dei molti personaggi del libro a non essere una macchietta (spesso lo è perfino Lamberto, infantilmente occupato a recuperare il tempo perduto).
    Un altro intrigante spunto di riflessione è dato dall'osservazione del carosello che si crea attorno e all'interno dell'isola, i cui toni grotteschi si accentuano quando Lamberto diventa ostaggio dei Ventiquattro Elle.
    La folla, i politici, i direttori delle banche di proprietà del barone e i loro segretari, giornalisti e fotografi, il barcaiolo Duilio e perfino i bambini: tutti diventano parte di uno spettacolo in cui interpretano se stessi, e, al contempo, sono descritti in modo tale che la peculiarità di ognuno, accentuata fino al ridicolo, ne sdrammatizza la maschera, togliendole credibilità.
    Questa è una delle grandi doti di Rodari, tanto preziose dal punto di vista educativo: apparentemente non c'è giudizio nel suo affrescare situazioni e persone, nemmeno quando si tratta di un omicida come Ottavio; il giudizio certo è presente, ma non determina i contorni del personaggio. La maschera, in altre parole, resta una maschera: nel suo essere immancabilmente fedele a sé stessa risulta tanto ridicola da non richiedere più nemmeno un'esplicita condanna morale da parte di autore e/o lettore. La mancanza di un marcato giudizio moraleggiante è uno degli ingredienti che determinano l'intelligente leggerezza propria degli scritti rodariani.
    In “C'era due volte il barone Lamberto”, la morte è una presenza discreta ma costante: nel soprannome del barcaiolo Duilio, chiamato Caronte, nella continua minaccia da parte di Ottavio e dei Ventiquattro Elle, nel pretesto narrativo che sta alla base stessa del racconto e che è costituito dal tentativo del protagonista di sfuggirle... e nel punto centrale della vicenda, in cui il barone, inevitabilmente, muore. Si tratta di un momento estremamente interessante, soprattutto per la sobrietà e la semplicità con cui Rodari lo descrive: "Egli respira a fatica, sente che la gola gli si stringe, acuti dolori gli scoppiano nel petto. Allunga la mano per tirare il cordone del campanello e non ci riesce. Vorrebbe chiamare Anselmo, ma la bocca è come murata. [...] «Dormono, - pensa il barone, - e io muoio». Ma non fa in tempo a spaventarsi, perché è già morto."
    Nel brano c'è pathos, non dramma; c'è tempo per la sorpresa, ma non per la paura: tutto ciò è inusuale, per la nostra contemporaneità, eppure estremamente importante perché sia favorito, nel bambino, un rapporto 'adulto' con l'idea del trapasso.
    Ben più complesso del morire sembra essere il vivere, misteriosamente reiterato dal fatto che "l'uomo il cui nome è pronunciato resta in vita” (1): forse il segreto di Lamberto sta nella sensazione tanto speciale che si prova a sentir pronunciato il proprio nome: come dice il barone, "dà soddisfazione, come a grattare dove prude"...

     Incipit (2)

    “In mezzo alle montagne c'è il lago d'Orta. In mezzo al lago d'Orta, ma non proprio a metà, c'è l'isola di San Giulio. Sull'isola di San Giulio c'è la villa del barone Lamberto, un signore molto vecchio (ha novantatré anni), assai ricco (possiede ventiquattro banche in Italia, Svizzera, Hong Kong, Singapore, eccetera), sempre malato. Le sue malattie sono ventiquattro. Solo il maggiordomo Anselmo se le ricorda tutte. Le tiene elencate in ordine alfabetico in un piccolo taccuino: asma, arteriosclerosi, artrite, artrosi, bronchite cronica, e così avanti fino alla zeta di zoppía. Accanto a ogni malattia Anselmo ha annotato le medicine da prendere, a che ora del giorno e della notte, i cibi permessi e quelli vietati, le raccomandazioni dei dottori: «Stare attenti al sale, che fa aumentare la pressione», «Limitare lo zucchero, che non va d'accordo con il diabete», «Evitare le emozioni, le scale, le correnti d'aria, la pioggia, il sole e la luna».

    Epilogo (3)
    Le favole di solito cominciano con un ragazzo, un giovinetto o una ragazza che, dopo molte avventure, diventano un principe o una principessa, si sposano e danno un gran pranzo. Questa favola invece comincia con un vecchio di novantaquattro anni che alla fine, dopo molte avventure, diventa un ragazzino di tredici anni. Non sarà uno sgarbo al lettore? No, perché c’è la sua brava spiegazione.
    Il lago d’Orta, nel quale sorge l’isola di San Giulio e del barone Lamberto, è diverso dagli altri laghi piemontesi e lombardi. È un lago che fa di testa sua. Un originale che, invece di mandare le sue acque a sud, come fanno disciplinatamente il Lago Maggiore, il Lago di Como e il lago di Garda, le manda al nord, come se la volesse regalare al Monte Rosa, anziché al mare Adriatico.
    Se vi mettete a Omegna, in piazza del Municipio, vedrete uscire dal Cusio un fiume che punta diritto verso le Alpi. Non è un gran fiume, ma nemmeno un ruscelletto. Si chiama Nigoglia e vuole l’articolo al femminile: la Nigoglia. Gli abitanti di Omegna sono molto orgogliosi di questo fiume ribelle e vi hanno pescato un motto che dice in dialetto: La Nigoja la va in su / e la legg la fouma nu. (in italiano: La Nigoglia va all’insù/e la legge la facciamo noi.)
    Mi sembra detto molto bene. Sempre pensare con la propria testa. Si capisce che poi, alla fine dei conti, il mare riceve le sue spettanze: difatti le acque della Nigoglia, dopo una breve corsa a nord, si gettano nello Strona, lo Strona le porta al Toce che le versa nel lago Maggiore e di qui, via Ticino e Po esse finiscono nell’Adriatico. L’ordine è ristabilito. Ma il lago d’Orta è contento lo stesso di quello che ha fatto. È sufficiente come spiegazione di una favola che obbedisce solo a sé stessa? Speriamo di sì.
    Resta poi da aggiungere che i ventiquattro direttori generali delle Banche Lamberto, rientrati nelle loro sedi, si affrettarono ad assumere persone di ambo i sessi e a pagarle perché ripetessero a turno, giorno e notte, i loro riveriti nomi. Speravano così di guarire dalle loro malattie e di far camminare il tempo all’indietro. Invano. Chi aveva i reumatismi, se li doveva tenere. A chi era calvo, non spuntò alcun capello in capo, né biondo né bruno. Chi aveva compiuto i sessantacinque anni, non recuperò un solo minuto. Certe cose succedono una volta sola. A dire la verità, poi, certe cose possono succedere solo nelle favole.
    Non tutti saranno soddisfatti della conclusione della storia. Tra l’altro non si sa bene che fine sarà Lamberto e cosa diventerà da grande.
    A questo, però, c’è rimedio. Ogni lettore scontento del finale può cambiarlo a suo piacere, aggiungendo al libro un capitolo o due. O anche tredici.
    Mai lasciarsi spaventare dalla parola.
    +++++++++

    Note
    (1) cit.Pag.23
    (2) pag. 7
    (3) pagg. 100/101

    C'era due volte il barone Lamberto adatto a bambini dai dieci anni in su. Editore Einaudi

    Schermata 2020 11 19 alle 12.42.26

     

     

     

     

     

     

     

     

     Edizione 2010-Illustrazioni Altan

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  • Casa Morando. Una piccola storia del rapporto con la creazione

    alberto terrileL’obiettivo della vita umana è raggiungere il luogo in cui si stabilisce il collegamento tra l’uomo e la natura . R.W. Emerson 1836
    Il nuovo carattere vulnerabile della natura sottoposta all’azione dell’uomo ci impone
    una responsabilità verso di questa. Oggi, di fatto, è modificato, nella sua complessità, proprio il rapporto uomo-natura.
    L’equilibrio è, definitivamente, compromesso nel momento in cui l’agire umano irrompe nel non umano e la dimensione umana diventa sempre più produzione di una dimensione artificiale a prescindere e a scapito di quella naturale.
    “Perciò  se l’animo si distoglie dalle cose umane e si rivolge alle piante, agli animali, ai minerali, non è affatto un errore, come a volte si sente dire. Quell’atto può essere il segno di un puro sforzo di autoconservazione, il desiderio di prender parte ad un’esistenza superiore. Se le fontane si disseccano si va al fiume. Lì non è necessario credere ,il prodigio è palese.
    Ernst Junger
    Anni addietro iniziai a collaborare con "Casa Morando" interagendo con la dottoressa Rosanna Vagge con la quale condivido una nuova visione etica e a questo riguardo desidero raccontare una breve storia.
    Una donna anziana , ospite della residenza Antonio Morando, era spesso triste e demotivata , non riusciva a interagire con la comunità. Aveva una storia contadina alle spalle, una storia che profumava di stagioni , di alberi in fiore e di animali che liberi si muovevano nell'aia del suo piccolo podere.
    Rosanna decise che forse portare nel giardino della struttura due galline e un gallo avrebbero potuto sortire un effetto migliore rispetto a qualsiasi trattamento farmacologico antidepressivo. La donna tornò a sorridere e prese a stare meglio di giorno in giorno, aveva ritrovato il senso di quella che era stata la sua vita prima di consegnarsi all'ultimo capitolo dell'esistenza.
    Questo evento diede il "LA" e la casa cominciò lentamente ad ospitare diverse specie. Ogni animale a casa Morando ha il suo nome, ve li presento:
    Grace è un' oca dal carattere difficile, Rosy un'oca buona e dolce , Angy è l' anatra, Germano, il gallo, Anita e Zoe sono le galline più grosse mentre Gertrude è una gallina piccola mamma dei pulcini Qui Quo Qua ( di colore chiaro) e Emi, Evi, Eni ( di colore scuro) .
    Poi c'è la Gatta rossa Vittoria, Cesare un gatto cieco e ancora mamma gatta Tinetta e l'altro figlio Topo sempre in giro assieme a un altro gatto di nome Eugenio .
    Cosa significa per me l'espressione "fotografia etica" e come lavoro da fotografo
    L’orientamento verso questo tipo di fotografia l'ho vissuto nella forma di una vera e propria richiesta interiore in relazione a quello che stava accadendo alla fotografia negli ultimi decenni.
    Le riviste stavano pubblicando troppe immagini di superficie, molto compiacenti e autoreferenti, in virtù di una fotografia che faceva perno sul nome dell'autore rispetto al servizio che avrebbe dovuto avere.
    Ritengo sia doveroso in certi casi fare un passo indietro e attraverso il nostro occhio lasciare che il mondo si mostri nel suo splendore come nelle sciagure. L'autore deve con maggior umiltà mettersi al servizio dei contenuti.
    La mia missione è raccontare le storie del mondo e dell’uomo. Ho sempre avuto un animo orientato all’etica, il primo debutto è stato nel 1993 a Bagdad, ero partito con un’associazione benefica ed ero il fotografo di questa spedizione. Volevo fare un reportage, ho fotografato tanti volti convinto fosse giusto portare un messaggio, cioè che, nonostante la guerra, la vita continuava, primeggiando sul dolore, sulla morte, su tutta la bruttezza che una cosa atroce come un conflitto può generare .
    Quando sono rientrato in Italia ho consegnato il servizio a un’ agenzia milanese che mi rappresentava assieme a tanti altri fotografi ma tutte le testate interpellate lo rifiutarono perché non era sottolineato il dolore di quella gente.
    Avevo fotografato delle persone che continuavano a sopravvivere ma i loro sorrisi e la loro fierezza nei confronti della vita non avrebbero incrementato interesse nei lettori, mancava la tragedia, il dolore e quella retorica di cui si servono i media.
    Da quel momento mi sono fatto tante domande. Mi sono reso conto che certa fotografia pratica una vera e propria “pornografia del dolore”.
    Chi fa immagine ha una grossa responsabilità. Le nostre fotografie raggiungono ogni angolo del globo e per questo secondo me c’è bisogno di rivedere l'aspetto etico.
    Certo l’estetica e la composizione hanno e avranno sempre una parte molto importante, ma resta la necessità di un messaggio, di un contenuto.
    In questo senso l’estetica deve procedere mano nella mano con l’etica.
    Con questo tipo di sguardo sono tornato ieri a casa Morando per mostrarvi la bellezza delle piccole cose, l' incanto di uomini e animali nella cornice di un piccolo spazio adornato con piante e fiori, un luogo animato d'umanità e semplicità.

  • Centro aggregativo "I Saggi". Anticipazioni sul programma 2018/2019

    È questa solo la prima tappa di un viaggio all’interno di un’esperienza di un centro aggregativo per anziani “ I saggi “ di San Cesario sul Panaro, un piccolo Comune della pianura modenese, attivo dal 2013.
    Ne parlammo al suo avvio nel 2013 con l’allora assessora del Comune, ora coordinatrice del Centro Maria Borsari. Andremo in tappe successive ad approfondire alcuni aspetti di questa esperienza che mi sono apparsi significativi , (come richiamato nelle “Mille Parole”) non solo per l’esperienza in sé, ma per lo spunto che possono dare per discutere di comunità, di reti, di integrazione tra le diverse fasce di cittadini, in particolare quelli più a rischio di emarginazione.
    Gli anziani, ormai si ripete in tutte le occasioni, tra pochi decenni saranno il 25% della popolazione. Non si possono ignorare le implicazioni, in tutti i cari campi della società.
    Per non perdere la prima informazione questo mese si annuncia il programma che partirà a settembre.

  • Che stress le vacanze di Natale, ragionando sul sistema scolastico inglese

    diana catellaniSono a Londra e si sta avvicinando il Natale. Quest'anno trascorrerò qui le prossime feste, perché mia figlia, avendo cambiato lavoro di recente, non può prendersi tante ferie, inoltre Samuele deve affrontare una serie di esami, una delle tante di cui è costellata la sua ancora breve, ma intensa carriera scolastica.
    A quali criteri pedagogici si ispira una scuola che sottopone a continui stress i ragazzi?
    La prima preoccupazione degli insegnanti all'inizio di ogni ciclo scolastico sembra quello di schedare gli alunni, dividendoli in tre gruppi a seconda del rendimento. Ogni gruppo viene sottoposto a programmi diversificati, ma poi al momento degli esami le prove sono uguali per tutti, per cui quelli che per tutto l'anno si sono cimentati con test di alta difficoltà si trovano facilitati nel superamento dell'esame, mentre gli altri si trovano di fronte a richieste cui non sono abituati e il risultato è facilmente prevedibile.
    Attorno a questi esami ruota un colossale giro d'affari, infatti la scuola non assegna compiti per le vacanze, ma si sa che al rientro ci saranno test importanti. Ecco perciò le famiglie alla ricerca affannosa di eserciziari sulle varie discipline, eserciziari per ogni livello di preparazione, che però contengono sempre al loro interno una serie di test totalmente fuori misura rispetto alle capacità dei bambini cui l'eserciziario è destinato, con il risultato che i genitori entrano in ansia: se il loro figlio non riesce a superare quei test allora sarà bocciato!!!! Ed ecco che acquisteranno nuovi libri con un livello più alto di difficoltà e ricorreranno ai tutor, con un costo di 45 sterline all'ora!!!

  • Claudia: la mia esperienza come caregiver

    Claudia Ferrari“Non riesco più a riconoscere i volti delle persone, per me sono tutti uguali” mi dice Gianni con l’aria angosciata. Allora io gli chiedo “Anche il mio viso non riconosci? ““No, il tuo no e qualsiasi cosa succeda io il tuo viso lo riconoscerò sempre, e se non lo riconoscerò guardandoti lo riconoscerò toccandoti”
    Questo è Gianni, che mi sorprende sempre. Un’ondata di emozione mi avvolge. Lo abbraccio, nascondendo il volto sulla sua spalla per non far vedere le lacrime sul mio viso.
    Gianni è mio marito, ha 77 anni, siamo sposati da quasi cinquanta ed è malato di Alzheimer da quasi nove anni.
    Io sono la sua caregiver a tempo pieno.
    Quando eravamo giovani lui diceva sempre che da vecchi mi avrebbe protetta e si sarebbe preso cura di me. Nel rapporto di coppia lui era sempre stato il più forte e sembrava naturale che lo fosse anche da vecchio. Ma il destino ha rimescolato le carte ed è toccato a me occuparmi di lui. Non ero preparata per questo compito, ho imparato sul campo e non sapevo se ce l’avrei fatta.
    Ero la donna più impaziente dell’universo e ho imparato l’arte della pazienza così come tante altre cose. Per amore si cambia e si impara.
    Gianni è molto fragile e ha bisogno del mio appoggio costante e della mia supervisione in tutte le azioni della vita quotidiana. Nel suo ambiente è orientato nello spazio ma non nel tempo, la memoria a breve è completamente bruciata ed è lentissimo in tutte le sue azioni, anche nel parlare, ma è rimasto vigile e cosciente di quello che succede a lui e intorno a lui, è ancora curioso della vita ed è come se la sua sensibilità si sia accentuata.
    La malattia è andata avanti molto lentamente, non so se per qualche misteriosa alchimia o se ciò è dovuto al fatto che in tutti questi anni l’ho inondato di stimoli e l’ho ricolmato di amore e di attenzioni. Lo porto sempre con me, dappertutto, parlo con lui in continuazione, gli racconto quello che succede nel territorio, a livello nazionale e internazionale e pretendo che mi dia la sua opinione.
    Ho letto da qualche parte che il lavoro di cura è un lavoro di mani, di cuore e di cervello. È vero e devi sapere di volta in volta a cosa aggrapparti perché le situazioni sono sempre diverse. Se sbagli un approccio te ne accorgi subito perché loro regrediscono cognitivamente e allora cambi strategia. Nel mio caso posso dire di aver molto seguito la ragione del cuore e credo sia stata una scelta vincente.
    Un ruolo importante ha sicuramente avuto anche il contesto in cui viviamo, il fatto che non ci siamo rinchiusi in noi stessi ma ci siamo aperti al mondo, e poi il suo carattere tenace e combattivo e la sua passione per la scrittura.
    Nei primi anni della malattia, quando i ricordi non erano ancora scomparsi, ha scritto la sua autobiografia, per non dimenticare. Con il suo primo libro, Gianni ha scoperto quella che lui definisce “la magia della scrittura”. È vero che gli è sempre piaciuto scrivere, ma ora è stato qualcosa di diverso, un innamoramento vero e proprio e come tutti gli innamorati lui ci si è buttato a capofitto. La scrittura è stata per lui come un balsamo che gli ha dato serenità e ha alleviato le sue ansie e le sue paure. Da qui un secondo libro “In viaggio con l’Alzheimer” nonostante siano aumentate le difficoltà perché non riesce più a tenere la biro in mano, la biro gli sfugge dalle dita e non può più scrivere. Il Sig. Alzheimer, come Gianni chiama la malattia, sta lavorando con un’arma in più: il tempo, quel tempo che scorrendo, accelera la patologia.
    Ma Gianni è tenace e con l’aiuto di una bravissima educatrice, abbiamo trovato il modo di procedere mettendo da parte ancora una volta il Sig. Alzheimer.
    Che altro dire? Io non sono più giovane, il lavoro di cura è pesante, il futuro incerto, sono molto stanca e qualche volta molto triste ma mai depressa. La tristezza mi passa parlando con gli amici, osservando la natura: abitiamo in campagna e attorno a noi c’è un paesaggio splendido, ascoltando la musica, cosa che piace molto anche a Gianni e cucinando cose buonissime. Quando la sera appoggio la testa sul cuscino, mi addormento serena perché so che durante il giorno ho fatto tutto quello che potevo per rendergli la vita migliore e accettabile. Mi bastano il suo sorriso ed il suo sguardo dolcissimo per darmi la forza di andare avanti ed affrontare un nuovo giorno. E poi, voglio essere ottimista, esiste anche la ricerca. Chissà, magari domani, tra una settimana, tra un mese o tra un anno, in qualche angolo del mondo verrà messo a punto un farmaco che rallenterà definitivamente questa malattia. Perché non crederci?

  • Come sono cambiate le nostre abitudini con COVID-19

    rita rambelliCi siamo chiesti in cosa siamo cambiati dopo questa esperienza devastante ed inattesa dell’epidemia mondiale da COVID19? Se solo 8 mesi fa qualcuno ci avesse detto che sarebbe arrivata un’epidemia mondiale che avrebbe messo a dura prova la nostra salute ed anche la nostra vita, quella dei nostri cari e di tanti altri in tutto il mondo, avremmo risposto con un gesto scaramantico ed incredulo, eppure tutto questo è successo e continua a succedere e molte cose sono cambiate fuori e dentro di noi.
    Secondo quanto rilevato dalla ricerca presentata in questi giorni a Milano dalla Associazione Nazionale delle Cooperative dei Consumatori Coop, gli italiani hanno vissuto il periodo del lockdown come in una bolla, aggrappati ai confort domestici e agli affetti familiari dove l’ultima spiaggia di consolazione delle restrizioni è stato il “cibo” e abbiamo riscoperto le regole dei nostri nonni, le 3R: risparmio, rinvio e rinunce.
    Il Covid ha avuto sugli italiani l’effetto di una macchina del tempo trasportandoli avanti e indietro con molta rapidità rispetto alla normale evoluzione dei cambiamenti sociali. Da una parte abbiamo visto e ne abbiamo fatto parte, l’Italia delle rinunce, con l’arretramento della ricchezza pro-capite ritornata ai livelli di metà anni ’90 e la spesa in viaggi trascinata indietro di 45 anni, ai livelli del 1975, quando pochi progettavano vacanze fuori dai confini italiani.
    Dall’altra parte c’è stata invece un’Italia che balza in avanti di 20 anni, velocizzando dinamiche in parte già esistenti, ma che non sarebbero mai cresciute così velocemente come in questi ultimi mesi. E’ questa l’Italia dello smartworking (+770% rispetto a un anno fa), dell’e-grocery, cioè della spesa quotidiana on-line (+132%), ma anche l’Italia della digitalizzazione a tappe forzate, non solo nella sfera privata ma finalmente anche nelle attività professionali (lavoro appunto ma anche didattica, servizi, sanità, video conferenze, ecc.) che genera una crescita stimata di questo segmento di mercato pari a circa 3 miliardi di euro tra 2020 e 2021.
    Il fatto però di vivere in un mondo digitale ha come conseguenza che viviamo in un mondo chiuso e spesso autoreferenziale, come si dice “ce la cantiamo e ce la suoniamo da soli..!!
    L’elemento forse più insidioso però di questa situazione è che il restare prigionieri di situazioni sociali e informative chiuse ed autoreferenziali, diventa terreno fertile per l’informazione di parte e la proliferazione delle fake news e con l’esplosione nell’uso dei social. Il dilagare della fruizione di contenuti “on demand”, l’assenza di un confronto sociale ampio, sono elementi che coinvolgono e coinvolgeranno una parte sempre più ampia della popolazione.
    Tutto si svolge tra le mura domestiche piuttosto che altrove, ci si nutre in casa e si va meno al ristorante (il 41% degli intervistati prevede di ridurre la spesa prevista nel prossimo anno alla voce ristoranti), ci si diverte e si incontrano amici e familiari o a casa propria o a casa loro, ritornando ad antiche abitudini che appartengono ai ricordi di chi di noi ha spento più candeline anche perché adesso abbiamo ricominciato a festeggiare i compleanni in casa e non più al ristorante, accontentandoci di condividere le foto della torta e gli auguri con gli amici di Facebook o di Twitter.
    Nel caso poi dovessero mancare affetti familiari ci si adopera per riempire il vuoto: dai sondaggi risulta che 3,5 milioni di italiani durante il lockdown o subito dopo, hanno acquistato un animale da compagnia e 4.3 milioni pensano di farlo prossimamente. Magari anche perché portare a spasso il cane era una delle poche attività consentite..!
    La casa come salvagente a cui tenersi stretti fa il paio con un’altra costante che distingue ancora nel postcovid gli italiani dagli altri cugini europei: l’amore per il cibo, forse l’unica cosa a cui, anche nell’emergenza e in una evidente contrazione generalizzata degli acquisti, gli italiani non rinunciano.
    La preparazione domestica dei cibi è probabilmente anche la nuova strategia di molti per non rinunciare alla qualità e contemporaneamente alleggerire il proprio budget familiare. Le trasmissioni di cucina sulle Tv e sul web, sono sempre più seguite e molti di noi hanno rispolverato le vecchie ricette delle nonne, compreso il pane, i biscotti o la pizza, tanto che c’è stato un periodo in cui non si trovava più il lievito di birra nei supermercati. Chi l’avrebbe detto sei mesi fa che avremmo dimenticato di fare colazione con il Mulino Bianco….!!

     

  • Coronavirus, insegnaci la solidarietà!

    rosanna vaggePurtroppo sì, è successo, ed ora brancoliamo al buio in piena pandemia.
    Si potevano scegliere strategie migliori, applicare da subito il modello coreano o quello cinese, fare tamponi a tappeto, reperire in tempo utile i dispositivi di protezione individuale, applicare misure di isolamento più restrittive, ma l’unica realtà è che “siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa” per utilizzare le parole di Papa Francesco durante la sua preghiera.
    Ed ora navighiamo al buio, tutti sulla stessa barca, in balia del vento, della pioggia scrosciante e delle onde alte parecchi metri e piangiamo i nostri morti che, ad oggi, 4 aprile 2020, in Italia, hanno raggiunto il drammatico numero di 15362, purtroppo destinato a salire.

  • Dalla Comunità "Ca' nostra" diario di vita di anziani e famigliari in tempo di COVID

    Diario da Ca' nostra in tempo di COVID 19

    Laura Valentini –Presidente della Comunità familiare Ca' nostra
    La comunità familiare “CA’ nostra” nasce nel 2016 da un progetto pilota a livello nazionale.(link)
    Esso si è rivelato vincente in tempi normali, visti i vari benefici raggiunti tra i residenti grazie ad un ricerca di socializzazione e famigliarità, anche alla continua formazione delle assistenti, tramite l’intervento di noi familiari e con il contributo di figure professionali sostenute dall’Associazione G.P.Vecchi, dal Comune di Modena ed dall’Ausl di Modena.
    Da quando si è avuta notizia del Covid19 tuttavia, abbiamo dovuto isolare la casa, limitandoci a depositare le spese, i farmaci, i presidi sanitari, ecc. nell’atrio del palazzo.
    All’inizio questo isolamento forzato è stato vissuto con la grande paura che i nostri cari a lungo andare non ci avrebbero più riconosciute.
    Poi, via via che il tempo passava, abbiamo capito che le assistenti in nostra assenza avevano messo in campo tutte le abilità apprese in periodo “normale pre-Covid”, eseguendo, tra le altre cose, l’utilissima stimolazione cognitiva e motoria in modo esemplare (oltre al necessario lavoro di cura quotidiano).
    Abbiamo quindi attivato le videochiamate attraverso il PC o attraverso il telefono oppure siamo andati a trovarli e parlare loro sul balcone e e noi in cortile; abbiamo visto che la relazione con loro non è stata affatto compromessa!
    Prova questa che non si era verificato il temuto decadimento cognitivo dovuto all’isolamento, perché a Ca’ nostra stanno bene.
    Questo ovviamente ci ha molto rincuorate, soprattutto se pensiamo alla situazione di molti anziani che si sono trovati improvvisamente soli in casa con la badante, o di tante famiglie che sappiamo aver affrontato in solitudine questo tremendo periodo. 
    Per questo anche in questo frangente sono molto felice di poter affermare che a quattro anni dalla partenza, nell’ormai lontano maggio 2016, il progetto Ca’ nostra ha dimostrato di essere una soluzione vincente, nata in tempi non sospetti.

    Nicoletta Cappellini, figlia di Adriana Nicolai.
    La mia mamma è entrata a Ca’ nostra nel maggio 2016.
    Io partecipo con altre figlie e una nipote alla gestione bellissima di quattro persone tra cui mia madre Adriana Nicolai, affette da Alzheimer, che vivono assieme a Ca' nostra.
    Volevo sottolineare che, durante questo assurdo periodo, la vita nella casa è stata gestita da noi parenti e dalle Collaboratrici in modo esemplare.
    Le Assistenti, con premura e attenzione, hanno rispettato le regole dettate ufficialmente, come la protezione individuale con guanti e mascherina, assolvendo le loro attività quotidiane verso i nostri cari per mantenere e migliorare le loro capacità residue sia a livello cognitivo che fisiche, con attività motorie dolci di tutte le diverse parti del corpo e ludiche.
    In questo piccolo paradiso con tutte le regole, le premure e le attenzioni del caso la nostra e loro vita si è proprio mantenuta quasi come sempre, diversa da quella di tanti altri ospiti di case di riposo e CRA di cui tutti noi abbiamo conoscenza!
    E che dire: la cohousing ci ha insegnato che la lontananza rafforza i sentimenti e i buoni propositi.
    Siamo riusciti a comunicare con loro solo con delle "video-chiamate", ma con tante emozioni!
    È un progetto che salva la dignità dei più fragili e ci aiuta a migliorare anche noi mettendo in gioco le nostre capacità personali, a differenza delle strutture, mantenendoci così anche stando forzatamente lontani, più vicini a loro.

    Paola Malagoli, figlia di Oriella Pellati.
    Da quando la mamma è a Ca’ nostra dal 2017 ho percepito soprattutto una grande dignità nella malattia. È un modello in cui viene tenuta presente la persona e non solo la malattia, per spiegarmi meglio: la mamma non è la sua malattia.
    Durante l’esperienza dell’isolamento dovuto al Covid ho percepito i benefici dell’essere comunità.
    Abbiamo preso tutte le decisioni insieme, anche le più forti, assumendocene le responsabilità in prima persona.
    A “Ca’ nostra” non esiste la delega in bianco: questo mi fa sentire partecipe nella cura della mamma e mi fa sentire bene.

    Cecilia D'Angelo nipote di Carmelo.
    l progetto di coabitazione Ca’ Nostra è arrivato per noi in un momento di grossa fragilità e ci siamo trovati davanti a scelte emotivamente molto difficili in merito all'accudimento di mio zio che ha sempre vissuto con la mia famiglia.
    L'unica certezza e desiderio è sempre stato il volergli assicurare il calore familiare.
    Ca’ Nostra è Casa, dove tutti insieme siamo famiglia. Ognuno con il proprio bagaglio ha fatto e si è fatto posto.

    In collaborazione con SPIMo il Sindacato Pensionati Italiani sede di Modena sono stati realizzati tra gli altri due documentari di cui uno durante la quarantena per il COVID-19.

  • Dedicato ad una persona amata

    rosanna vaggeNon l’avrei mai detto, e nemmeno mi è mai passato per la mente che potesse succedere, e invece è accaduto e pure con una rapidità sorprendente.
    Mi riferisco a Luciana, l ‘unica zia ancora in vita, la più giovane, che porta il mio stesso cognome e che non so bene per quale motivo, forse più per l’amicizia che ci unisce piuttosto che per la differenza di età di soli 15 anni, ho sempre chiamato con il nome di battesimo e mai zia Cicci come fa il resto della mia numerosa famiglia.
    Luciana da poco più di un anno non c’è più con la testa, il suo cervello si è atrofizzato e immensi spazi vuoti lo distaccano dalla teca cranica. Si è visto bene alla TAC e alla RMN, immagini che hanno lasciato di stucco la cerchia di amici medici e chirurghi con i quali eravamo soliti passare piacevoli serate conviviali, seppur dilazionate nel tempo per gli impegni di ognuno di noi, serate che il primo lockdown ha cancellato per sempre.
    Il suo aspetto giovanile non è stato assolutamente scalfito, tanto meno la sua performance fisica che, immaginando una curva gaussiana di quelle che si costruiscono per definire il range di normalità, si collocherebbe senza dubbio al punto più elevato. Luciana, ex atleta di ginnastica artistica quando ancora il talento valeva ben più dell’allenamento e ti permetteva di raggiungere mete ambite senza esagerati impegni, cosa impensabile ai giorni d’oggi (infatti era stata scelta per gli europei) univa alla capacità dinamica, una vivacità intellettuale che le ha permesso di partecipare a imprese non affatto comuni.
    Nel 2005, all’età di 69 anni, ha preso parte alla spedizione scientifica tra gli allevatori di renne della penisola di Jamal nella Siberia Occidentale.
    Quando hanno visto il mio passaporto, non ci credevano. E poi ho scoperto che il più vecchio del gruppo di ricercatori ha 20 anni meno di me”, mi aveva detto compiaciuta e non affatto spaventata poco prima della partenza.
    Ottima conoscitrice della lingua russa, ha viaggiato molto nell’Unione Sovietica, ha conosciuto intellettuali, scrittori, artisti e sciamani, ha collaborato a progetti, al gemellaggio tra scuole dell’obbligo italiane e scuole del Distretto autonomo dei Nency ed ha scritto numerosi articoli, relazioni di viaggio e traduzioni dal russo sulle riviste “Il Polo” e “Slavia”. L’intera famiglia, composta dal marito Luciano ed i due figli, quando ancora non avevano raggiunto l’età scolare, si era avventurata in roulotte per poter girare il vasto territorio russo per più di 6 mesi allo scopo di soddisfare la curiosità intellettuale che univa entrambi i membri della coppia e approfondire la conoscenza della cultura di quei popoli. Luciano era un grande uomo, ma purtroppo la sua salute precaria lo ha portato via all’età di appena 60 anni , dopo un lungo e travagliato periodo di sofferenze, sicché il suo unico libro, scritto con tanta passione e precisione documentale: “P.A. Stolypin: una vita per lo zar”, è stato pubblicato solo dopo la sua morte.
    Ma non è tutto, perché Luciana ha anche scritto e curato la traduzione di libri tra cui “Leggende della Lapponia” e “Miti e leggende sugli sciamani siberiani”, “Siberia” , “La gemella ritrovata”, “Il maestro svelato. Bulgakov riemerge dalla Lubjanka”, “Le 8 tribù ed altre storie”, “Popoli artici e subartici – dalla penisola di Kola alla Cukotka” e persino una favola per bambini , pensata e finita in poco più di 10 giorni nel non lontano 2017: “Amina e la foca monaca”.
    Nulla poteva far prevedere un epilogo del genere.
    Anche dal punto di vista clinico, l’unico fattore di rischio era la tendenza all’aumento dei valori di colesterolemia che tuttavia rimanevano contenuti con l’osservanza di una corretta alimentazione ed una buona attività fisica quotidiana. Anni fa si era sottoposta ad una coronarografia per un dolore toracico suggestivo di cardiopatia ischemica, poi l’angioplastica e tutto era andato a posto. Era solerte nell’eseguire i controlli sanitari prescritti, ma esigeva di conoscerne il motivo e mai assumeva farmaci senza sapere a cosa servissero. Avvertiva forte l’esigenza di quell’alleanza terapeutica di cui tanto si discute nei nostri tempi , alleanza che non può prescindere dalla fiducia e stima reciproca.
    Poi la caduta con frattura della spalla destra, avvenuta nella primavera del 2019 e la temporanea perdita dell’autonomia. Luciana deve essere aiutata dai figli, non solo per quanto riguarda l’igiene personale e il vestirsi, ma anche per la spesa e cucinare, in quanto vive sola in una casa di campagna indipendente con spazi esterni e scale ovunque, accessibile in auto dopo una impervia salita lunga un centinaio di metri, non proprio comoda ai servizi. Ci vorrà circa un mese per il recupero, troppo per la tolleranza di Luciana, che nel contempo scopre di avere un piccolo nodulo sulla mammella destra, lato della caduta, e mi chiede consiglio. Cerco di rassicurarla, che sia legato al trauma, tipo un piccolo ematoma non riassorbito? In quel momento, avrei voluto fare come gli struzzi, ma l’essere medico mi ha imposto di consigliarle di procedere con altre indagini per accertare la natura del nodulo.
    La sentenza non tarda ad arrivare: carcinoma della mammella.
    Gli specialisti sostengono che in considerazione delle dimensioni del tumore e della valutazione del linfonodo sentinella nonché dell’età (Luciana è ottuagenaria nonostante ne dimostri 15 di meno) non sarà necessaria la chemio o la radio, ma occorrerà procedere con l’intervento chirurgico che con buone probabilità sarà limitato all’ asportazione di un solo quadrante piuttosto che dell’intera mammella. La prognosi è buona, anzi ottima e, entro un ragionevole lasso di tempo, non richiede particolare urgenza.
    Luciana è preoccupata, come è giusto che sia. Pur pianificando con il medico curante il percorso diagnostico necessario , non sembra affatto convinta di quanto le si propone ed inizia a fare domande che diventano sempre più ripetitive, alcune logiche, altre banali o addirittura futili, rivolte a me ed ai suoi figli, Cinzia e Raoul, domande che non si addicono ad una persona colta e intelligente dal pensiero critico piuttosto sviluppato.
    Passano i giorni e l’atteggiamento di Luciana non è mai costante: preoccupazione, disagio, avvilimento, rabbia, tristezza, rassegnazione, persino qualche nota di euforismo lasciano tutti coloro che le vogliono bene piuttosto spiazzati. Si direbbe che sia infastidita, più che dalla prognosi della malattia in sé, dalla paura di perdere la libertà di scegliere e decidere autonomamente il da farsi e che la sequenza di eventi, dal trauma alla spalla alla diagnosi di neoplasia, le abbia procurato una sorta di depressione reattiva che rifiuta di accettare per via del suo carattere, forte e volitivo. In più il fatto che l’organo colpito sia la mammella, simbolo della femminilità, rende il tutto ancora più inaccettabile per una come lei: le avrebbero deturpato il corpo la cui fattezza è ancora molto ben conservata.
    Comunque, seppur con alcune titubanze, Luciana completa il percorso diagnostico e, dopo aver richiesto un secondo parere nel privato, sceglie il chirurgo a cui affidarsi che opera nell’ospedale pubblico dell’ASL di appartenenza.
    Siamo ai primi di giugno del 2019. Luciana ha in programma di scrivere altri libri, ma tutta la sua attenzione si focalizza sul seno destro aggredito da un mostro e, all’insaputa di tutti, dopo aver rinviato di alcune settimane l’ingresso in Ospedale, scrive una lettera al chirurgo prescelto in cui gli comunica, con garbata seduzione, di aver deciso di non operarsi, almeno per il momento, ma, qualora avesse cambiato idea, la scelta sarebbe ricaduta su di lui e nessun altro.
    Lo comunica all’intera famiglia: è felice, persino euforica, come se si sia tolta un rospo dallo stomaco. Precisa che non è un no assoluto, ma ha bisogno di riflettere, di provare a fare qualche tentativo per ottenere la regressione del nodulo, rivolgendosi anche ad esperti della medicina alternativa. La conversazione è pacata e convincente e in me prende sempre più forza l’ipotesi che sia la non accettazione di quanto le è successo a condizionare il suo sconvolgimento psicologico, certamente passeggero.
    Dal punto di vista clinico, la tipologia del tumore può permettere un periodo di attesa, monitorando ovviamente l’evoluzione, per cui accettiamo di buon grado la sua decisione, incrociando le dita.
    Passano altri 3 mesi e Luciana ci rassicura che il tumore sta regredendo.
    Ma non è così.
    Il controllo ecografico dimostra inequivocabilmente la crescita della neoplasia: non si può più aspettare e la mammella destra deve essere asportata in toto con tutti i linfonodi del cavo ascellare.
    Mi tornano a mente le parole di nonna Rosina: “Negare l’evidenza è brutta cosa!
    Siamo ad ottobre e Luciana viene operata dal chirurgo prescelto secondo quanto stabilito e senza complicanze, in tempo utile per permetterle di partecipare alla conferenza organizzata in una biblioteca di Milano, in occasione di una fiera del libro, per presentare il suo testo “Le 8 tribù” alla presenza dell’amico antropologo Antonio Guerci.

    Luciana e AntonioQuesta foto, tratta da un mio breve video, che la inquadra mentre dialoga con gli studenti sulla popolazione siberiana, è l’ultima testimonianza di Luciana, nelle sue piene facoltà mentali. La performance non è ottimale, ammette lei stessa, ma è stata appena operata e qualche defaillance, soprattutto psicologica, ne è la logica conseguenza. Ne parliamo al ritorno in auto, insieme ad Antonio, la rassicuriamo, a breve certamente si riprenderà.
    Invece Luciana , con una velocità sorprendente, dimentica tutto quanto sta facendo, minuto dopo minuto, e ciò la porta ad uno stato di confusione e di agitazione: se esce a piedi, non si ricorda più cosa avesse in mente di fare, se prende l’ auto, non ricorda dove l’ha parcheggiata, commette errori su errori nelle mansioni quotidiane, cancella dalla sua mente le visite dei figli e nipoti che si fanno via via sempre più frequenti, quasi quotidiane, rifiuta l’assunzione dei farmaci. Qualunque cosa le si proponga per ovviare alla perdita della memoria a breve termine risulta fallimentare, come è successo con l’appuntamento per la vaccinazione anti-Covid, annotato sul calendario. “Perché c’è scritto vaccino alle 9 all’Auditorium San Francesco?” ha ripetuto migliaia di volte fissando pensierosa quella inspiegabile frase e portandomi allo sfinimento, oltre che ad una sofferenza che ho avvertito fisicamente. Chissà se anche a me potrà succedere la stessa cosa? “I geni non sono acqua” diceva nonna Rosina ed io sono la figlia di uno dei suoi fratelli. L’unica cosa che ricorda bene è la menomazione del suo corpo, quella cicatrice, quegli orribili punti di sutura che non riesce proprio a sopportare.
    “È solo una crisi esistenziale. I test parlano chiaro”, aveva diagnosticato uno stimato amico neurologo al quale Luciana si era rivolta per un parere, accorgendosi che qualcosa stava cambiando in lei. La pandemia non era ancora scoppiata e Maurizio aveva consigliato a Luciana di continuare a partecipare alla vita sociale, agli incontri organizzati dalle associazioni culturali, a scrivere e tradurre ciò che era di suo interesse, per distrarsi da quanto le era successo sul piano fisico, ma l’isolamento forzato ha impedito tutto ciò, contribuendo (questo è il mio parere) all’involuzione della sua corteccia cerebrale con perdita progressiva della memoria a breve termine e non solo.
    Gli interrogativi che di lì in poi mi sono frullati nella mente sono aumentati di pari passo al manifestarsi , sempre più prepotente, degli effetti del venir meno delle funzioni cognitive di Luciana, come quello di confezionare la torta di riso senza prima cuocerlo o di gettare nella spazzatura kili di prugne accuratamente lavate e sbucciate per fare la marmellata, nel breve intervallo di tempo in cui la figlia, con la quale aveva condiviso ore di lavoro, si era dovuta assentare. Al rientro Cinzia l’aveva rimproverata, pur pentendosi l’istante successivo di non essere riuscita a trattenersi e Luciana, mortificata, era scoppiata a piangere: la sua intenzione era di riassettare la cucina, come aveva sempre fatto, un comportamento del tutto normale e prevedibile.
    Infatti Luciana non è cambiata nel carattere: la sua determinazione, la necessità di autonomia e di indipendenza, la libertà di decidere cosa fare e la pretesa di non chiedere aiuto, soprattutto ai figli, ebbene tutto questo è rimasto intatto. Così come sono rimaste intatte le emozioni che avverte forti e incontrollabili in ogni momento della sua esistenza: vergogna, disagio, confusione, disorientamento, solitudine, avvilimento e paura che purtroppo prevalgono su quelle positive che sembrano attenuarsi col passare del tempo. Luciana, abituata a vivere sola, è più tranquilla tra le mura domestiche, si sente protetta, penso io, mentre, quando ne è al di fuori, qualunque piccolo imprevisto la getta nello sconforto e la paura si trasforma in panico.
    Pochi mesi fa è caduta dalle scale e si è recata da sola in auto al Pronto Soccorso. Per fortuna sono riuscita a rispondere ad una sua chiamata in cui si lamentava del protrarsi dell’attesa per la visita: “Sono caduta, ma ho solo un po’ di dolore alla schiena per la botta, qui non mi fanno niente e allora me ne vado. Cosa dici, posso farlo?”. Questa la sua domanda, assolutamente logica e prevedibile per come è lei. In realtà la botta le aveva procurato fratture multiple costali ed un ematoma rifornito del dorso, per cui alla fine è stata ricoverata per monitorare l’evoluzione del quadro clinico, a rischio di emotrasfusioni e addirittura di intervento chirurgico.
    Una volta dimessa, la proposta di trascorrere un periodo di convalescenza in casa dei figli, un po’ da uno e un po’ dall’altro, così come quella di ospitare in casa propria, almeno per i primi tempi, una persona che la aiutasse (e sorvegliasse), sono risultati fallimentari. “Io non voglio nessuno in casa mia, faccio da sola” queste le sue parole pronunciate con tono perentorio.
    Ma anche questo atteggiamento di Luciana non è frutto del deterioramento cognitivo, ma dell’inalterata percezione di sé stessa e del senso della vita che permane nel contempo in cui la mente si indebolisce e inizia a perdere le capacità di comprendere e analizzare il contesto.
    Questo il mio triste pensiero.
    Se in tutto ciò c’è un fondo di verità, quello che è più sconcertante è la difficoltà o addirittura l’ impossibilità di trovare soluzioni che rendano la vita accettabile sia per chi è colpito da questa devastante malattia, sia per coloro che devono prendersene cura. L’unico risultato scontato è che la sofferenza aumenta, giorno dopo giorno e si moltiplicano le spese economiche gravando sui singoli e sulla società intera.
    Le istituzioni sanitarie offrono visite specialistiche che sono importanti per formulare una diagnosi e la prognosi conseguente, per la prescrizione dei farmaci con relativo piano terapeutico, per ottenere l’invalidità e l’esenzione dal ticket, per consigliare il percorso più idoneo da intraprendere a seconda delle situazioni, ma tutto ciò assume uno scarso rilievo riguardo al mantenimento di una qualità di vita dignitosa sia per il malato che per i familiari.
    Se “il convento passa questo” , come diceva Rosina, non ci resta che un’unica soluzione per lenire la sofferenza: attendere che il peggioramento dello stato cognitivo della persona da assistere raggiunga un livello tale da attenuare l’impatto, spesso non gradito, di scelte che altri impongono a chi è colpito demenza.
    C’è un’altra cosa che non riesco a togliermi di mente: è possibile che eventi traumatici importanti, di quelli che cambiano la vita, tanto più se non sono accettati, abbiano un ruolo non affatto marginale nel determinare l’atrofizzarsi della corteggia cerebrale da cui dipendono le nostre funzioni cognitive?
    Non so rispondere, ma sono convinta che una più accurata attenzione e riflessione sull’integrità e indivisibilità di ogni individuo il cui cervello non comprende solo la corteccia, ma il sistema limbico, l’ippocampo, l’amigdala, il sub talamo e ben altro che hanno a che fare con le emozioni e con gli istinti primari di sopravvivenza, possa aiutare sia il medico che il care-giver nel difficile compito del prendersi cura dell’altro, al di là di ogni etichetta di malattia.

     

     

  • Disavventura in terra d'Albione

    diana catellaniHo rivissuto centinaia di volte quel momento, come fosse una scena al rallenty di un brutto film....
    Sto scendendo le scale tenendo in mano della biancheria da stendere....ho ai piedi delle calze un po' larghe e sento la punta del piede destro scivolare di pochissimo fuori dal piano d'appoggio del gradino......in un millesimo di secondo capita il disastro!!! La gamba destra precipita in basso, mentre il piede sinistro è ancora sul gradino e io cado rovinosamente all'indietro. Il mio dolce peso si scarica d'un colpo sulla gamba sinistra, che produce scricchiolii da brivido, per non dire uno schianto....Resto però abbastanza lucida, nonostante il dolore, da tenermi alla ringhiera per non battere la testa....il dolore è lancinante, grido e intanto penso che devo essermi giocata piede e ginocchio....ma subito riesco a constatare che il danno è "solo" alla caviglia...
    Mia figlia e Samuele si precipitano a soccorrermi e a chiamare un'ambulanza, che arriva prontamente. Il dolore è fortissimo, ma temo di più gli effetti devastanti che gli antidolorifici hanno su di me...e quindi accetto solo un po' di gas esilarante...
    Al Pronto soccorso (sono le tre del pomeriggio) ogni tanto arriva un dottore o un infermiere che mi chiede i miei dati e il racconto dell'accaduto, prende nota e se ne va.... Mia figlia fa da interprete, dato che io ho imparato a dire qualche frase, ma notoriamente non capisco un acca quando parlano gli inglesi.

  • E. R. Martini: la comunità può promuovere benessere sociale e individuale

    elvioraffaello martiniElvio Raffaello Martini - Psicologo di comunità e formatore.  Ha svolto attività sul campo in Italia e all'estero come psicologo di comunità e come formatore in diversi contesti, pubblici e privati.  Supervisore e consulente per progetti in contesti abitativi, in modo particolare di edilizia pubblica. Responsabile di MartiniAssociati srl, la società che ha ideato BuonAbitare.

    Ripartiamo da un’intervista pubblicata su Perlungavita nel 2016 per giungere ad alcune riflessioni da lei esposte ad un webinar “Promuovere comunità di vicinato per promuovere benessere” all’Ordine degli psicologi di Bologna, in cui parla del contributo elaborativo e della funzione che può assolvere una comunità per il benessere e la salute sociale. Che cosa è accaduto e come si è sviluppata questa esperienza nel corso di questi anni?
    Nell’incontro tenuto con l’Ordine degli psicologi ho posto l’attenzione sulle comunità di vicinato e sulla necessità di promuoverne la nascita e sostenerne la vita in funzione del benessere sociale e individuale. È questa convinzione che ci ha spinto a pensare al progetto BuonAbitare e alla promozione dei circoli "Buon abitare", con una strategia che favorisca l’integrazione feconda di competenze professionali, solidarietà di vicinato e impegno civico. Creare le condizioni che permettano a professionisti di aree disciplinari diverse, al momento soprattutto psico-socio-educative, di portare le competenze nei luoghi di vita, nei caseggiati, nei condomini, per promuovere, sostenere, facilitare la nascita di comunità di vicinato. Riteniamo infatti che se le persone che abitano nel vicinato si potessero percepire e sentire come comunità la loro vita ne trarrebbe vantaggio.
    Abbiamo constatato che in molti casi le persone, pur avendone voglia, non riescono a fare comunità. Non hanno le competenze, sono da sole, hanno paura di essere criticate, ecc. e, di conseguenza, le potenzialità non si traducono in azioni senza uno stimolo e un supporto.
    Le relazioni non sono un bene di cui si può solo godere. Esse vanno create, coltivate, curate. Richiedono un investimento di energie, di tempo, di attenzione, di cura e creano legami. E oggi sono soprattutto i legami ad essere in crisi. Anzi, spesso sono rifiutati e sostituiti da “sottili fili di connessione” o da semplici contatti. Il contatto e la connessione sono importanti, ma non bastano. Per avere relazioni solide e su cui poter contare occorre passare dalla connessione al legame e dal contatto al patto.
    Fare questo passaggio non è un’operazione semplice. Proprio perché oggi si predilige la relazione senza impegno, nella quale si sta finché serve, finché se ne ha voglia. Manca l’idea del vincolo, dell’impegno e della responsabilità verso gli altri. Ne sono un esempio le migliaia di gruppi sui social.
    Il progetto BuonAbitare cerca di contrastare questa tendenza con la proposta dei circoli che, formati da persone che abitano nello stesso caseggiato o comunque in prossimità, si costituiscono sulla base di un patto di mutuo aiuto e di impegno per il luogo.
    Come già detto, in molti casi le persone da sole non ce la fanno ad attivarsi, hanno bisogno di una spinta e di competenze che spesso non possiedono, per questa ragione ai circoli viene garantito un supporto professionale. Inoltre per far nascere comunità c’è bisogno di azioni intenzionali e consapevoli, riflessive e di invertire la tendenza a mettere i problemi sotto il tappeto, ad utilizzare le strategie di distrazione e lo svago come modo per tirare avanti.
    Ci sono tante ragioni per promuovere comunità di vicinato e, pensando agli anziani la prima cosa che viene in mente è l’esigenza di contrastare la solitudine, considerata da alcuni una “una nuova emergenza sociale”: 2.5 milioni di persone over 74 vivono da sole e sono il 40% delle persone oltre 74 anni di età”. (Abitare e Anziani 1/2020).
    com.Benes e salute 4761
    Una comunità di vicinato è un presidio per la salute e il benessere, può prevenire o risolvere localmente problemi. Che si tratti di problemi di convivenza o di problemi dovuti e bisogni personali e familiari non soddisfatti dal welfare pubblico, una cosa è evidente: a parità di bisogni soggettivi, è il contesto e la disponibilità della rete di protezione a fare la differenza.
    La comunità di vicinato può anche favorire l’impiego di risorse presenti ma non utilizzate e, inoltre, può permettere di sviluppare nuove risorse che nascono dall’interazione e dallo scambio fra le persone.
    Promuovere comunità è un’azione complessa che funziona bene se c’è un’integrazione fra competenze e fra ruoli diversi e non è come aprire un cantiere edile o come organizzare un evento, una festa, una cena.
    La nascita e lo sviluppo di comunità di vicinato è un percorso, con tempi non brevi, che avviene in un luogo preciso, con un approccio che potremmo definire “clinico”, vale a dire basato sulla comprensione e sulla valutazione del contesto specifico.
    I professionisti coinvolti devono agire con un’ottica promozionale, spesso in assenza di domanda, come avviene nella promozione della salute, riconoscere ciò che esiste e valorizzarlo, sostenere chi è in grado o è motivato a fare qualcosa e innescare circoli virtuosi.
    È chiaro che la comunità la fanno le persone. Pensare e sentire la comunità sono aspetti soggettivi irrinunciabili e costitutivi della comunità stessa. Spesso si ricorre a ad incentivi per indurre le persone a partecipare, ma se non scatta la motivazione intrinseca, quando finiscono gli incentivi termina anche la partecipazione. La motivazione non può essere indotta, come attenzione agli altri e cura delle relazioni non possono essere prescritti. La fiducia, la speranza e il senso di responsabilità sono aspetti soggettivi che vanno coltivati con cura.

    La società italiana ha la prospettiva di registrare tra i suoi componenti, nel giro di pochi decenni, oltre un terzo di persone di oltre sessantacinque anni. Esperienze di solidarietà nei contesti più piccoli, come i condominî, le comunità di vicinato, possono diventare anche punti di appoggio per una rete di protezione sociale diffusa, un primo nucleo embrionale per una diversa idea di comunità allargata? Con quale ruolo? Possono essere il primo riferimento per condividere interventi di solidarietà diffusa al domicilio per anziani o disabili? Quali le condizioni necessarie e con quali presupposti?
    Certamente una comunità di vicinato può diventare un punto di appoggio per una rete di protezione diffusa e anche qualcosa di più. Può essere una risorsa preziosa in modo particolare per gli anziani soli, e gli anziani stessi possono essere una risorsa di questa rete.
    Se degli anziani si mette in evidenza solo la fragilità non riusciamo a vedere che sono migliaia quelli di loro coinvolti in compiti di cura, spesso di altri anziani, o dei nipoti o impegnati in attività di volontariato.
    Il coinvolgimento degli anziani è importantissimo per la comunità di vicinato. Gli anziani coinvolti ottengono due risultati: aiutano gli altri e, mentre fanno ciò, aiutano sé stessi. Si mantengono attivi e in relazione, si sentono utili e questo contribuisce a riempire di senso la propria vita. Fornire agli anziani occasioni di impegno, può essere un modo per rispondere ai loro bisogni, specialmente di quelli non materiali.
    Per garantire una protezione sociale vera serve l’integrazione del sistema pubblico, della solidarietà sociale e dell’impegno civico.
    Essere e sentirsi protetti è una condizione essenziale per il benessere soggettivo, specie quando si è in condizione di fragilità. Sentirsi protetti vuol dire sapere che c’è qualcuno che si prende o si prenderà cura di noi quando ne avremo bisogno. E se questo qualcuno è anche la comunità alla quale si appartiene, anche altri bisogni non materiali possono trovare adeguata soddisfazione: il bisogno di sentirsi parte, di contare per qualcosa e per qualcuno, di avere un ruolo e di essere riconosciuti non solo per il bisogno, ecc.
    Una comunità di vicinato organizzata, in una dimensione micro, di caseggiato o di condominio non lascia le persone sole e certamente può essere anche un punto di riferimento per i servizi. L’aiuto che può dare un vicino di casa non possono darlo i parenti o gli amici lontani e non possono darlo neanche i servizi.
    I servizi non solo devono riconoscere e stare attenti a non danneggiare queste comunità quando ci sono. Dovrebbero avere anche l’obiettivo e gli strumenti per promuoverle e sostenerle nel tempo, in una logica di promozione delle risorse e non solo di risposta diretta al bisogno.
    Quale comunità 4770Comunità 4769

    Tra le diverse emergenze economiche e sociali fatte esplodere dalla pandemia COVID 19, una appare drammatica: l’assistenza negata agli anziani che hanno contratto il virus, fossero essi già residenti in strutture assistenziali o al loro domicilio, ignorando le più elementari misure di prevenzione.
    Si è letto di episodi di solidarietà nei condomini e nel vicinato, ma spesso forse percepiti come esempi di “buon cuore”, comportamenti d’eccezione non solidarietà consueta o funzione sociale. Quanto una comunità attiva e/o sollecitata a esserlo può contribuire a costruire un diverso sistema di protezione sociale per le persone fragili, a partire dagli anziani? quale contributo può dare prima nella fase progettuale, poi in quella attuativa?
    L’assistenza negata agli anziani ammalati di Covid è stata una cosa molto grave e triste, ha lasciato molte ferite aperte e anche molta rabbia. Quello che è accaduto in molte famiglie e soprattutto nelle strutture residenziale per anziani ci deve fare riflettere.
    Una comunità attiva, aggiungerei consapevole e competente, in primo luogo è una difesa contro lo smantellamento dei servizi sanitari territoriali, una delle principali cause delle difficoltà e dell’alto numero di decessi in alcuni territori.
    Se i servizi nei vari territori potessero contare sulla presenza di comunità di vicinato, coese e vitali e possibilmente in relazione fra loro, sarebbero avvantaggiati nella rilevazione dei bisogni e nell’organizzazione delle risposte.
    Senza delegare le competenze specifiche e soprattutto le responsabilità che sono proprie, potrebbero trovare in queste comunità degli interlocutori con i quali collaborare in un’ottica di partnership, per progettare e implementare azioni utili alle singole situazioni, modellando le risposte sulle specifiche condizioni.

    Le carenze e i ritardi emersi durante la pandemia nascono da una rigidità dell’offerta assistenziale, da un ritorno a un’idea di “rinchiudere” i diversi (per età, disabilità, patologie) che sembrava sconfitta nel paese. Ciò che si sta proponendo più o meno velatamente è un ritorno a quel modello e non una valorizzazione della flessibilità dell’offerta e il coinvolgimento di più soggetti tra cui la comunità, intesa in senso ampio: soggetto territoriale informato e soggetto sociale competente.
    Si stanno sperimentando, pur con molte difficoltà, esperienze di cohousing per anziani o per disabili giovani o adulti, con la presenza di famigliari e volontari, purtroppo non sempre ben accolte dagli altri condominî. Contribuire alla nascita di queste esperienze (cohousing per anziani) o sollecitarne l’attuazione e sostenerle, con la conoscenza del luogo, può essere una delle azioni positive che una comunità, anche con sostegni professionali, può assolvere nel rimodellare l’attuale sistema dei servizi sociali e assistenziali?
    Se si considera l’abitare come servizio, si può discutere di come debba/possa essere organizzato.
    Per prima cosa si può mettere in discussione la convinzione che nel campo dell’abitare per gli anziani esistano solo due alternative: la casa propria o la casa di riposo.
    Mantenere gli anziani a casa propria è stato ed è un obiettivo delle politiche assistenziali e sanitarie pubbliche e, in generale, corrisponde anche al desiderio degli anziani stessi. A questo obiettivo contribuiscono le varie forme di assistenza pubblica, l’impegno delle famiglie e soprattutto il coinvolgimento di una moltitudine di badanti (erano un milione e 665 mila nel 2013, secondo il Censis).
    Per mantenere gli anziani a casa propria c’è da fare i conti con problemi strutturali, molti alloggi in cui abitano gli anziani non sono age-friendly, e con il fatto che molti saranno soli o con la badante.
    È fuori discussione che dobbiamo impegnarci per trovare soluzioni abitative diverse dalla casa in solitudine e la casa di risposo. È fra queste due alternative che si inserisce l’idea di implementare formule abitative collaborative chiamate genericamente e in modo non del tutto corretto cohousing. Senior cohousing, quanto sono coinvolte solo persone anziane o cohousing intergenerazionale, quando ad abitare insieme sono persone di età diverse.
    Negli ultimi tempi è cresciuto l’interesse per queste forme abitative, anche se ragioni culturali e oggettive le rendono ancora poco praticabili.
    Anche le politiche pubbliche con sempre maggiore frequenza ricorrono all’abitare condiviso, vuoi per far fronte a situazioni di emergenza abitativa, vuoi per fornire alloggi ad una fascia di popolazione che non ha i requisiti per accedere alle case popolari e non è in grado di sostenere i prezzi del mercato privato.
    Per flessibilizzare l’offerta abitativa servono reali alternative, l’integrazione delle politiche sociali e abitative, ma anche un lavoro culturale e di sostegno e orientamento alle persone nella progettazione della propria vita.

    È la domanda più personale, va oltre le riflessioni e le convinzioni del professionista.
    Abbiamo citato il webinar con l’Ordine degli psicologi di Bologna, città in cui partirono le prime esperienze di “Social street” in via Fondazza nel 2014. Che cosa vorrebbe che accadesse nei prossimi mesi/anni?
    Guardando al futuro, non so se essere ottimista o pessimista.
    Dico subito che non sono così convinto che dopo questa pandemia saremo migliori. Ma se osservo i fermenti e le esperienze puntuali di mutualità di vicinato che ci sono non solo nel nostro paese e che si sono viste anche durante questo periodo difficile, mi sento ottimista. Sembra che ci sia un risveglio, una crescente consapevolezza che bisogna mettersi in gioco personalmente, che non ci si può aspettare tutto dallo stato, che dobbiamo collaborare e che siamo disposti a farlo. Certo mi piacerebbe vedere moltiplicarsi queste esperienze, e mi piacerebbe vedere anche la politica e le istituzioni più attente e interessate a supportarle.

    NB. Le slide riprodotte- presentate all'Ordine degli psicologi- sono state messe a disposizione dal professor Martini-

  • Essere nonni oggi

    rosanna vaggeAnche quest’anno sono stata invitata ai corsi di cultura di Chiavari in qualità di docente e il titolo che mi è stato proposto per la prima lezione ,”Nonni e nipoti oggi: una relazione speciale di crescita reciproca”, tocca una tematica che mi sta particolarmente a cuore, sia perché sono orgogliosa di essere nonna per ben tre volte, sia per il fatto che mi piacciono i vecchi e i grandi vecchi, capaci di sorprendermi ogni giorno per quello che sanno trasmettere.
    Non credo proprio che qualcuno possa nutrire dubbi sul fatto che nonni e nipoti o più in generale vecchi e bambini, siano in grado di sviluppare una relazione speciale di crescita, ma oggi, con il cambiamento demografico e la crisi economica e morale che coinvolge la società intera e sovverte la struttura delle famiglie, è ancora possibile investire risorse affinché questa relazione sia mantenuta, se non implementata? È una domanda che mi desta grande preoccupazione.

  • Fare i nonni e far giocare i bambini al tempo del Covid19: suggerimenti ed idee

     La situazione generata dal covid-19 ci costringe a un profondo ripensamento anche sul gioco e sulla sicurezza sanitaria per i bambini e per chi, come i nonni, sostituisce spesso i genitori nel periodo estivo in cui le scuole sono normalmente chiuse.
    Il progetto di comunità “Oasi 31” del Comune di Ravenna, intende sostenere il percorso di riapertura dei servizi e dei contesti ludico-ricreativi estivi per bambini/e e ragazzi/e dai 3 a 13 anni su tutto il territorio del Comune di Ravenna.
    Nella consapevolezza del valore intrinseco di questo impegno, particolarmente in questo fragile momento storico, economico e sociale, tali servizi sono considerati come misure volte alla conciliazione dei tempi di cura e di lavoro per le famiglie, ma anche e soprattutto come occasione per ribadire i diritti che tutti i bambini/e e i ragazzi/e hanno di giocare, sperimentarsi, muoversi e vivere esperienze di comunicazione e di socialità in spazi adeguatamente pensati.
    L’articolo 31 della Convenzione ONU sui Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza riconosce e promuove tali diritti; questo progetto, che richiama l’Oasi come ambiente resiliente che si oppone alle intemperie e alle condizioni sfavorevoli di ciò che lo circonda, vuole rimettere questi diritti al centro degli impegni dell’intera comunità educante.
    In quest’ambito molte organizzazioni del territorio ravennate si sono attivate per realizzare iniziative di gioco e di spettacolo dedicate ai bambini fino ai 10-12 anni
    Utilizzando al meglio gli spazi verdi della città.
    Tra questi c’è l’Associazione di promozione sociale Amata Brancaleone, di cui sono al momento la Presidente, che ha organizzato nel parco pubblico della Rocca Brancaleone un calendario di giochi ed eventi che si svolgeranno tutti i venerdì pomeriggio da metà luglio a metà settembre. (vedi calendario allegato )
    Per garantire il distanziamento tra i bambini durante gli spettacoli, saranno utilizzati come segnaposto sul prato degli Hula Hoop e in caso di tempo umido saranno distribuiti anche dei teli plastificati usa e getta per evitare il contatto con il terreno.
    Per le iniziative di gioco saranno utilizzati tavoli sanificati con un numero limitato di bambini, da 2 a 4 a seconda del tipo di attività e della dimensione del tavolo, opportunamente distanziati e con le mascherine per i più grandi.
    Tra le iniziative di gioco si svolgeranno anche dei Tornei con il Gioco di Sir Brancaleone, che per rispettare le regole legate alla sicurezza sanitaria, avranno un Regolamento particolare:
    1) Il gioco di SIR BRANCALEONE si rifà al classico gioco dell'Oca formato da un percorso da completare affidandosi unicamente alla propria fortuna per raggiungere la casella di Arrivo.
    2) Il tabellone su cui è stampato il gioco che misura cm 70x50, sarà sempre nuovo di stampa, e per garantire il distanziamento potranno giocare solamente due bambini alla volta per ogni tabellone.
    3) Al posto dei classici dadi, il numero per avanzare sul percorso, sarà la somma delle dita di 1 mano dei 2 giocatori.
    4) Ogni giocatore deve utilizzare come propria pedina un piccolo oggetto trovato direttamente nel parco: un fiore, una foglia, un sassolino, ecc.
    5) Inizia il gioco il giocatore più giovane di età.

    Le caselle del Gioco, realizzato ad hoc per garantire la produzione in esclusiva, sono rappresentate da immagini tratte dalla Festa Medievale che si organizza ogni anno alla Rocca Brancaleone e da scorci della Rocca Brancaleone stessa.
    Il gioco, realizzato su cartoncino, sarà regalato ai singoli giocatori che potranno giocare a casa anche con altri amici. (si allega immagine del Gioco di Sir Brancaleone)
    20200713 Gioco di Sir Brancaleone WEB

     

     

     

     

    Amata Brancaleone Aps DIRITTO AL GIOCO web Rocca Brancakeone 2020

  • Favola d'amore- Le trasformazioni di Pictor di Hermann Hesse

    ida accorsiUna favola d'amore gaia e luminosa, dove parola e disegno si fondono come uomo e donna, come sole e luna, a raccontare il paradiso del perenne rinnovamento. Una favola nata nell’autunno del 1922, appena pochi mesi dopo la fine della stesura di Siddharta. Hermann Hesse stesso ne parlò come di una fantasia orientale-occidentale, una seria parafrasi del mistero della vita , ma allo stesso tempo accessibile alla lettura infantile come una gioiosa favola. Una storia scritta e illustrata dallo stesso autore che per molto tempo non è stata edita, ma della quale lui stesso realizzava copie manoscritte che vendeva a bibliofili e amici in un momento in cui la situazione economica non era delle più floride e che continuò in seguito a riprodurre per aiutare gli scrittori in difficoltà. Questa versione del manoscritto è quella che concordemente viene considerata la più riuscita. La copia fu regalata a Ruth Wenger – all’epoca un’amica e poi futura moglie di Hesse – per la Pasqua del 1923. L’amore perciò non è solo nel titolo, ma anche in tutta l’opera.
    "Tra la mia pittura e la mia poesia non c’è discrepanza, cerco sempre la verità poetica, non quella naturalista.”

  • Fiori in famiglia - Storia e storie di Eva Mameli Calvino

    Autrice del volume è Elena Accati già docente di Floricoltura presso l’Università di Torino, studiosa e ricercatrice nei settori della floricoltura e di parchi e giardini. Una donna e una studiosa, e come lei stessa ha detto “lavorare in un settore considerato un tempo come solo maschile non è stato facile”.
    Nel romanzo Fiori in famiglia Elena Accati dà voce ad un’altra donna e scienziata Eva Mameli Calvino, madre del grande scrittore Italo Calvino.
    La collana “Donne nella scienza” di Editoriale Scienza ha questo di davvero interessante e innovativo: l’aver dato spazio a donne che hanno cambiato la storia della scienza e di cui in pochi conoscono la storia, ed averlo fatto attraverso la penna di scienziate, di altrettante donne che si sono applicate alla scrittura per ragazzi per appassionare e raccontare alla nuova generazione quanto, anche nella scienza, si deve alle donne.
    Leggendo Fiori in famiglia si ha subito la sensazione di trovarsi di fronte ad una botanica….e non solo perché il racconto di Eva è in prima persona, ma perché chi le dà voce, sa esattamente di cosa sta parlando, si rincorrono nomi scientifici e descrizioni minuziose di procedimenti ed esperimenti.
    Eva Mameli Calvino era la mamma di Italo e se pochissimi la conoscono in questa veste forse ancora meno la conoscono come una delle scienziate più importanti del primo Novecento, prima donna in Italia ad ottenere la libera docenza in botanica, nel 1915!
    Eva era una donna anticonformista e rigorosa che in anni di un altro secolo ha praticato una scelta di vita che in molti casi risulterebbe difficile ed anomala persino oggi: la dedizione completa e assoluta alla sua passione botanica e scientifica in cui ha ritagliato quello per la famiglia. Il marito di Eva era un agronomo, con cui condivideva progetti lavorativi, ricerca e scelte di vita privata, con Mario Calvino, di cui tutti si ricordano molto di più della moglie, ha avviato e condotto la stazione scientifica prima a Cuba (dove è anche nato Italo) e poi a Sanremo per dar vita alla prima stazione sperimentale di floricoltura con sede a Villa Meridiana, casa stessa dei Mameli-Calvino.
    Avete presente tutti quei fiori per cui è famosa la riviera ligure? Ecco, quelli sono opera dei coniugi Calvino, in Liguria di fiori praticamente non ce n’erano!
    “Prima in Liguria si coltivavano solo agrumi, vite e olivo e c’era grande povertà. Poi è nata la floricoltura e la Liguria è divenuta la Riviera dei fiori.”
    “I numeri sono questi: nel 1925-26 la Borsa Fiori di Sanremo registrava tre varietà di rose “Ulrich Brunner”, “Frau Druschky” e “Mac Arthur”. Oggi la varietà di rose da giardino sono 7562!”
    Il libro è davvero interessante e la sua lettura indubbiamente vi darà la sensazione, (anche grazie alla prima persona della narrazione), di trovarvi di fronte ad una grande donna, Le illustrazioni seguono il racconto come fotografie.
    Un' idea "Fiori in famiglia" da regalare ai ragazzi che amano la botanica, è indicato dagli 11 anni e si trova anche in formato ebook.

    Incipit del libro
    […] Fin da molto piccola fui colpita e attratta dalle medaglie di papà. Colonnello dei carabinieri, mio padre Giovanni era stato insignito, per il servizio prestato in occasione di terremoto e contro il brigantaggio in Calabria e in Sicilia, di tante medaglie che a me parevano bellissime. Mi sembrava un eroe da imitare. La mamma le custodiva gelosamente, adagiate su di un pannello foderato di velluto rosso, in un apposito mobile che chiamavamo la vetrina. Conteneva cose fragili e, ai miei occhi, preziose: tazzine da caffè dipinte, alcuni piatti, delle coppe in cui a volte venivano messi dei cioccolatini e due “reperti”. - Ma papà, perché sono in vetrina? Non sono una semplice pietra e una conchiglia? – chiesi un giorno. – No, - disse papà con affetto. - Vedi Evelina (così mi chiamava a volte) questa che tu chiami pietra è stata portata da un prozio archeologo che l’ha trovata durante una spedizione in Oriente: è un frammento di una tubatura dell’acqua calda per i tepidari di terme romane. L’altra è una conchiglia fossile raccolta in una zona in cui c’era il mare […]

    Conosciamola meglio Eva Mameli Calvino, studiosa e pioniera nella conservazione della natura, prima docente universitaria alla cattedra di botanica in Italia
    " Eva la maga buona che coltiva gli iris" così la chiamava il figlio Italo.

    Giuliana Luigia Evelina Mameli, detta Eva, nasce il 12 Febbraio 1886 a Sassari, da una famiglia alto-borghese, quarta di cinque figli: la madre è Maria Maddalena Cubeddu, il padre Giovanni Battista è colonnello dei carabinieri. La famiglia Mameli è molto unita e l’educazione dei figli si basa su principi quali il valore dello studio e il massimo impegno nella vita e nella professione. Infatti Eva frequenta un liceo pubblico, tradizionalmente “riservato” ai maschi, e in seguito, particolarmente interessata alle scienze, s’iscrive al corso di Matematica presso l’Università di Cagliari, dove si laurea nel 1905. Alla morte del padre, alla quale è particolarmente legata, si trasferisce con la madre a Pavia presso il fratello maggiore, Efisio (1875-1957), uno dei futuri fondatori del Partito Sardo d’Azione, e già docente universitario, con il quale ha condiviso, nell’infanzia, lunghe passeggiate nei boschi e l’interesse per la natura. A Pavia Eva, ricordata come una donna brillante, appassionata, grande lavoratrice, frequenta il Laboratorio crittogamico di Giovanni Briosi (1846-1919), che si occupa di piante “inferiori”, studi ancora abbastanza unici in Italia. Eva si appassiona a tal punto da proseguire le sue ricerche come assistente volontaria anche dopo la laurea in Scienze Naturali nel 1907. Nel 1908 consegue nel frattempo il diploma presso la Scuola di Magistero e, due anni dopo, l’abilitazione per la docenza in Scienze Naturali per le scuole normali dove insegna per due anni. Ottiene la cattedra di Scienze presso la scuola normale di Foggia, chiede e ottiene il distaccamento presso il Laboratorio crittogamico dell’Università di Pavia. Vince però anche due borse di studio di perfezionamento che le permettono di continuare l’attività di ricerca. Nel 1911 le viene infatti assegnato il posto di assistente di Botanica e nel 1915, prima donna in Italia, consegue la libera docenza in questa disciplina. Il suo primo corso universitario ha come titolo La tecnica microscopica applicata allo studio delle piante medicinali e industriali.
    La sua fama scientifica oltrepassa i confini nazionali, ma evidentemente non è il suo solo pensiero. Durante gli anni della Prima Guerra Mondiale si attiva infatti come crocerossina e viene più volte decorata.
    È l’immediato dopoguerra a metterla di fronte a scelte difficili: ha 34 anni, il suo maestro Briosi è morto e il fratello Efisio è tornato in Sardegna, per insegnare Chimica farmaceutica all’ateneo di Cagliari. La svolta decisiva è rappresentata, nell’aprile del 1920, dall’incontro con Mario Calvino (1875-1951), conosciuto alcuni anni prima grazie ad uno scambio epistolare su questioni di carattere scientifico. Mario è ricordato per il carattere serio e taciturno, e per i molteplici impegni scientifici, educativi e sociali: un “apostolo agricolo sociale”, lo definirà Eva nella sua biografia.
    Mario è sanremese di nascita, ma nel 1908 si trasferisce in Messico e poi a Cuba, a Santiago de las Vegas, dove dal 1917 dirige una Stazione Agronomica sperimentale per la produzione di canna da zucchero. Calvino cerca un valido collaboratore di Genetica Vegetale. Senza indugi Eva Mameli accetta sia la sua proposta di matrimonio sia il trasferimento nel nuovo mondo: i due da questo momento iniziano un cammino comune caratterizzato costantemente dalla ricerca scientifica. A Cuba il 15 ottobre 1923 nasce il loro primogenito, Italo Giovanni, seguito da Floriano, nato nel 1927, in Italia. Nel 1925 la coppia ritorna infatti a San Remo, dove si occupa della nascente Stazione sperimentale di floricoltura “Orazio Raimondo”. Portano con loro palme, pompelmi e kiwi, che arrivano in Italia per la prima volta. I coniugi acquistano anche Villa Meridiana, a quei tempi quasi fuori città, il cui ampio giardino viene messo a disposizione della Stazione. Qui Eva ricopre il ruolo d’assistente e vicedirettrice, ma non rinuncia ad una vita professionale autonoma. Nel 1927 infatti vince il concorso per la cattedra di Botanica presso l’Università di Catania e poco dopo presso quella di Cagliari: viene nominata “professore non stabile” e direttrice dell’Orto botanico dell’Università degli Studi.
    Dopo due anni però abbandona la carriera universitaria per dedicarsi esclusivamente alla Stazione sperimentale. Durante la seconda Guerra Mondiale, Eva e Mario «amanti delle sfide scientifiche e civili» (cfr. Mameli-Calvino, 2011) mentre i due figli salgono in montagna per combattere nella Resistenza, offrono asilo ai partigiani e nascondono alcuni ebrei, ragione per la quale Mario Calvino trascorre quaranta giorni in prigione ed Eva deve assistere a due “fucilazioni simulate” del marito da parte dei fascisti.
    stazione sperimentale di floricultura SanremoDopo anni caratterizzati da un costante impegno anche nella divulgazione scientifica, nel 1951, alla morte di Mario, la direzione della Stazione passa nelle mani di Eva per otto anni. Sempre coltivando i suoi interessi floristici (è del 1972 il Dizionario etimologico dei nomi generici e specifici delle piante da fiore e ornamentali, opera unica tra i testi di botanica del nostro secolo), Eva, «la maga buona che coltiva gli iris» – come la chiamava il figlio Italo – muore a San Remo il 31 marzo 1978, all’età di 92 anni.
    La prima di una lunga serie di pubblicazioni (oltre 200) di Eva Mameli Calvino risale al 1906. Si è occupata, con i suoi scritti, prima di lichenologia, micologia e fisiologia vegetale, poi di genetica applicata alle piante ornamentali, fitopatologia e floricoltura. Nel 1930 fonda assieme al marito la Società italiana amici dei fiori e la rivista «Il Giardino Fiorito», che dirigeranno dal 1931 al 1947. Nell’opera veramente esaustiva a cura di E. Macellari, edita a Perugia nel 2010, Libereso Guglielmi riesce a mettere bene in luce, nella Prefazione, il profilo di questa donna tenace, che ha dovuto lottare molto per affermarsi come scienziata e come accademica e in seguito per difendere la Stazione sperimentale dall’aggressione edilizia che comunque causerà una drastica riduzione della sua estensione.
    Eva Calvino e figlioHa forse dovuto lottare anche con i suoi figli, come dimostrano le parole lapidarie di Italo nel racconto La Strada di San Giovanni (1962): «Che la vita fosse anche spreco, questo mia madre non l’ammetteva: cioè che fosse anche passione. Perciò non usciva mai dal giardino etichettato pianta per pianta, dalla casa tappezzata di buganvillea, dallo studio col microscopio sotto la campana di vetro e gli erbari. Senza incertezze, ordinata, trasformava le passioni in doveri e ne viveva». O ancora sentenzia, con una imminente nostalgia: «Mia madre era una donna molto severa, austera, rigida nelle sue idee tanto sulle piccole che sulle grandi cose […] L’unico modo per un figlio per non essere schiacciato da personalità così forti era opporre un sistema di difese. Il che comporta anche delle perdite: tutto il sapere che potrebbe essere trasmesso dai genitori ai figli viene in parte perduto».
    Non troppo tenero con Eva Mameli è anche Libereso Guglielmi, l’uomo dal nome esperanto, giardiniere e naturalista, allievo prediletto di Mario Calvino, quasi un sostituto dei figli che avevano preferito altre professioni. Un gran personaggio, con una barba lunga e un modo di parlare semplice e coinvolgente. Figlio di anarchici, cammina spesso scalzo, scorrazzando nel giardino di villa Meridiana, entra in casa con i piedi inzaccherati di fango, gioca con le bisce e i rospi (come lo ricorda Italo in uno dei primi racconti, Un pomeriggio, Adamo). Eva lo sgrida di continuo e infatti lui la considera una donna severa, raccontandola così, in modo ironico e sferzante, in un’intervista rilasciata a Ippolito Pizzetti: «La madre era un po’ carognetta […] Eva Mameli Calvino, una piccolina [….], con quei bei grandi rotoli di capelli,[..]. Una volta me la sono trovata davanti con tutti i capelli sciolti e mi sono spaventato: sembrava un fantasma!» Anche se poi il nostro dichiara: «Era una grande botanica […] una delle potenti, però non era proprio botanica pura, faceva più la ricercatrice, era più biologa, una delle grandi biologhe italiane (…)».
    Eppure appare chiaro quanto il figlio Italo, fra i maggiori scrittori italiani del ‘900 abbia ereditato da una madre così. Come viene ricordato nel volume Album Calvino: «Di lei [Eva Mameli] si ricorda che parlava un italiano di grande precisione ed esattezza, immune dall’approssimazione linguistica, grammaticale e sintattica che fatalmente accompagna la comunicazione orale: e anche questo è un dettaglio importante per spiegare l’economicità espressiva del figlio, il suo rifiuto di quanto è inesatto, opaco, sfuocato».

    Negli ultimi anni Eva Mameli ottiene i giusti riconoscimenti e molti sono gli studi e le pubblicazioni che valorizzano la vita, le scoperte e le ricerche di questa donna che “dal giardino, e più complessivamente dalle consuetudini, uscì spesso, e per lidi lontani”.
    Tessitrice di competenze attraverso gli oceani, scienziata rigorosa quanto attenta agli aspetti sociali del proprio lavoro, si prendeva però il tempo per dire a una bambina: “Vieni ti faccio vedere una chimera…” anche se si sottovaluta quanto la fama della riviera dei fiori di Sanremo in particolare debba al suo lavoro. Il 17 marzo 1972, confidava in una lettera a Olga Resevi-Signorelli: “Da più di due anni sto imbastendo un lavoro di etimologia botanica e ne avrò per altrettanti. Siccome ho compiuto gli 84 faccio più conto delle mie scartoffie che dei pesanti pasticci televisivi. Soltanto ciò che riguarda figli e nipotini mi attira. Ho 4 gioielli tra i 5 e i 12 anni tutti buoni e belli […]

    Di sé Eva disse:
    “Sembravo timida ma non lo ero per niente.
    Dentro di me sentivo una gran voglia di imparare.
    Non avevo ancora idea di cosa avrei fatto,
    però sapevo che desideravo scoprire per essere utile.
    A chi o a che cosa lo ignoravo,
    ma l’idea di diventare qualcuno
    mi accompagnò sempre in quegli anni."

     

    NOTE
    Fonti di riferimento: Per la biografia - Enciclopedia delle donne
    Elena Macellari, Eva Mameli Calvino, collana Le farfalle, Ali&no Editrice, Perugia 2010
    Elena Accati, Fiori in famiglia. Storia e storie di Eva Mameli Calvino, Donne nella scienza, Editoriale Scienza 2011
    Eva Mameli Calvino, Mario Calvino, 250 quesiti di giardinaggio risolti, Introduzione di Tito Schiva, collana Virgola, Donzelli editore, Roma 2011
    Ariane Dröscher, Mameli Calvino Eva Giuliana, voce on line in Scienza a due voci. Le donne nella scienza italiana dal Settecento al Novecento, dizionario delle scienziate italiane dell'Università di Bologna
    P. Forneris - L. Marchi, Il giardino segreto dei Calvino. Immagini dall'album di famiglia tra Cuba e Sanremo, De Ferrari Genova 2004
    L. Migliore, Mameli, Giuliana Eva, voce (online) in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma 2007
    Elisabetta Strickland, Scienziate d'Italia. Diciannove vite per la ricerca, Donzelli, Roma 2011
    Album Calvino, a cura di L. Baranelli e Ernesto Ferrero, Mondadori, Milano 2003
    Ippolito Pizzetti, Libereso, il giardiniere di Calvino, Muzzio 2009

    Foto:
    A Sanremo la prima stazione sperimentale di floricoltura con sede a Villa Meridiana, la stessa casa dei Mameli Calvino.
    Eva Mameli con il figlio Italo

    immagine di copertina

     

     

  • Flavio Pagano: la fantasia è essenziale nella vita e ancor più nella malattia, parte integrante della realtà

    flavio paganoFlavio Pagano- Scrittore, giornalista, autore teatrale e televisivo. Autore di due romanzi/diari "Perdutamente" e "Infinito presente"nati da una storia vera di una famiglia in cui l'anziana madre viene colpita dall'Alzheimer

    Le varie forme di demenze che stanno colpendo milioni di persone nel mondo pongono una domanda: siamo pronti culturalmente, emotivamente, socialmente ad affrontare questa condizione? Lei si chiede: l’Alzheimer è soltanto una malattia? Ma cosa vuol dire malattia? Io aggiungo: non disponendo di soluzione farmacologiche non si dice troppo spesso e troppo presto non c’è più niente da fare dopo una diagnosi di demenza, suscitando panico e confusione? Nello stress e nella fatica del caregiver è presente il rischio di non vedere la persona? Non c’è una sorta di rifiuto dei deficit cognitivi e dei comportamenti imprevedibili?

  • Giacomo di cristallo e la bambina di vetro

    La bambina di vetro“La bambina di vetro” è il nuovo testo scritto e illustrato da Beatrice Alemagna; pubblicato per la prima volta in Francia nel 2002 ed edito in Italia da TopiPittori nel 2019.
    La storia, (come l’autrice stessa ci racconta nella prefazione del libro) è stata ispirata da “Giacomo di Cristallo” del geniale Gianni Rodari, testo che fin da bambina ho amato e sognato di illustrare.
    Si potrebbe dire che Gisèle, la protagonista di questo libro, sia la sorellina francese di Giacomo (nata a Parigi e mai pubblicata prima d’ora in Italia). A differenza dl suo gemello italiano, Gisèle non viene messa in prigione ma solo esclusa e costretta a cercare un luogo da poter chiamare “casa”. La bambina di vetro non è una storia che parla di quanto sia potente la verità, ma di fiducia in se stessi e di coraggio, doti che coloro che oggi lottano nella vita non dovrebbero mai perdere. (1)
    "Giacomo di Cristallo" è una delle note favole al telefono di Gianni Rodari; nelle prime righe della sua storia possiamo leggere:
    “Una volta, in una città lontana, venne al mondo un bambino trasparente. Attraverso le sue membra si poteva vedere come attraverso l’aria e l’acqua. Era di carne e d’ossa e pareva di vetro, e se cadeva non andava in pezzi, ma al più si faceva sulla fronte un bernoccolo trasparente”. (2)
    Anche la bambina di vetro nasce trasparente e fragile, come si evince dal parallelismo che segue:
    “Un giorno, in un villaggio vicino a Bilbao e a Firenze, nacque un bambino di vetro. Anzi, una bambina. Era così carina con i suoi grandi occhi, così perfetta con le sue piccole mani, così pura e luminosa… ma così trasparente! Brillava, scintillava, si confondeva con gli oggetti, cambiava colore al tramonto e sotto il sole si trasformava in mille riflessi”.
    In aggiunta alle poetiche parole dell’Alemagna, vediamo anche un uso delle illustrazioni pittoresco e peculiare, che assorbe completamente la nostra attenzione, tra un gioco di colore dato dalle sfumature di un azzurro cielo e il suo tratto grafico che ci ricorda il suo celebre albo illustrato “Un leone a Parigi”.
    Interessante inoltre notare come ci sia la stessa autrice all’interno delle pagine, in particolare nella valigia di Gisèle dove si notano le due parti del suo cuore (e delle sue patrie): Parigi con una piccola Tour Eiffel – un souvenir – e l’Italia con un vecchio francobollo delle Poste Italiane.

    Troppa trasparenza
    Non è solo l’apparato iconografico a stregarci, tutto l’oggetto libro ci catapulta nel racconto e ci fa stare attenti. Sfogliando il testo, infatti, vediamo scorrere il tempo della bambina di vetro che, crescendo, porta con sé paure e dubbi su se stessa, una scoperta intima di sé che purtroppo, però, non rimane così intimistica e questo perché anche i suoi pensieri sono trasparenti e capaci di essere letti da tutti.
    A diventare limpidi ed evidenti, non sono però solo i pensieri di Gisèle, ma anche il racconto che, pagina dopo pagina, mette in luce i dolori della bambina facendo diventare il libro stesso trasparente, creando una mimesi totale con la protagonista della storia e con l’oggetto libro in sé, attraverso il tatto e la vista.
    Ogni suo pensiero era letto e studiato dagli altri, che la criticavano e accusavano, pensando che dovesse imparare a tenerli per sé, finché un giorno la bambina se ne andò pronta per scoprire dove potesse stare senza essere giudicata dagli altri. Ma, ovunque lei andasse, i problemi ritornavano e le persone non la capivano. Così un giorno, si stancò di fuggire, e tornò a casa.
    Anche se la verità è spaventosa e la gente preferisce ignorarla. (3)

    La verità spaventa
    Questo libro a figure ci insegna parecchie cose: innanzitutto quanto sia importante lavorare su se stessi e sull’accettarsi, in un momento storico in cui i social network e i media danno come messaggio ai ragazzi quello di essere perfetti e omologati, quando invece la diversità è e deve essere ciò che ci distingue dagli altri, ciò che ci rende speciali, non negativamente differenti.
    In una società in cui l’esclusione è all’ordine del giorno, dove l’abbattimento delle barriere e il fatto che:
    «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali» (4).
    Sono solo parole al vento, un libro in cui una ragazza capisce che ha il diritto di rimanere a casa sua esattamente come le altre persone, serve a noi adulti e agli adulti di domani.
    Inoltre ci mostra come la verità spaventi le persone, abituate a vivere tra ipocrisie e decise nel richiamare i bambini quando, senza alcun filtro, dicono ciò che pensano sia rispetto a chi incontrano, sia rispetto a chi vorrebbero essere o diventare.
    Gisèle, da donna ormai indipendente, ha il suo lieto fine, le spetta questo lieto fine. Non si può purtroppo dire lo stesso per “Giacomo di cristallo”, che al contrario andò in galera per i suoi pensieri fluttuanti, anche se poi successe qualcosa di straordinariamente magico (o meglio, giusto):
    “Il tiranno fece arrestare Giacomo di cristallo e ordinò di gettarlo nella più buia prigione.
    Ma allora successe una cosa straordinaria. I muri della cella in cui Giacomo era stato rinchiuso diventarono trasparenti, e dopo di loro anche i muri del carcere, e infine anche le mura esterne. La gente che passava accanto alla prigione vedeva Giacomo seduto sul suo sgabello, come se anche la prigione fosse di cristallo, e continuava a leggere i suoi pensieri. Di notte la prigione spandeva intorno una grande luce e il tiranno nel suo palazzo faceva tirare tutte le tende per non vederla, ma non riusciva ugualmente a dormire. Giacomo di cristallo, anche in catene, era più forte di lui, perché la verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminosa del giorno, più terribile di un uragano.” (5)
    "La bambina di vetro" può essere inserito all’interno di un percorso interdisciplinare negli ultimi anni della scuola primaria in cui si voglia parlare dell’inclusione a scuola e per far scoprire ai bambini la loro unica identità, tenendo bene a mente le parole delle Indicazioni Nazionali:
    Poiché comunità educante, la scuola genera una diffusa convivialità relazionale, intessuta di linguaggi affettivi ed emotivi, ed è anche in grado di promuovere la condivisione di quei valori che fanno sentire i membri della società come parte di una comunità vera e propria. La scuola affianca al compito «dell’insegnare ad apprendere» quello «dell’insegnare a essere». L’obiettivo è di valorizzare l’unicità e la singolarità dell’identità culturale di ogni studente. La presenza di bambini e adolescenti con radici culturali diverse è un fenomeno ormai strutturale e non può più essere considerato episodico: deve trasformarsi in un’opportunità per tutti. (6)
    È un libro sicuramente da proporre, dai sette anni in su, dotato di illustrazioni molto belle ed anche consigliato a chiunque abbia voglia di fare un viaggio nella propria intimità, per imparare a vedere la verità che ci circonda.

    Note
    (1) Dalla prefazione de La bambina di vetro, B. Alemagna, TopiPittori, Milano, 2019.
    (2 )G. Rodari, Favole al telefono, Einaudi, Torino, 2010, p. 142
    (3 )G. Quarenghi, La bambina dei libri, TopiPittori, Milano, 2019
    (4) Costituzione Italiana, art. 3
    (5) G. Rodari, op.cit., p. 144
    (6) MIUR, Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, Le Monnier, 2012, p. 10

  • Gianni Zanotti: la scrittura e mia moglie le mie armi per combattere l'Alzheimer

    Gianni Zanotti

    Gianni Zanotti- fotografo, operaio metalmeccanico, sindacalista, assessore poi ha incontrato l'Alzheimer

    Ho letto i suoi due libri: uno cartaceo “La storia testarda e forse improbabile di un uomo in pensione- Racconto autobiografico” (Carmignani editrice -progetto Doc) e sempre con lo stesso editore un e-book “In viaggio con l’Alzheimer”. Nel primo c’è davvero la sua autobiografia-partendo dal paesino della Romagna dove è nato, sino al suo pensionamento, passando attraverso lavori diversi: da fotografo a operaio alla Innocenti e sindacalista a tempo pieno e poi assessore nel piccolo paese nell’Oltrepò Pavese. Poi l’ultimo capitolo quando incrocia il suo nemico, l’Alzheimer e la battaglia ancora aperta di cui parla nell’e-book.
    Più volte richiama la scrittura e la sua funzione demiurgica per metter in ordine i pensieri, trasferirli dalla sua mente e dal suo cuore, ad un piano d’incontro con gli altri. Compito che ritiene necessario e stimolante, anche e soprattutto in presenza dell’Alzheimer. Perché questa attrazione e questo compito assegnato al raccontare e al raccontarsi, in forma scritta?
    Scrivere, oltre che leggere, è una passione che mi porto dietro fin da bambino. Alle scuole elementari e alle medie le mie insegnanti leggevano sempre i miei temi in classe.
    Con la malattia, la scrittura sopperiva alla difficoltà della parola, parola che era stata in passato lo strumento principale del mio lavoro e rappresentava quindi un modo nuovo di comunicazione. Nello stesso tempo mi sono accorto che lo scrivere mi ha aiutato a ricordare. Tanti episodi del mio passato mi sono tornati in mente con un foglio bianco davanti e una biro in mano. Metterli su carta, nero su bianco, ha fatto sì che non andassero persi. Sapevo che, prima o poi, sarebbe arrivato il momento in cui avrei scordato.
    Quindi raccontare e raccontarmi per non dimenticare e come testimonianza del mio vissuto, passato e presente, da trasmettere e condividere con gli altri. La consapevolezza di sapere e poter scrivere ha fatto sì che mi tenessi sempre impegnato, sentendo che stavo facendo qualcosa di utile e interessante per me e per gli altri. Scrivere è stato un argine contro l’avanzare della malattia.

    Questa sua “dipendenza” dalla parola scritta ha fatto sì che, a fronte delle difficoltà che l’avanzare della malattia poneva all’esercizio manuale con la sua “biro”, pur di procedere ha cercato altri strumenti e altri appoggi per tradurre i suoi pensieri: registrare le sue parole con modalità diverse, cercare chi poteva aiutarlo a dare corpo e logica ai suoi pensieri. Come è stata costruita questa opportunità e quali vantaggi ne ha tratto?
    IMG 20190213 115414Quando mi sono accorto di non riuscire più a scrivere per me è stato un dramma. Però non mi sono arreso. Avevo una fortissima esigenza di continuare a raccontare. Abbiamo cercato altri sistemi, prima con un registratore poi con un programma di dettatura applicato sul PC, che però non hanno funzionato perché mi mettevano a disagio. Io avevo bisogno di un contatto umano. L’opportunità è arrivata con Sabrina, educatrice di una RSA della zona che ha subito abbracciato con entusiasmo l’idea di aiutare un malato di Alzheimer a scrivere della propria malattia. Io raccontavo e Sabrina, seduta al PC, scriveva e dava forma e corpo ai miei pensieri. È così che è nato il secondo libro “In viaggio con l’Alzheimer”.
    È stata un’avventura entusiasmante, un traguardo di cui vado orgoglioso che ha aumentato la mia autostima nella convinzione di aver fatto qualcosa di importante che poteva aiutare altri nella mia situazione ed i loro familiari, oltre che tutti gli operatori che ogni giorno si confrontano con noi ammalati.

    Lei nel libro “In viaggio con l’Alzheimer” dice che nello sfondo c’è sempre Claudia sua moglie. In realtà Claudia è sempre in primo piano nei suoi pensieri perché come afferma, anzi scrive nel titolo di un capitolo “Di amore non sono vecchio- Sono ancora un amante, sono ancora innamorato e ho la mia Claudia che mi protegge”. Di Claudia parla sempre e ci racconta del sostegno che da lei riceve costantemente. Cosa dice Claudia di questa suo nuovo viaggio?
    Claudia e GianniClaudia per me è tutto. È un’amante, una compagna di viaggio, il mio sostegno in tutte le circostanze. Quando lei è vicino a me io sono sereno e mi sento al sicuro. Senza di lei sarei perso. Tuttavia sono consapevole di quanta fatica per lei tutto ciò comporta e questo causa momenti di sofferenza ma subito superati da momenti di tenerezza.
    Lei ha intrapreso questo viaggio all’inizio con molti interrogativi, dubbi e paure sul modo di operare e di comportarsi, ma ha imparato rapidamente, sul campo, ed ha svolto e sta svolgendo un lavoro fantastico. Sicuramente è anche merito suo se la mia malattia ha progredito così lentamente.

    Questi suoi due libri confermano un’idea che comincia a farsi strada: una persona con l’Alzheimer ha ancora tante cose da fare e da comunicare. Nessuno come chi vive la malattia, può essere testimone così prezioso e puntuale su ciò che sta cambiando nel suo umore, nel suo cervello e nei suoi comportamenti. Leggendo i suoi scritti appaiono informazioni, descrizioni di stati d’animo e della loro origine, motivazioni di comportamenti, inspiegabili per chi sta di fuori. Cito tre situazioni che mi hanno colpito, da profana, e che solo il suo racconto mi ha permesso di registrare per rileggere situazioni analoghe precedenti.
    Lei racconta che non riconosce le persone dal viso, ma dalla voce; poi, aiutato da un bel carattere, cerca sempre di essere mite e gentile anche quando trova ostacoli; poi parla del piacere e dell’importanza che ha per lei l’incontro con gli amici, lo stare insieme. Sono tutti passaggi che un estraneo, anche professionista, forse non tiene sempre a mente. Come queste sue “informazioni” sono accolte dai medici e professori con cui è venuto in contatto?
    Questo purtroppo è un punto dolente. Non c’è stato da parte della classe medica che mi ha seguito in tutti questi anni (sono in cura da otto anni circa), al di là di un incoraggiamento a continuare con la scrittura, un interesse vero ed un approfondimento sui temi sviluppati nel mio ultimo libro, sulle mie sensazioni, ansie paure e gioie, sul mio modo di vivere la malattia e di contrastarla e sul fatto che noi abbiamo applicato sin dall’inizio quella che ora viene definita come “terapia comportamentale” e che a detta di molti specialisti avrebbe un effetto più benefico della terapia farmacologica e noi concordiamo pienamente con questa tesi.

    Gianni sabrina e ClaudiaIn genere è una domanda personale, ma parlando di autobiografia è tutto personale Si avverte in questo suo sforzo, per mantenere attiva la comunicazione scritta e parlata, anche la consapevolezza dell’aiuto offerto a chi sta vivendo una esperienza simile e l’invito ai famigliari in primo luogo ma alla società civile in generale a non fuggire davanti alla malattia, a coglierne sin dall’inizio i sintomi per poterli affrontare
    Conclude dando un catalogo di istruzioni d’uso per principianti che suddivido in tre aree
    1)socializzare, cercate l’amore, l’amicizia
    2)aggirare gli ostacoli e mantenere i propri interessi e cercarne di nuovi
    3) godere delle cose belle, imparare a ridere dei limiti e dei piccoli fallimenti
    Come pensa di continuare a informare e formare altre persone nella sua stessa condizione?
    È una domanda a cui è difficile rispondere ora perché dipende molto dall’evoluzione della malattia.
    Io comunque non ho ancora deposto le armi e sono determinato a continuare la mia battaglia contro il Sig. Alzheimer. Troveremo certamente altri modi per continuare a dialogare con il mondo esterno.

     La storia testardaIn viaggio con lAlzheimer

     

     

  • I cittadini di Erba contro l'intestazione di una via al podestà fascista

    diana catellaniViviamo in un momento di grande confusione: la gente ha perso i punti di riferimento che una volta orientavano le sue scelte e ora si lascia incantare da chi grida più forte, da chi fa le promesse più mirabolanti e non importa se poi non le mantiene.
    In questo clima, risultano premianti a livello politico atteggiamenti, prese di posizione e linguaggio, che rievocano sinistramente un passato tragico del nostro paese.
    È forse su questo stato di confusione generale che la giunta di Erba ha pensato di proporre di intitolare una via della città al podestà Alberto Airoldi e un’altra a mons. Pirovano, partigiano e missionario in Brasile. Per avvalorarne la portata di “pacificazione” civile, la mozione è stata presentata a nome di uno scenografo, molto conosciuto in Italia e all’estero, ma è facile pensare che gli fosse stata richiesta dalla sindaca attuale, nipote del podestà Airoldi. Nella motivazione si citavano i meriti culturali di quest’ultimo, che aveva fatto costruire, a spese proprie e di un suo fratello, un teatro all’aperto e che si era fatto conoscere anche come poeta dialettale.

  • I post di Davide

    15 luglio 2015

    11696025 10207428921789428 5195516473415907370 nSiamo alla frutta...il reparto

    25 settembre 2016

    Una volta si diceva "è impazzito di dolore" oppure "è morto di crepacuore" oppure ancora "ha un travaso di bile". Adesso si 
chiamano Alzheimer, infarto o tumore al fegato (i medici mi perdonino le licenze semplificative). Non mi pare ci sia stata tutta questa evoluzione nella medicina alla fine della fiera. Sancire l'esistenza di malattie con un nome preciso e non più "ingenuamente" popolare offre anche il "vantaggio", inoltre, di aprire tutto un mercato di farmaci, santoni
e terapie. Ma soprattutto, mi raccomando, non domandiamoci mai il perché delle nostre malattie. Cosa vogliono dirci ed insegnarci. Mettiamoci nelle mani di un esperto e lasciamoci bombare da farmaci che ci risolvano tutto, quando va bene, senza aver capito un cazzo del perché stavamo così. Mi raccomando. Se non si vuole capire un cazzo di niente (che potrebbe essere un obbiettivo esso stesso di interesse, mi pare, largamente diffuso attualmente) si faccia così.

    25 dicembre 2016
    15622456 10211937118491528 6107261858406532574 n

     16 gennaio 2017 

    mia madre ha richiesto più volte, non una sola, di poter avere con lei a letto un uomo. L'ha chiesto con estremo candore ma anche una percettibile e vibrante emozione. Ora, io, per tranquillizzarla, le ho subito garantito che avremmo trovato qualcuno, magari a pagamento (fatico grandemente ad immaginare altre modalità considerando anche di dover bypassare tutta la fase del corteggiamento e della ricerca di intimità). Le chiedevo anche di indicarmi eventuali preferenze etniche o tipologiche. Orbene, sono nuovo di queste ricerche, cerco suggerimenti o addirittura...volontari. So che il Mondo è sempre foriero di insospettabili ed inaspettabili sorprese 

  • I post di Marco


    26 dicembre 2015

    Schermata 2018 10 19 alle 19.37.33In questi ultimi giorni mia madre ha iniziato a parlare sempre più spesso di avvenimenti che hanno quasi la mia età. Io, che non li conosco, li trascrivo velocemente su una vecchia Moleskine e, ogni tanto, guardo mio padre per chiedere conferma su qualcosa che non mi convince del tutto. Scrivo di fretta e salto alcune pagine su cui la mia calligrafia ha segnato appunti indecifrabili, pensando che nella sua testa succeda una cosa simile: vecchi ricordi frettolosi che ne seguono altri indecifrabili, a volte strappati a metà.
    Sebastiano, da quando è stato diagnosticato l’alzheimer di Lucia, si è preso cura di lei, da solo, sopportandone gli sbalzi d’umore e le prime lievi dimenticanze. A volte, però, le continue domande di Lucia lo spazientiscono e finisce che le risponde male. Così, a sua volta, lei replica e vanno avanti fin quando uno dei due non decide di lasciar perdere.
    In questi giorni le cose vanno meglio. Lucia è felice del mio ritorno a casa e, così, la sua attenzione e le sue domande sono tutte indirizzate a me.
    Ogni tanto, come se tutto fosse normale, racconta alcuni episodi della sua vita. A vederla oggi, nulla fa presagire il crollo che ci sarà dopo il ricovero di mio padre, fra poco più di tre mesi. A vederla oggi, nessuno potrebbe pensare che mia madre sia malata di alzheimer.
    Mentre porto a tavola il caffè insieme a delle piparelle siciliane, Lucia ha appena finito di parlare al telefono con una vecchia amica e sta ancora sorridendo. Poi, facendo finta di nulla, si avvicina a mio padre, gli fa il solletico sul fianco e ride, mentre lui salta dalla sedia e impreca una, due volte.
    L: «Sebastiano, ma ti ricordi che Elena mi aveva consegnato la tua lettera?»
    S: «Certo che me lo ricordo, l’ho scritta.»
    Mia madre diventa tutta seria e poi si gira verso di me.
    L: «Tu non lo sai ma Elena faceva la ruffiana con me e con tuo padre.»
    M: «In che senso?»
    L: «Nel senso che faceva la ruffiana.»
    M: «Cioè?»
    L: «Ma cos’è, non capisci? Faceva la ruffiana.»
    M: «Ah, la ruffiana» dico io, senza aver ancora inteso il senso.
    L: «Eh, la ruffiana. Mi consegnava le lettere che tuo padre scriveva per me.»
    M: «Ma dai, ti scriveva delle lettere?»
    L: «Certo. Non lo sapevi?»
    M: «No, non avete mai detto nulla.»
    L: «Scriveva belle lettere d’amore ma io non gli rispondevo nemmeno.»
    M: «Ma le avete ancora quelle lettere?»
    L: «No, mi sa che sono state buttate parecchi anni fa.»
    M: «Ma no, perché?»
    S: «No, che buttate! Mi sembra che si sono perse durante qualche trasloco» replica mio padre, anche se con poca convinzione.
    M: «Vastià, e che le scrivevi?»
    S: «Fattelo dire da lei.»
    L: «Ma sai che non me lo ricordo?»
    M: «Come non te lo ricordi?»
    L: «È che all’epoca, onestamente, non ricordavo nemmeno che tuo padre fosse capace di scrivere.»

  • Ikigai: cos’è e come trovare il proprio senso della vita

    rita rambelliMolte cose oggi di moda vengono dal Giappone: dal cibo (sushi, tempura, ramen, ecc), ai fumetti Manga che sempre di più incontrano il favore dei nostri adolescenti, ai video giochi, alle arti marziali, alle auto elettriche o alle moto più veloci, ecc.
    Tra tutte queste cose che ci arrivano dal Giappone e che hanno suscitato interesse in Italia c’è anche un concetto che dovrebbe aiutarci a vivere meglio.
    Parlo dell’Ikigai, ovvero il concetto giapponese dell’importanza di “trovare la ragione per vivere e per cui svegliarsi la mattina.”
    Tutti noi in diversi momenti della nostra vita ci siamo posti la fatidica domanda: cosa ci facciamo qui? Qual è lo scopo del nostro essere al mondo?
    In Giappone l’idea di avere uno scopo nella vita è racchiusa nel termine Ikigai che possiamo sintetizzare con le nostre più famigliari frasi “ragione per vivere” o “ragione della propria esistenza“.
    I giapponesi ritengono che ogni persona abbia il suo scopo nella vita e arriva il momento in cui è necessario farci i conti andando a ricercarlo attivamente, per questo questa teoria si sforza di spiegare l’importanza per una vita lunga e felice, di trovare il proprio scopo nella vita, cosa si vuole davvero fare e su cosa investire energie e tempo.
    Prendere coscienza di questo e portarlo avanti nella propria quotidianità si ritiene possano migliorare l’esistenza sotto diversi aspetti: non solo soddisfazione e senso di appagamento ma anche maggiore salute e soldi.
    Nel paese del Sol Levante il concetto di ikigai è di fondamentale importanza e sull’isola di Okinawa, la regione più meridionale e soleggiata del Giappone nota perché lì risiede una delle popolazioni più longeve al mondo, il termine “ikigai” viene tradotto come “un motivo per alzarsi la mattina”.
    Il termine è formato da due parole ikiru (vita) e kai (la realizzazione di ciò che si spera) ma può indicare anche genericamente la persona che si ama (in effetti anche questa è un’ottima ragione per cui svegliarsi la mattina!).
    L’ikigai è per la maggior parte dei giapponesi un qualcosa su cui vale davvero la pena investire anche se scoprire il proprio scopo nella vita può richiedere tempo e fatica.
    C’è chi quasi subito riconosce le proprie aspirazioni e attitudini, chi invece piano piano deve farle emergere per poter prenderne coscienza.
    Per trovare il proprio ikigai dobbiamo porci e rispondere a queste 4 domande:
    1. Che cosa ami, qual è la tua passione?
    Questa è una domanda fondamentale da porci che può essere lo stimolo fondamentale e il vero “motivatore” della nostra esistenza anche e soprattutto nel mondo moderno quando spesso siamo portati invece a concentrarci sulla soddisfazione troppo rapida di desideri spesso del tutto materiali. Chiedetevi dunque: cosa mi piace veramente?
    Cosa farei se non avessi il problema di dover guadagnare e potessi davvero seguire il mio cuore in completa libertà?
    2. In cosa sei bravo?
    Questa potrebbe essere la domanda chiave per tirare fuori la propria vocazione. Per molti, la risposta può essere la stessa della prima domanda ma per altrettanti non lo è. Si tratta di una questione più pratica e meno emotiva, perché tutti sappiamo, almeno in parte, per cosa siamo portati. Passione e talento non sempre coincidono: potremmo ad esempio voler essere un attore perché magari questa è la nostra passione ma ci troviamo spinti ad essere invece un organizzatore di spettacoli perché è ciò che facciamo meglio. Questa è la nostra vocazione.
    3. Cosa vuole il mondo da te?
    Questa è probabilmente la domanda più difficile. In sostanza si tratta di capire qual è la vera missione o compito che abbiamo sulla terra. Quel qualcosa utile non solo a noi stessi per evolvere ma che aiuterà anche gli altri e il pianeta stesso a diventare un posto migliore.
    4. Con cosa puoi procurarti da vivere? Qual è la tua professione?
    L’ultima domanda è la più pratica e anche abbastanza semplice perché tutti (o quasi) ad un certo punto della propria vita hanno dovuto lavorare per potersi procurare i soldi necessari a vivere.
    Naturalmente le risposte a queste domande possono sovrapporsi ma possono essere anche molto diverse quindi è necessario trovare un equilibrio tra tutte le cose anche se non è sempre facile ad esempio seguire la propria passione e allo stesso tempo procurarsi del denaro con qualcosa in cui si è realmente bravi. Anche seguire la propria missione ma non essere in grado di contribuire alle spese della propria famiglia o al contrario avere molti soldi ma sentirsi insoddisfatti in quanto a passioni e aspirazioni, sono strade che non funzionano e non portano a raggiungere l’ikigai.
    Ho cercato di pensare a quale età avrei dovuto pormi queste domande, forse se me le fossi poste in tempo avrei fatto scelte diverse, ma, come si dice, ormai è tardi !!
    La cosa che mi ha consolato è rendermi comunque conto che mi sono sempre alzata volentieri la mattina felice di affrontare gli impegni di quella nuova giornata e quindi forse non tutto è stato sbagliato..!!!

     

     

  • Il Cohousing per la demenza al tempo del COVID 19

    Oggi è il mio turno spesa. Capita una volta al mese, ma mai come in questo periodo lo faccio volentieri.
    La stradina è tranquilla. Lo è sempre e se possibile lo è ancora di più in questi giorni di restrizione alla mobilità. Nel silenzio si possono sentire i tintinnii delle campane a vento (ne abbiamo appese un po’ dovunque) che s’intrecciano con i richiami degli uccellini che godono appieno la bellezza di questa primavera sfacciata, dell’aria senza smog, della città silenziosa. Quando mi avvicino al muro di cinta della villetta, intravedo la mia mamma che passeggia nel giardino pieno di fiori con la sua andatura un po’ rallentata. Non è molto anziana, ma da una decina d’anni è malata di Alzheimer e la progressione inesorabile della malattia rende necessario che lei sia accudita anche per lo svolgimento delle attività più semplici. Ormai fatica a parlare e anche a camminare, tuttavia è ancora così bella con il foulard e il suo cappellino viola a tesa larga! Le signore che la accudiscono, e che sono con noi da molti anni, fanno in modo che lei sia sempre curata ed elegante, proprio come quando stava bene e poteva provvedere da sola al suo abbigliamento.
    de maison172949Non so se oggi mi riconoscerà, anche perché indosso la mascherina, ma la mia voce riesce ancora a strapparle un sorriso. E mi sento davvero molto fortunata. Sono felice per lei, per la soluzione che ho trovato per lei, la coabitazione nel Cohousing Demaison (1).
    Mi fa rabbrividire il pensiero che, se fosse ricoverata in una struttura, anche nella migliore delle strutture, in questo lungo periodo di quarantena non avrei potuto vederla.Mi sono identificata in quei familiari, persone come me, che sono stati private anche dell’abituale grado di accudimento che potevano dare ai propri cari e che in qualche modo li faceva sentire più sereni. Che hanno paura di perdere questi affetti senza nemmeno un vero commiato. Un dolore lunghissimo da sostenere.
    Come tutti ho negli occhi le immagini delle bare accatastate e nel cuore le parole di quell’anziano signore, dignitoso ed elegante anche nella sofferenza e nella morte, che lamenta la mancanza di un sorriso, di una carezza, la mancanza di rispetto per lui e il suo modo, speciale e unico, di essere al mondo.Mi ha stretto il cuore la sua perdita e quasi ancora di più la perdita di tutti quelli, senza voce, che non hanno saputo o potuto trovare parole così precise, pacate e sagge per descrivere il proprio dolore. Penso agli altri anziani e ai malati di demenza come la mamma, a tutti quelli che l’emergenza Covid non la capiscono poi tanto bene, anche se gliela spieghi più volte, e che, in effetti, si sentono proprio traditi e abbandonati dai familiari, che non vedono da molti giorni.
    Certo ho visto in televisione operatori di buona volontà che cercavano di mostrarglieli su un tablet, ma so per esperienza che per un malato di demenza è proprio come guardare una fotografia, una diavoleria che non serve proprio a nulla, che non gli scalda il cuore. Non li rassicura dallo spavento che provano per il clima di inquietudine che percepiscono intorno a sé, o per la paura che incutono le figure imbacuccate degli operatori che si aggirano tra loro ancora più frettolosamente del solito, che si tengono a distanza di sicurezza, anche emotiva, perché certo non deve essere facile veder morire come mosche le persone che stai accudendo, alle quali magari potresti anche affezionarti, perché ti fanno simpatia, perché ti fanno pensare ai tuoi nonni… Per fortuna in Friuli non abbiamo avuto così tanti contagi come in altre regioni d’Italia a noi vicine, ma anche qui decessi hanno riguardato in buona parte ospiti delle case di riposo.
    192214Ovviamente per tutta questa sofferenza si stanno cercando responsabilità ed errori, una risposta al dramma, e viene piuttosto facile puntare il dito contro le strutture residenziali protette. Personalmente non credo che sia del tutto corretto cercare i colpevoli tra le file degli OSS, degli infermieri, o dei dirigenti delle case di riposo. È piuttosto Il sistema che non ha retto. Forse quanto è accaduto in questa situazione di emergenza ha semplicemente portato allo scoperto un problema che già c’era, ma che si preferiva ignorare. Forse la pandemia di Covid 19 ci costringe finalmente a prendere atto del fatto che è una contraddizione in termini chiedere personalizzazione e una cura attenta e sensibile a una struttura che già nei grandi numeri dell’accoglienza è spersonalizzante…Con un personale cui si chiede più di essere veloce che sensibile, per rispettare i tempi, certo, per la funzionalità di una struttura complessa, anche senza voler pensare a motivi puramente economici di risparmio o di lucro, che pure potrebbe essere, purtroppo, la motivazione di alcuni imprenditori. È un po’ come chiedere a un abito industriale di avere cuciture e dettagli fatti a mano e di adattarsi perfettamente a quel nostro particolare fisico, a quelle nostre specifiche esigenze. Magari è un abito magnifico, di ottima qualità, ma non è fatto su misura per noi e ce ne dobbiamo fare una ragione.
    L’alternativa che si dà per scontata, quella cui generalmente si fa riferimento parlando di sostegno alla domiciliarità, è quella dell’assunzione di un’assistente familiare, la cosiddetta badante. In tempi di “pace” questa modalità rassicura e convince molti familiari in quanto il malato rimane nella propria casa e l’assistenza è certamente personalizzata. Naturalmente anch’io l’ho valutata, anni fa, ma mi sono resa conto che non solo non mi avrebbe consentito di proseguire nella mia attività professionale il dover coprire le assenze dell’operatrice durante le pause dai turni di lavoro e che il piccolo appartamento di mia madre si sarebbe trasformato in una gabbia, uno spazio inadeguato a contenere il suo bisogno di muoversi senza sosta (wandering) e l’affaccendamento, ma soprattutto che è una modalità assistenziale decisamente povera di stimoli per il malato e che porta spesso al burnout della badante, in buona parte per la mancanza di una dimensione sociale per entrambi. È ormai ampiamente dimostrato che la vicinanza dell’altro, il ritmo della condivisione, lo sguardo che ti accoglie e ti sostiene sono essenziali per tutti gli esseri umani e che nel caso dei malati di demenza la relazione diventa addirittura uno strumento terapeutico centrale e potente.
    A causa della pandemia, oltre a questi elementi, sono emerse nuove criticità di questa modalità assistenziale che si è trasformata per molti in un incubo. Alcune badanti, quelle che ci sono riuscite, sono rientrate nel loro paese di origine allo scoppio dell’emergenza sanitaria, lasciando le famiglie dei loro assistiti in grosse difficoltà; altre sono rimaste bloccate qui a causa della chiusura delle frontiere, costrette da quasi due mesi a lavorare senza soluzione di continuità, a convivere con i loro assistiti e le loro difficili patologie senza potersi prendere nemmeno una pausa di svago e di ristoro. Dubito davvero che possa essere un’assistenza di qualità quella prestata da una persona che si trovi in uno stato di così grave disagio. Soprattutto quando parliamo della cura di un malato di demenza al quale è molto difficile spiegare le restrizioni e le necessità dettate dal pericolo di contagio.
    185019Invece la realtà di cohousing che ho creato ormai da sette anni per la mamma è “sartoriale” e anche in questa fase di emergenza pandemica si è rivelato una scelta vincente. Essendo Interamente autogestito, tocca a me, e ai familiari degli altri due residenti prendere ogni tipo di decisione. Purtroppo sono state inevitabili alcune limitazioni; abbiamo dovuto interrompere una serie di attività che avevamo scelto, tenendo conto dei gusti e della fase avanzata della malattia, per arricchire di senso e di stimoli la giornata della mamma e degli altri co- residenti. Niente laboratorio artistico in questo periodo, niente shiatsu o campane tibetane. Abbiamo ovviamente ritenuto di essere prudenti e di proteggere il più possibile la sicurezza di questa oasi, nell’interesse dei nostri cari e delle due operatrici residenti. Veniamo qua molto più raramente di prima, soprattutto per portare la spesa, per i farmaci, per risolvere qualche piccolo problema della casa. Quasi sempre ci limitiamo a sostare in giardino nell’ora in cui la mamma e gli altri si crogiolano nel sole, socchiudendo gli occhi con piacere, proprio come i gatti del vicinato, che lo scelgono spesso come teatro di giochi e scorribande. Certo la mamma sente la mancanza delle coccole, dei baci e delle carezze che le davo prima del Covid 19. Entro solo indossando camice, mascherina, guanti di lattice, ma posso esserci. Posso vedere con i miei occhi il suo benessere. Posso accarezzarla con la mia voce.
    Posso anche rassicurare le signore, poverine anche loro, che sono lontane da casa e sentono storie sconfortanti. Una loro collega, ad esempio, morta per il Covid 19 e le cui ceneri non sono ancora state restituite alla famiglia, altre che hanno tentato di rientrare in patria, ma sono state fermate ai confini. Ma soprattutto sentono i racconti di quelle colleghe, tante, che dal lockdown sono state intrappolate, ostaggio del Covid 19, in una casa con un assistito, magari un malato di demenza, e non possono più allontanarsi, a causa delle restrizioni alla mobilità e al fatto che i familiari, a loro volta, sono limitati nella possibilità di intervenire per le sostituzioni. Mesi senza potersi concedere le pause di meritato riposo e si sentono infinitamente sole, senza nemmeno le quattro chiacchiere che si scambiano abitualmente ai giardinetti pubblici. Una situazione così insostenibile da farle immaginare di rinunciare a prossimi incarichi e non riprendere più il lavoro una volta che abbiano riguadagnato il proprio Paese.
    Le nostre signore invece, sia le due residenti sia la terza che le supporta alcune ore settimanali, hanno continuato a svolgere come d’abitudine e con relativa serenità il proprio lavoro, ma anche i propri turni di riposo. Sono state limitate ovviamente, proprio come tutti noi, nell’uscita da casa, ma essendo in due Si fanno compagnia e si sostengono a vicenda. Considerano la Demaison un po’ la loro seconda casa e noi siamo una specie di famiglia. Sentono, come me e gli altri familiari, di appartenere a una vera comunità, nel senso letterale del termine, di essere parte di un gruppo di persone che compie un incarico assieme, che partecipa di un onere condiviso. Un obbligo che è allo stesso tempo un dono, come suggerisce la parola latina munus da cui deriva.
    Il compito straordinario che ci è stato affidato e che ci accomuna, il nostro dono, è l’aver cura con pazienza e con rispetto di tre persone malate di demenza, della loro storia, delle loro fragilità e delle abilità che ancora conservano, facendo loro sentire quanto sono ancora importanti e degne di attenzione, restituendogli un’immagine positiva di sé.
    Non vedo l’ora di poter riabbracciare la mamma, perché so che il linguaggio del contatto è il più forte di tutti, viene prima della ragione e ci accompagna oltre il disgregarsi della stessa. Anche quando ogni altra forma di comunicazione è andata perduta, può generare comprensione e fiducia, far sentire protetti sia contro i pericoli esterni che contro lo sconforto interno. Con il mio abbraccio contemporaneamente fisico e psichico, posso onorare la sacralità del suo esserci nel mondo, fino all’ultimo istante della sua vita.

     

    (1)Il cohousing cui si fa riferimento è un progetto pilota che è stato costituito nel 2013 per iniziativa autonoma di tre famiglie di Udine con lo scopo di accogliere tre persone malate di forme precoci di demenza. L’Associazione Demaison promuove e sostiene questo progetto di coabitazione assistita, favorendo la costituzione di nuovi nuclei abitativi, impegnandosi nell’informazione e formazione dei caregiver familiari e del personale addetto all’assistenza e nella sensibilizzazione dei cittadini.

  • Il dopo SARS-COV-2, il virus che ci ha costretto a cambiare mappa mentale

    In questi mesi mi sono chiesta più volte come è iniziata questa pandemia? E soprattutto quando e come ne usciremo? Tra le varie risposte date dai vari scienziati, virologi, esperti di varie parti del mondo, spesso in disaccordi tra loro, personalmente ho condiviso le spiegazioni e le considerazioni di una virologa, Ilaria Capua, molto contestata in Italia nel 2013 in seguito ad una indagine giudiziaria dalla quale in seguito è stata prosciolta ma in seguito alla quale ha deciso di trasferirsi negli Stati Uniti, dove adesso risiede e lavora. Oggi dirige il Centro di Eccellenza One Health dell’Università della Florida. Ilaria Capua scrive nel suo libro IL DOPO, che in un momento imprecisato del 2019 si è verificato un evento biologico di eccezionale rarità: un virus animale ha fatto un salto di specie arrivando nell’uomo. Dalla metropoli cinese di Wuhan, il SARS-CoV-2 si è diffuso rapidamente in oltre duecento paesi, quella che gli esperti chiamano «pandemia».
    Nell’attesa di soluzioni e strategie per la crisi sanitaria, economica e finanziaria in corso, Ilaria Capua, prova a mettere a fuoco sia le cause sia le opportunità che questo tempo nasconde. Secondo l’autrice, infatti, si può considerare la comparsa del SARS-CoV-2 come uno stress test, in grado di misurare le fragilità del nostro sistema sociale e sanitario.
    Questo patogeno dalle dimensioni infinitesimali ha messo l’umanità intera di fronte al disequilibrio creato nel rapporto dell’uomo con la natura, alla riscoperta della nostra dimensione terrena e quindi anche della nostra caducità, che tutti siamo a rischio.
    Uno dei motti di Ilaria Capua è: «Every cloud has a silver lining», ogni nuvola ha una cornice d’argento. Se è vero anche una pandemia, mentre ci scuote dalle radici, ha qualcosa da insegnarci. Per esempio, che dobbiamo modificare il nostro atteggiamento nei confronti della natura e della biodiversità, ponendoci come guardiani anziché invasori.
    Questo periodo però ci ha anche insegnato che la tecnologia, se riusciamo a non esserne schiavi, può essere lo strumento straordinario che ci permette di difendere la socialità anche in tempi di distanziamento fisico. Che, se vogliamo una società informata, matura, la scienza non può essere messa all’angolo, ma deve tornare ad avere un ruolo centrale nella conoscenza. Se non vogliamo farci travolgere, insomma, dobbiamo considerare i segnali che questo evento storico sta facendo emergere, riflettere sul dopo e ripensare il mondo. Perché è a questo che stiamo andando incontro: a un mondo nuovo.
    L’ultima copertina dell’Economist mostra una chiara luce in fondo al tunnel. “Suddenly, hope”, è il titolo. Il riferimento è alle notizie incoraggianti che arrivano sul fronte dei vaccini. Da questi fenomeni epocali l’umanità è sempre sopravvissuta, anche quando non c’erano i vaccini, i monoclonali, gli antibiotici. Pensiamo alla Spagnola, cent’anni fa: era un virus influenzale, molto più aggressivo di questo e che colpiva i giovani. Eppure, nonostante tutto, siamo qui. Oggi, a circa un anno dall’emersione di questo virus, sappiamo alcune cose, a cominciare dal fatto che “eravamo del tutto impreparati”.
    Durante una recente intervista la Capua risponde ad alcune domande:
    Nel suo libro “Il dopo” spiega come il virus ci ha costretti a cambiare mappa mentale. Mentre le difficoltà sono evidenti a tutti, sulle opportunità si fa più fatica. Qual è la “cornice d’argento” di questo nuvolone in cui ci troviamo immersi?
    “Ho addirittura aggiornato la cornice d’argento facendola diventare un arcobaleno. Ho scritto un editoriale che uscirà tra qualche giorno su una rivista del gruppo Lancet intitolato “L’arcobaleno nella tempesta Covid”. Credo che questa sia una grande opportunità: vivevamo lungo percorsi obsoleti che non possiamo più riprendere. Alcuni sistemi sono saltati: i trasporti, così com’erano, per un certo numero di anni non potranno più essere. Dobbiamo trovare il modo di continuare a fare quello che facevamo in epoca pre-Covid aggiornando i nostri sistemi. Dobbiamo confrontarci con un desiderio di mobilità che è completamente cambiato. Alcuni modelli basati sul turismo di massa non erano più sostenibili. L’arcobaleno è la nostra possibilità di ripartire in un modo più sostenibile. È tempo di occuparci della nostra salute in maniera circolare, cioè capendo che siamo dipendenti da tutto quello che succede dall’altra parte del mondo. In tempi recenti avevamo avuto molte avvisaglie: ci sono stati Ebola, Zika, l’influenza suina, la Sars… sono cose che succedono, le altre sono state fermate, questa no. Su un punto siamo tutti d’accordo: non possiamo permetterci un’altra emergenza come questa. Cambiare non è una scelta: è una necessità”.

    La risonanza di teorie complottiste dimostra uno scetticismo diffuso attorno alla cultura scientifica e al pensiero razionale. È un fallimento della scienza? Del mondo della scuola? Come si rimedia?

    “Uno dei pezzi dell’arcobaleno è che bisogna partire con un’alfabetizzazione scientifica maggiore. La pandemia è proprio l’occasione giusta perché ora tutti vogliono capire. Il mio invito è: prendiamo quello che di buono la pandemia ci lascia - consapevolezze, abitudini, comportamenti, la speranza di poter andare in una direzione in cui un fenomeno del genere, con questa gravità, non potrà più accadere. “TI CONOSCO MASCHERINA”, il libro che ho scritto per spiegare la pandemia ai bambini, contiene le 400 parole di sanità pubblica che spero abbiano più impatto di tutto ciò che ho scritto in questi anni. È un libro che va letto in famiglia: serve per normalizzare questo virus e far partire delle discussioni all’interno della famiglia su come lavorare insieme, come sviluppare insieme queste mappe mentali. Senza queste diventeremo obsoleti personaggi ‘vintage’ che rappresenteranno ai giovani di domani come era la vita prima della Grande Pandemia. Quella del 2020.”

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  • Il libro della giungla: il racconto del passaggio dall'infanzia all'adolescenza e all'età adulta

    ida accorsi "Erano le sette di sera, di una serata molto calda fra le colline di Seeonee, quando papà Lupo si svegliò dal suo riposo diurno. Si grattò, sbadigliò e stirò le zampe una dopo l’altra per scuoterne dall’estremità il torpore del sonno."
    Iniziano così i racconti de "Il libro della giungla", uno dei lavori più conosciuti di Rudyard Kipling.
    Pubblicate per la prima volta tra il 1893 e il 1894 su alcune riviste, le storie narrate sono ambientate in India, terra cara allo scrittore, e incentrate sulle avventure di Mowgli e di alcuni animali della giungla.
    Descritti in maniera allegorica, i personaggi e le vicende di questi racconti rappresentano una delle fonti più affascinanti per comprendere i rapporti tra l’Occidente e l’India alla fine del XIX secolo, all’interno del fenomeno del Colonialismo.
    Se, in seguito alle diverse trasposizioni cinematografiche, associamo l’opera di Kipling unicamente alla figura del giovane Mowgli, a conti fatti il “cucciolo d’uomo” compare solo nei primi tre racconti del volume.

  • Il mio esame di maturità e gli ostacoli superati

    diana catellaniCinquecentonovemila studenti hanno appena appreso quali sono gli argomenti su cui devono cimentarsi per la prova di italiano e su cui si deciderà se sono meritevoli di conseguire il loro diploma di maturità. Questo mi spinge a ritornare indietro nel tempo a quando anch’io ero china su quei banchi.....
    È passato oltre mezzo secolo, ma certo non ho dimenticato le alzatacce alle cinque del mattino per ripassare gli ultimi argomenti di storia, matematica, storia dell’arte, filosofia.....(allora si veniva interrogati su tutte le materie). Ma come ero arrivata a sostenere quell’esame, io che ero l’ultima di cinque figli e per giunta femmina?

  • Il mito di Atalanta nella riscrittura di Gianni Rodari

     

    ida accorsiPer la prima volta Rodari affronta il meraviglioso mondo della mitologia greca e racconta, con la sua consueta maestria, la storia di un personaggio femminile, l’eroina per eccellenza della produzione Rodariana, ovvero, la sua più completa rappresentante di un nuovo modello femminile, capace di lasciare il segno anche nell'immaginario dei lettori di oggi.
    È un altro piccolo capolavoro dell'irrefrenabile fantasia di Gianni Rodari. (Atalanta . Atalanta Ed. Einaudi ragazzi (Storie e rime), 2009

  • Il senso dell'amicizia invecchia con noi

    diana catellaniChi trova un amico trova un tesoro, dice il proverbio. Ma il modo di intendere l’amicizia cambia man mano che si invecchia, almeno per me è stato così.
    Da piccola, erano miei amici tutti i compagni e le compagne di gioco senza distinzione; nel tempo libero dai compiti e dalle lezioni, uscivo di casa e chiunque fosse nei paraggi con una palla, una corda, una bambola, un barattolo con le bolle di sapone era l’amico giusto per passare qualche ora spensierata. Certo però non riuscivo a considerare amici quelli che si mostravano prepotenti o maleducati.

  • Il treno dei bambini: la memoria corre tra la Napoli del dopoguerra e le famiglie accoglienti di Modena

    Iniziare la lettura de “Il treno dei bambini” di Viola Ardone è stato come riallacciare un filo della memoria. Si racconta qui, in veste di romanzo, di una iniziativa di solidarietà e accoglienza che prese vita nelle regioni del Nord, in particolare l’Emilia Romagna, per aiutare i bambini del Sud- Roma e Napoli in particolare- città che uscivano dalla guerra con le case distrutte, ma soprattutto con miseria e degrado sociale. Furono coinvolti decine di migliaia di bambini.
    Non posso ricordarmi per ragioni anagrafiche l’arrivo dei bambini del Sud, ma di quell’avvenimento se ne parlava ancora quando già ero abbastanza grande da memorizzare.

  • Insieme verso l'8 marzo, sperando in un futuro migliore

    rita rambelliMentre scrivo questo articolo sto ascoltando l’annuncio in televisione dell’ennesimo “femminicidio” di questo mese a Faenza, qui vicino a Ravenna, confermando un trend di omicidi di donne all’interno della famiglia in costante ascesa. Un fenomeno di cui oggi i media ci rendono consapevoli nella sua terribile realtà che non è solamente italiana, ma mondiale.
    Il termine femminicidio fu usato per la prima volta nel 1976 dall'attivista sudafricana Diana Russel, il termine è divenuto d’uso comune per designare una categoria criminologica specifica, ovvero l’uccisione intenzionale di una donna in seguito alla supposta trasgressione di ruoli di genere derivanti dalla tradizione e dalle norme sociali, che variano a seconda del contesto sociale nel quale il crimine viene perpetrato.
    Diana E. H. Russell, attivista, studiosa e scrittrice femminista di fama mondiale, è morta il 28 luglio 2020 a Oakland, in California. Aveva 81 anni. A lei, sociologa e criminologa, si deve l'invenzione e la diffusione del termine femminicidio, diventato di uso comune negli ultimi anni per identificare chiaramente i crimini contro le donne - una battaglia a cui Russell ha dedicato la sua vita.
    Nata il 6 novembre 1938 a Città del Capo, in Sudafrica, Diana Russell è cresciuta in una famiglia di sei figli, con padre sudafricano e madre britannica. Dopo la laurea all'Università di Città del Capo e la specializzazione in sociologia alla London School of Economics di Londra, nel 1961 diventò ricercatrice alla Harvard university dove prima studiò la nozione di rivoluzione, in particolare ispirata dalla sua partecipazione alla lotta contro l'apartheid in Sudafrica, e poi si dedicò alle indagini sociologiche sui crimini sessuali commessi contro le donne. Dal 1970 ha insegnato sociologia delle donne al Mills College di Oakland. Russell nel 1993 ha fondato Women United Against Incest, un'associazione che sostiene le vittime dell'incesto. Ha anche ideato il primo programma televisivo in Sudafrica dove le donne vittime di abusi raccontano le loro esperienze e condotto battaglie contro la pornografia. E' stato nel 1976 che Russell ha definito per la prima volta "l'uccisione di femmine da parte dei maschi in quanto femmine" come "femminicidio", mettendo in luce la valenza politicà della parola che voleva attirare l'attenzione sulla misoginia alla base dei crimini contro le donne. II termine si affermò all'interno nella campagna per la costruzione di un Tribunale internazionale sui crimini contro le donne, che culminò con un meeting a Bruxelles per la denuncia di tutte le forme di discriminazione e oppressione subite dalle donne nel mondo. E' del 1992 la sua antologia "Femicide: The Politics of Woman Killing".
    Le donne vittime di omicidio volontario nell’anno 2019 in Italia sono state 111, lo 0,36 per 100.000 donne. Nel 2018 erano state 133. Delle 111 donne uccise nel 2019, l’88,3% è stata uccisa da una persona conosciuta. In particolare il 49,5% dei casi dal partner attuale, corrispondente a 55 donne, l’11,7%, dal partner precedente, pari a 13 donne, nel 22,5% dei casi (25 donne) da un familiare (inclusi i figli e i genitori) e nel 4,5% dei casi da un’altra persona che conosceva (amici, colleghi, ecc.) (5 donne).
    Per oltre la metà dei casi le donne sono state uccise dal partner attuale o dal precedente e in misura maggiore rispetto agli anni precedenti: il 61,3% delle donne uccise nel 2019, il 54,9% nel 2018 e il 54,7% nel 2014.
    Non sono riuscita a trovare dati più recenti ma sono state 43.600 il numero di donne e ragazze uccise nel 2012 in tutto il mondo da un partner, un ex fidanzato, un membro della propria famiglia. Un terzo dell'universo femminile dichiara poi di avere subito almeno una volta una forma di violenza, fisica o sessuale. Solo l'11 per cento delle vittime denuncia il caso alle autorità. A presentare queste cifre è il rapporto Combating violence against women dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), pubblicato nel novembre 2016.
    Dati che fanno impallidire: questi numeri, paragonabili ai dati del conflitto siriano - 40mila morti nei primi 20 mesi di guerra - sono lo specchio di un problema che interessa il mondo intero.
    I paesi che registrano i casi più numerosi sono sparsi ai quattro angoli del pianeta. In Russia, El Salvador e Sudafrica il tasso di femminicidio supera i 6 casi ogni 100mila donne, toccando punte di 15 casi ogni 100.000 donne in Honduras. Nei paesi dell'Europa occidentale, il tasso medio è, annualmente, di 0,4 vittime di femminicidio ogni 100.000 donne. Per una donna che vive in Honduras quindi, il rischio di essere vittima di un omicidio di genere, perpetrato dal partner o all'interno della cerchia familiare, è 40 volte più alto di quello che interessa una cittadina dei paesi dell'Europa occidentale.
    Nonostante l'approvazione di leggi e normativa specifica, i casi di femminicidio non accennano a diminuire neppure in Europa.
    Anche se in Italia avviene un femminicidio ogni tre giorni e mezzo, non sembriamo essere il Paese europeo con la maggiore emergenza rispetto al fenomeno della violenza sulle donne.
    Secondo dati dell'Agenzia per i diritti fondamentali dell'Unione europea, i Paesi in cui la violenza contro le donne (fisica e/o sessuale) è più comune sono quelli del Nord Europa. L'Italia si attesta sotto la metà della classifica, ben al di sotto della media europea: nel nostro Paese le donne vittime di violenza fisica o sessuale dai 15 anni in poi rappresentano il 27%, a fronte del 52% in Danimarca, del 47% in Finlandia, del 46% in Svezia, del 45% nei Paesi Bassi e del 44% in Francia e Regno Unito.
    La stessa tendenza sarebbe confermata anche se si analizza il fenomeno solo dal punto di vista delle molestie sessuali (15% in Italia, 32% in Danimarca, 27% in Svezia e Paesi Bassi, 24% in Francia e Belgio).
    Anche per quanto riguarda la violenza subita specificamente dai partner, l'Italia si attesta nella fasce più basse (15-20%), mentre nella parte alta della classifica si confermano i Paesi del Nord Europa e i Paesi dell'Est: in questi ultimi sembra proporzionalmente più presente la violenza da parte dei partner rispetto al fenomeno generale.
    Infine, un'altra elaborazione riguarda la pericolosità percepita della violenza sessuale che stranamente risulta essere inversamente proporzionale alla realtà dei fatti. Sarebbe interessante capire se questa scarsa percezione sia legata ad un deficit informativo da parte degli organi governativi oppure ad un diversa cultura sul ruolo delle donne nella società nei paesi del nord Europa.
    Dall'analisi dell'Agenzia infatti emerge che i Paesi in cui le donne raccontano maggiormente casi di violenza sono i Paesi in cui la violenza sessuale risulta essere percepita come meno comune. A questo proposito, in Italia il 90% delle donne pensano che la violenza sessuale sia un problema dilagante, anche se gli episodi rilevati non arrivino al 20%. Stessa cosa in Portogallo, dove il 93% delle donne pensa che la violenza sessuale sia piuttosto comune, sebbene le testimonianze delle donne che denunciano di aver subito "attenzioni sessuali" rappresenti il 15% dei casi. In Finlandia, si verifica invece il fenomeno opposto: meno del 70% delle donne ritiene la violenza sessuale un problema comune, a fronte di una situazione di gran lunga sopra la media europea ??

     

  • Internet e resilienza: come canne al vento….

    diana catellaniSe qualche anno fa avessi sentito parlare di resilienza, forse non avrei capito di che cosa si stesse dissertando; ora invece è diventato un termine molto usato, direi quasi di moda.
    Se un tempo si parlava di resilienza solo come termine tecnico per indicare la capacità di materiali vari a resistere alle sollecitazioni, ora è un termine usatissimo in psicologia.
    Con la pandemia in atto, ci si stanno presentando, infatti, situazioni inedite e totalmente impreviste, che richiedono capacità di adattamento, di risoluzione dei problemi nuovi, di creatività senza le quali si rischia di essere sopraffatti dall’angoscia e dal senso della propria fragilità e inadeguatezza. In una sola parola ci viene richiesto di essere resilienti.
    Chi è solo come me ha ancora più probabilità di precipitare nell’abulia e nella depressione. Io, costretta dalle circostanze, ho dovuto fortunatamente accostarmi per tempo alle nuove tecnologie e allora posso accedere ad eventi, dibattiti, conferenze e a tutto quel mondo un po’ caotico di internet, che offre comunque tante sollecitazioni e tante risorse.
    Noi anziani, è risaputo, facciamo più fatica a cambiare le nostre abitudini e a imparare nuovi comportamenti. Lo si vede benissimo durante le videochiamate, che vanno sotto il nome di webinar.
    Ho avuto modo di partecipare a uno di questi eventi in cui erano collegati molti bambini: erano del tutto a loro agio e sapevano gestire alla perfezione i loro interventi utilizzando correttamente tutti gli strumenti offerti dalla piattaforma in uso.
    In un’altra occasione, invece, ero in collegamento con donne non più giovanissime di ogni parte d’Italia ed è stato molto divertente: mentre la relatrice sciorinava tutto il suo sapere e si sforzava di esporre con chiarezza e competenza concetti molto profondi e impegnativi, sentivi ogni tanto strani rumori stridenti e fastidiosissimi per i troppi microfoni aperti. E non valeva a nulla invitare ripetutamente le partecipanti a chiuderli (non sapevano come fare, evidentemente). Ma più divertente è stato quando, all’ora di cena, si è sentito prima squillare un campanello di qualcuno che, forse a Roma o forse altrove, suonava alla porta per rientrare a casa e poco dopo, forse sempre dallo stesso computer, venivano lanciati nell’etere tranquillizzanti rumori domestici: qualcuna delle partecipanti stava lavando delle stoviglie e cucinando qualcosa per cena. Questo ha scatenato l’ilarità di molte partecipanti e due di loro si sono messe a conversare, scambiandosi saluti camerateschi mentre la relatrice cercava faticosamente di ignorarle.
    Certo ci vuole tempo per trovare soluzioni nuove, ma da questo dipende la nostra capacità di superare questa crisi che ci mette a dura prova. Bisogna essere resilienti come le canne al vento. Questa frase che ho sentito mi ha richiamato il romanzo di Grazia Deledda, ma mentre per lei gli uomini sono come canne battute inesorabilmente dal vento di un destino incontrollabile, noi ora dobbiamo essere come le canne, che sanno piegarsi sotto la sferza del vento, ma poi rialzano il capo appena ritorna la calma.
    Spero di saper essere come queste canne, ma non sarà facile.

  • L'Alzheimer ai tempi del CoVid

    L'emergenza CoVid-19 ha rappresentato un evento catastrofico ed inaspettato cui ognuno di noi ha dovuto far fronte. Un'esperienza surreale, che lascerà per sempre solchi profondi nell'animo di coloro che lo hanno vissuto in prima persona nella sua drammaticità. Il lockdown, l'isolamento, i sentimenti da reprimere...per un attimo, è stato come se tutto si fermasse...
    E il dopo? La graduale ripresa, le informazioni incerte, le relazioni che ancora non ripartono...
    Ma, se è stato così devastante per noi, come può aver inciso sulla vita delle fasce fragili? Quanto può essere stato deleterio, ad esempio, per le persone affette da demenza?
    WhatsApp Image 2020 07 22 at 20.42.31Siamo Alida e Sabrina, educatrici di Villa Serena, RSA dell'Oltrepò Pavese e isola felice no-CoVid, poiché l'incubo non ci ha toccato dall'interno.
    Abbiamo lavorato duramente per proteggere la vita dei nostri ospiti, nonché compagni del nostro vivere quotidiano. Ci siamo spesso chieste come queste persone affrontassero tutto ciò. Il nostro intento è sempre stato di proteggerli e tenerli al sicuro da ciò che avveniva fuori, ma non sempre è stato facile far coincidere la salute fisica con la qualità di vita percepita.
    In particolar modo, ci facciamo un milione di domande quotidianamente sull'universo Alzheimer, sia dentro che fuori struttura.
    Abbiamo un nucleo protetto di 36 posti letto e seguiamo alcuni utenti a domicilio attraverso la misura "RSA Aperta", affetti proprio da questa patologia, come il sig. Zanotti, protagonista proprio di alcune pagine di “PerLungaVita”.
    Incrociando esperienze e racconti, oggi siamo qui per dirvi…BASTA LAMENTARCI!!!
    Cerchiamo solo per un attimo di capire che, per quanto questa esperienza possa essere stata dura per noi, gente “normale”, con accesso a tutta una serie di facilitazioni, potete immaginare tutto questo condito da una buona dose di disorientamento?? Vorremmo farvi riflettere su ciò che potrebbero essere le percezioni di un malato di Alzheimer ai tempi del Coronavirus. Non vi offriamo risposte, solo interrogativi per indurvi a pensare:
    1. PROTOCOLLI VS VITA REALE
    Isolamento? Da casa, tutti l’abbiamo provato, ma potevamo trovare ogni scusa per uscire …passeggiata col cane, farmacia, spesa di routine più le puntate improvvise…tutto per mantenere le nostre pseudo-routines egoistiche quotidiane, eppure a noi è sembrato di vivere una punizione, nonostante i suoni dell’ambulanza che passava continuamente ricordasse la nostra dimensione umana.
    Ci è sembrato quasi una punizione stare a casa con i nostri affetti e dover passare tanto tempo con loro, impresa impossibile in altri momenti di normalità!
    In RSA abbiamo dovuto applicare i protocolli dettati dai regolamenti in vigore, che inizialmente pretendevano quasi trasformassimo i nostri tempi e spazi di pace, come se invece fossimo stati strutturati per i tempi “di guerra”.
    La RSA prima di tutto è una casa per i nostri ospiti, non un reparto ospedaliero. Spiegate ad un anziano che ha fatto la guerra, è sopravvissuto alla spagnola, che ha lavorato e lottato una vita per godersi i suoi ultimi anni serenamente, che, da questo momento in poi, non potrà più andare a pranzo a casa dei suoi familiari, non potrà mantenere vivo quel senso di famiglia rimasto, non potrà neanche più condividere certe attività all’interno della Struttura, con ospiti di altri reparti, con cui magari aveva stretto amicizie significative, per rispettare al massimo il distanziamento sociale.
    Siamo stati spesso accusati di essere i “cattivi”, gli “insensibili” davanti alle richieste di “strappi alle regole”. Solo chi l’ha vissuta personalmente può dire quanto, affettivamente, è pesato far rispettare le regole.
    2. MASCHERINA? CHE DRAMMA (molto più che per voi)!
    20200421 112242Se a tutti noi questa mascherina, che ci accompagna a lavoro, quando facciamo spesa, e ovunque andiamo, pare così intollerabile, per un malato di Alzheimer equivale ad una vera e propria tortura. Farla indossare ad un malato? Certo, mettendo però in conto di amplificare all'ennesima potenza la confusione ed il senso di costrizione di persone già di per sé fragili...e poi, come glielo spieghiamo il perché? e ogni quanto? Come aiutarli a nominare le sensazioni negative che questa costrizione provoca, in presenza di deficit di comunicazione e/o cognitivo?
    Se invece è il caregiver ad indossarla...che ne è del riconoscimento della persona, oltre che della mimica e dell'espressività di cui un malato di Alzheimer non può fare a meno? Per esperienza, si impara a sorridere con tutto il nostro essere… con gli occhi, per tentare di mantenere il contatto, anche se non è la stessa cosa. Il signor Zanotti, malato un po’ anomalo, è stato in grado di confermarci questa problematica, con la solita lucidità che lo contraddistingue, nonostante i suoi 8 anni di malattia.
    I nostri utenti hanno una sensibilità straordinaria e mostrano tanta comprensione nei nostri confronti... esatto, ci comprendono! Molto più di quanto noi spesso comprendiamo loro. Ed imparano ad accettarci, seppur con i nostri volti visibili solo a metà.
    3. E SE MI MANCHI?
    Gli affetti, le relazioni sono una parte fondamentale della vita di ognuno di noi. In fase di emergenza, la chiusura della Struttura alle visite esterne ci ha permesso di preservare tutti e 87 i nostri ospiti. Ma, se ad un ospite cognitivamente integro è stata dura spiegare che improvvisamente e indeterminatamente non avrebbe più potuto ricevere le visite dei propri cari, come fare per i malati di Alzheimer? Anche la videochiamata, strumento fondamentale per comunicare sia privatamente con gli amici, sia al lavoro per accorciare le distanze con i familiari, è un concetto veramente al limite dell'astratto per una persona affetta da demenza (se non riesco a riconoscere un volto dal vivo, come posso riconoscere qualcuno dentro ad uno schermo? e come ci è finito, lì dentro?!). Telefonate? Idem, non sono per tutti...
    L'unica nota positiva che abbiamo potuto constatare è che, per assurdo, gli utenti ricoverati sono stati meglio di quelli a casa, e sapete perché? A causa della patologia, la percezione del tempo che passa è stata ed è sempre piuttosto indefinita, perciò nel nucleo non si contano i giorni, la dimensione temporale è rimasta in una sorta di pausa... dicono ai loro parenti nella loro infinita dolcezza "è un po’ che non ci vediamo..." e sono sereni, attendono pazientemente, ma vivono nel qui ed ora.
    Imparassimo tutti noi a vivere da Alzheimer, momento per momento, in modo pieno e godendoci il presente, forse ameremmo più autenticamente il vivere quotidiano...
    4. PERCHE’ NON POSSO ABBRACCIARTI?
    Il malato di Alzheimer è fisicità, impulsività, è pura essenza...ha bisogno di contatto e di sentire la vicinanza di chi si approccia con lui. Come è possibile spiegargli che non ci si può abbracciare, coccolare, stringere la mano? È stato difficile inizialmente, e lo è ancora di più ora, che, lentamente, si cerca di tornare ad una cauta normalità e si ricominciano le visite...da noi si svolgono in modalità protetta, con una di noi educatrici a "vigilare" e garantire la distanza fisica e l'assenza di contatto. Quando tutto ciò riguarda un Alzheimer, è straziante non poter giustificare il rifiuto di un abbraccio, è qualcosa che a noi fa un po’ morire dentro. Sappiamo però che è per il loro bene, e continuiamo su questa strada. Non possiamo cambiare questa regola, ma possiamo cercare di comprenderli, e questo è il lavoro più bello che noi tutti possiamo fare, per loro e per noi stessi. Un po' di sensibilità non guasta mai!
    4. VIETATO USCIRE!
    Avete mai provato a volervi muovere, a voler andare e sentire che qualcosa vi trattiene? O, se vi formicola un arto, riuscite a stare immobili aspettando che passi? Con quanta trepidazione vivete questa attesa? Il malato di Alzheimer a casa propria, pensiamo abbia vissuto e viva così questa chiusura… La maggior parte di loro presenta quello che si chiama “wandering”, vagabondaggio… La libertà di muoversi e di vivere l’ambiente è una necessità.
    Anche in questo caso, la RSA ha fornito risposte più adeguate rispetto a coloro che vivono al proprio domicilio. La possibilità di avere a disposizione comunque spazi protetti, interni ed esterni, in cui sfogare questo bisogno di muoversi, ha fatto sì che si sentissero meno costretti. Zanotti, da casa, ha vissuto il lockdown come una vera e propria prigionia. Dopo la paura, “…non sono più spaventato, sono incavolato nero!”… Per chi, come i malati di Alzheimer, si ciba del contatto con gli altri e con il contesto, è a dir poco deleterio questo allontanamento da tutto…con ricadute inevitabili sulle capacità fisiche/funzionali, e non solo.
    5. "POVERO ME", “NON RIESCO PIU' A...”
    Le ricadute negative frequentemente hanno portato a patologie depressive (le abbiamo avute noi, perché un anziano dovrebbe esserne esente?), e queste, a loro volta, hanno sempre implicazioni sull’aspetto cognitivo. L’Alzheimer, come ogni altra forma di demenza, procede a tappe, o a stadi. Di nuovo, in RSA la vita è stata scandita dalle solite routines e poco è cambiato per i nostri ospiti, che, a distanza di qualche mese dall’inizio dell’emergenza, fortunatamente sono in generale sempre gli stessi, psico-cognitivamente parlando.
    A casa, invece, in tanti hanno purtroppo fatto il “salto” di stadio. Più rallentati, più confusi, più tristi. E riprendere ciò che si è perduto è un’impresa spesso impossibile.
    Riusciamo a capire quanto siamo fortunati ad avere risorse per il nostro vivere quotidiano, nonostante l’emergenza CoVid?
    Vi abbiamo riportato questi pensieri perché ognuno di noi mediti.
    Perché la smettiamo tutti di lamentarci e impariamo a “vedere e sentire” anche gli altri, uscendo un po' dal nostro auto-centramento.
    E ad avere rispetto per la vita, sempre, in tutte le sue forme e manifestazioni. Concludiamo con un pensiero del regista Mazzacurati:
    “Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre.”
    Da Villa Serena per ora è tutto. Viviamo il presente ed andiamo avanti insieme, indossando ogni giorno il più bello dei sorrisi!
    Grazie per l’attenzione,
    Alida e Sabrina

  • L'Alzheimer visto dalla settima arte

    rita rambelliLa settima arte ha spesso affrontato la difficile tematica dell’Alzheimer, mostrandone le diverse sfaccettature e ne sono un valido esempio due film usciti nel 2020 ma che ho potuto vedere solamente quest’anno, causa Covid-19 che comunque vi consiglio anche se guardare i film che trattano questo tema è in alcuni momenti molto faticoso per chi, come me, ha visto e assistito persone amate colpite da questa terribile malattia, ma nello stesso tempo è anche in qualche modo “consolatorio” capire come questa difficile esperienza sia condivisa da tante altre persone.
    Il primo film “Supernova” racconta una storia curiosamente simile a quella di Ella & John di Paolo Virzì e anche in questo caso il punto di forza del film è la bravura dei due protagonisti. Là erano Helen Mirren e Donald Sutherland, qui sono Stanley Tucci e Colin Firth. Nella sua semplicità il film riesce a fare la differenza, perché il regista Macqueen, confeziona un prodotto delicato, che regala emozioni, e fa riflettere sulle diverse sfaccettature dell’amore che si confronta col dolore e la malattia. Valore aggiunto di questo film è l’aver reso irrilevante la natura gay del rapporto d’amore, che appare un sentimento totalizzante, senza quelle distinzioni di orientamento sessuale che a volte ne sviliscono l’essenza. Sam e Tusker potrebbero essere Maria e Sonia, Aldo e Giovanna, qualsiasi coppia innamorata e l’essenza del film non muterebbe.
    Stanley Tucci, nei panni di Tusker, è un uomo che non riesce ad accettare l’idea di perdere un domani il controllo di se stesso, arrivando a non riconoscere chi ha sempre amato per poi perdere anche la coscienza della propria persona.
    Dall’altra parte c’è la dedizione di Sam, interpretato da Colin Firth, disposto a tutto pur di guadagnare attimi di vita al loro rapporto. Sam e Tusker, sessantenni, sono compagni di vita da molto tempo: Sam è un pianista, Tucker uno scrittore, e hanno condiviso la loro passione per l'arte durante tutta la loro lunga storia d'amore. Tusker ha scoperto di essere affetto da demenza precoce e decide di prendersi una vacanza dalla realtà prima che sia tardi, insieme a Sam, a bordo di un camper con cui rivisitare luoghi e rivedere persone importanti del loro passato comune. Nel corso del viaggio però entrambi dovranno affrontare il diverso modo individuale di affrontare la malattia e l'imminente trasformazione del loro rapporto che sarà la inevitabile conseguenza della perdita della memoria. Tusker, un uomo abituato ad esercitare il controllo sulla propria vita, che ha sempre vissuto con indipendenza e ironia, non può sopportare di diventare un peso per Sam. Nello stesso tempo Sam ha grandi difficoltà nel fare i conti con un declino progressivo e inesorabile di Tusker, che significa anche la perdita graduale della reciproca identità e la scomparsa del loro mondo.
    Lo sguardo con cui Sam abbraccia e custodisce Tusker è una testimonianza visiva di quanto desideri trattenerlo accanto a sé, proprio mentre a poco a poco lo vede scivolare via.
    "Non si dovrebbe piangere qualcuno quando è ancora in vita", afferma Tusker, ed è questa la constatazione più amara che fa chiunque si veda portare via la propria mente, o assista allo sgomento di chi resta lucido a guardare.
    Questo film parla del coraggio di accettare le cose come sono e non come vorremmo che fossero e della libertà di prendere decisioni che riguardano la nostra vita, anche la libertà di morire, anche quando sembra essere la vita stessa a sottrarci questo diritto togliendoci le facoltà mentali e soprattutto parla del rispetto per l'altro, che è la componente fondamentale dell'amore, e non consente ricatti o imposizioni.

    Il secondo film è “The father” del regista Zeller, che all’inizio assomiglia a un puzzle ricostruito da un narratore inaffidabile, e all’inizio ci lascia perplessi e sconcertati perché non si riesce subito a capire che quella che vediamo non è la realtà ma un insieme di percezioni viste con gli occhi di una persona che, a causa di una demenza senile, tende ad aggrovigliare, rimescolare e sovrapporre i contesti, le persone, i ricordi, gli eventi e per rendere l'operazione ancora più complessa, toglie qualche frammento lasciando dei vuoti nel racconto.
    Ne verrà fuori un insieme un po' diverso, all'interno di una composizione che ha già alterato i rapporti spaziali tra persone ed elementi del quadro. Il protagonista del film- Anthony, un ex ingegnere ottantenne interpretato da uno straordinario Anthony Hopkins- vive in una casa elegante in un quartiere residenziale di Londra, ha rapporti conflittuali con le collaboratrici che lo assistono e viene visitato regolarmente dalla figlia - Anne, impersonata da Olivia Colman.
    Ha alcune manie compulsive, come quella di nascondere l'orologio in luoghi di cui si dimentica e qualche vissuto persecutorio nei confronti delle badanti, accusate di sottrargli oggetti di valore. La fissazione sull'orologio è significativa, in realtà la percezione del tempo da parte di Anthony si sta sgretolando, tende a sovrapporre il "prima" e il "dopo", il qui e il là, mescola gli eventi come fossero un mazzo di carte, rimodella la realtà sulla base dei suoi desideri e timori. Una figlia morta in un incidente continua a vivere nella mente dell'anziano, confonde il proprio appartamento con quello di Anne, rivendica un'autonomia di pensiero e di decisione che viene azzerata dalla sua condizione.
    Ma non è solo il tempo a sgretolarsi, anche lo stato emotivo di Anthony subisce brusche variazioni e oscillazioni in un range che spazia dall'arroganza, all'aggressività persecutoria, dall'affabilità all'invettiva, dalla fragilità e al pianto.
    In The Father, Anthony Hopkins incarna un ottuagenario che rifiuta tutte le badanti che la figlia gli propone, aggrappandosi al suo diritto di vivere da solo. L’uomo ha perso la ragione o è vittima di un complotto che mira alla sua eredità? Vive nell’appartamento della figlia o è ricoverato in una clinica privata?
    Attore magistrale, Hopkins disegna un protagonista adorabile quanto odioso, in preda ai capricci della memoria e pieno di una vulnerabilità disarmante. L’interpretazione di The Father gli vale l’Oscar trent’anni dopo quello del "Silenzio degli innocenti".

  • L'anima smarrita. Una favola del Premio Nobel Olga Tokarczuk

    ida accorsi“Se qualcuno fosse in grado di guardarci dall’alto,
    vedrebbe che il mondo è pieno di persone che corrono in fretta e furia,
    sudate e stanche morte, nonché delle loro anime in ritardo, smarrite…”

    Una volta c’era un uomo che lavorava molto sodo e molto in fretta e si era lasciato ormai da un pezzo la propria anima alle spalle. Senza anima non viveva neanche male – dormiva, mangiava, guidava la macchia e giocava perfino a tennis. A volte, però, aveva l’impressione che intorno a lui fosse diventato tutto piatto, gli sembrava di muoversi sul liscio foglio di un quaderno di matematica, un foglio ricoperto di quadretti tutti uguali e onnipresenti.

  • L'attualita' del ricordo di Janusz Korczak: non ci è concesso lasciare il mondo così com'è

    ida accorsiVoi mi dite: "Siamo stanchi di stare con i bambini".
    Avete ragione. E dite ancora: "Perché dobbiamo abbassarci al loro livello. Abbassarci, chinarci, piegarci, raggomitolarci".
    Vi sbagliate. Non questo ci affatica, ma il doverci arrampicare fino ai loro sentimenti. Arrampicarci, allungarci, alzarci in punta di piedi, innalzarci, per non ferirli" ( Janusz Korczak Quando ridiventerò bambino, p. 7)
    Janusz Korczak è fra le più grandi autorità intellettuali e morali del nostro tempo. La sua biografia, la sua attività in ambito sociale e culturale, medico, letterario, pedagogico, ha oltrepassato i limiti tradizionali fra i popoli, le religioni, gli orientamenti politici, gli strati sociali. La divisione più importante e difficile da superare per Korczak era quella che separava gli adulti dai bambini: Korczak ha dimostrato che il bambino è una persona, un essere umano, non soltanto un suo anticipo. È un essere umano qui ed ora. Ha la sua dignità e i suoi diritti. Ha il suo posto civico all’interno della famiglia, nella società locale e in quella allargata. La dignità del bambino, i diritti del bambino e il suo diritto alla cittadinanza sono tre concetti in cui siamo debitori a Janusz Korczak . (1)

  • L'intervista in Casa Morando

    IL GRUPPOSono le 8,30 del mattino e gli ospiti di casa Morando sono accompagnati nel locale multiuso e invitati a sedersi un po’ più distanti gli uni dagli altri rispetto al solito, come è opportuno fare in questo periodo di pandemia, ma anche per evitare qualche sanzione di troppo.
    Da mesi, ormai, oltre alle assillanti richieste di procedure, report, avvisi di vario genere, può capitare che spuntino, di punto in bianco, inviati speciali dell’ASL, della Protezione Civile o di qualche altro ente preposto al controllo, capaci di monopolizzare la mattinata per ispezionare centimetro per centimetro la residenza ed inventarsi modifiche strutturali, costose e inutili, per arginare la diffusione del coronavirus.
    Infatti, nella fase 1, Casa Morando ha dovuto riservare due camere con bagno attiguo e allestirle come area Covid con tanto di porta in PVC, zona filtro, uscita esterna coperta da materiale in plexiglas come stabilisce la norma, fortunatamente mai utilizzate. Nella fase 2, cambiate le disposizioni regionali, la stessa area è diventata “buffer”, cioè cuscinetto, per contenere eventuali nuovi ospiti che, se anche non hanno avuto alcun sintomo di infezione ed hanno tampone e sierologia negativa, devono restare rinchiusi per altri 8 giorni, assistiti da personale dedicato e bardato da astronauta fino ad una nuova determinazione del tampone a conferma della negatività. Solo allora potrà accedere nei restanti locali e incontrarsi con gli altri ospiti.
    Come si fa, mi chiedo, ad accogliere una persona in tale modo? Pazienza, i due posti disponibili rimarranno vuoti fino a data da destinarsi.
    A parte queste considerazioni, un po’ ribelli, che con l’avanzare dell’età riesco sempre meno ad arginare, mi soffermo ad osservare lo sguardo dei miei vecchi ed, avvicinandomi ad uno ad uno, con il sorriso nascosto dalla mascherina, propongo loro una intervista per sapere come hanno vissuto questo periodo di reclusione e isolamento. Perché, anche se Maria Grazia, la Direttrice, ha fatto di tutto e di più per farli sentire a loro agio, il distacco da parenti e amici e la rinuncia alle uscite, solo per fare alcuni esempi, hanno provocato un netto cambiamento nelle abitudini degli ospiti di Casa Morando.
    Franca, la gattara, quieta e misurata, è la prima a rispondere alla mia domanda ed esordisce così: ”Questo periodo l’ho passato molto male, tutto limitato, arrivare sempre col fiato sospeso. Oggi si sa tutto perché c’è la televisione, una volta non si sapeva, magari sarà successo lo stesso … chissà! Comunque non ci sono parole per descrivere quello che sta succedendo!”.
    “Hai paura?” Aggiungo io. La risposta è netta: “Non ho mai avuto paura perché penso che siamo abbastanza protetti”.
    CarloÈ la volta di Carlo, allegro, intraprendente, solidale, capace di rasserenare le persone e di confortarle anche nei momenti più bui. Sembra smanioso di rispondere, ma, alla mia domanda sul coronavirus, i suoi occhi si rattristano e sentenzia: “Da un giorno all’altro non siamo più usciti, per la sicurezza della nostra vita. Non sono tranquillo, sono preoccupato, mi sento in bilico, non sono sicuro di niente, neanche adesso. Ho avuto paura perché quando non c’è tranquillità non si sta bene. Ricordo la guerra del ’40, il peggio, avevo 18-19 anni, più o meno, e anche allora non ero tranquillo, come adesso, anche se sembra che sia finito. Qui comunque si è vissuto abbastanza bene. La cosa che non mi è piaciuta è non avere parole per l’avvenire e vedere tutti mascherati è una cosa brutta. Anche molto spiacevole è sentire il numero dei morti alla televisione”.
    Carla, entrata in residenza poco prima che scoppiasse il putiferio pandemico, sorride con ironia e dice: ”Questo periodo l’ho passato qui, che dire? Succede nella vita! Non è come la guerra, lì sì che eravamo limitati, eravamo giovani, soffrivamo. Ora siamo vecchi e le limitazioni si sentono meno. Io non ho affatto paura. La paura non serve, le cose se devono succedere, succedono e avere paura è del tutto inutile”.
    Passo a Rita, 94 anni ben portati, una donna ancora in gamba che ha scelto di vivere in comunità perché a casa propria aveva ben poca compagnia e di tanto in tanto si lasciava prendere dalla tristezza e invadere da quel senso di impotenza che è poco gradito a chiunque. “Il periodo è stato brutto”dice scrollando il capo “soprattutto non si poteva uscire, fare le solite cose, vedere gente. La paura è tanta ma c’è anche la sicurezza di essere protetti”.
    Pietro ascolta, in silenzio, le parole degli intervistati. Poi, ad un tratto, si alza dalla sedia aiutandosi con il bastone, si avvicina a me e scandisce sicuro di sé queste parole: “Io sono stato bene, come al solito. L’unica cosa che mi ha infastidito è di non poter andare a casa. Paura no, per niente”.
    NINATocca a Nina, verso la quale sento una profonda compassione per la triste vita che le è toccata. Ha perso l’unica figlia, grande concertista internazionale, a seguito di una malattia devastante a soli 35 anni di età e da allora ha annegato i suoi dispiaceri nell’alcol fino a non sapere più nemmeno che nome avesse. Dopo un lungo periodo di ricovero in Psichiatria, è entrata in Casa Morando e siamo diventate amiche e confidenti.
    È sempre cordiale, premurosa, attenta alle mie mosse, ma mai invadente.
    Ecco il suo pensiero: “Come prima cosa sono rimasta allibita, preoccupata, sconvolta. Ho avuto l’impressione che la natura volesse scombinare le cose. Un cataclisma! Non ho capito cosa stava succedendo, ma di una cosa sono certa: se fossi stata a casa mia sarei stata peggio. Mi stupisce anche che di fronte a certe tragedie c’è gente che rimane indifferente. Comunque non ho mai avuto paura, è successo, fa parte della vita”.
    Nita è seduta su una sedia, in disparte, come sempre. E’ una brontolona, strapparle un sorriso è veramente cosa ardua. Gli acciacchi che indiscutibilmente si porta dietro non le permettono di essere serena, né tanto meno di dormire di notte e purtroppo le sue riferite allergie o intolleranze alle medicine e pure alle caramelle, proprio così, lasciano ben poco spazio alla terapia farmacologica, cosa che contribuisce ad amplificare la sua sfiducia e disistima nei confronti di tutto il personale sanitario, me compresa.
    Esordisce sostenendo che il periodo l’ha vissuto male, senza poter vedere nessuno, soprattutto le persone e che forse a casa sua sarebbe stata meglio. Poi mi lascia di stucco perché prosegue dicendo: ”Mi sono però sentita protetta. Tutte le settimane la disinfezione dei locali. Paura? No, non ne ho avuta. Dicono che finirà. Tu ci credi?”
    Annuisco, mentre i miei occhi continuano a esprimere lo stupore di aver udito con le mie orecchie una affermazione positiva di Nita nei confronti di casa Morando.

    LucianaMentre cerco qualche altro ospite in grado di darmi una risposta, mi imbatto in Luciana, che cammina avanti e indietro nel corridoio, appoggiandosi al corrimano. Di lei ho parlato nell’articolo dal titolo “Luciana, l’operaia di una catena di montaggio” pubblicato su Per Lunga Vita il 17 dicembre del 2017. La fermo e a bruciapelo le chiedo cosa ne pensa del coronavirus. Scoppia in una fragorosa risata, poi, come fa solitamente, si ferma davanti allo specchio, saluta con la mano la sua immagine riflessa e inizia a borbottare parole incomprensibili.
    L’importante è essere sereni!! Penso io.
    Inaspettatamente incontro la Sig.ra Bruna, di ritorno dalle sue puntuali uscite di primo mattino per fare la spesa, carica di sacchetti, che nessuno può toccare. Bruna, un ex insegnante di 93 anni, residente in Casa Morando da oltre 11 anni, a parte far la spesa nei negozi alimentari del circondario, si barrica nella sua camera e legge tre quotidiani ogni giorno, più libri di vario genere. Non si fida di nessuno, è schiva di tutto e tutti e, in questo periodo pandemico, dopo che è stata beccata in strada dalla polizia locale da sola e senza mascherina, non è stato affatto semplice spiegare alle forze dell’ordine le consolidate convinzioni della bizzarra vecchietta che guidano i suoi altrettanto insoliti comportamenti. Per fortuna la vicenda si è conclusa con un articolo dal titolo “Il caso” sul Secolo XIX che definirei senza infamia e senza lode.
    Con non poca titubanza, chiedo a Bruna se posso rubarle pochi minuti per conoscere il suo pensiero su quanto sta succedendo e lei mi sorride, con aria furbesca e risponde così: ”Io questo periodo di coronavirus l’ho passato come al solito, sono sempre uscita. Spero solo che passi presto, però ho letto sui giornali del probabile ritorno del contagio in autunno. Speriamo di no”.
    “Si ricorda che Lei ha avuto problemi con i vigili urbani quando l’hanno fermata?” Aggiungo io.
    Ah sì! Ma sa, i bambini sotto i 6 anni non portano la mascherina … io non la posso portare”.
    “Ma Lei ha un po’ più di sei anni?” Replico io.
    “Ma …. Faccia Lei !"Mi risponde ironicamente e se ne va sorridendo; poi si volta di scatto e puntando il dito contro di me afferma “Si ricordi! Io sono un codice 1721 e pure C3!”.
    E già! E’ anche figlia di Napoleone Bonaparte e discendente degli Asburgo, e si è sempre rifiutata di assumere i farmaci che gli specialisti ritenevano opportuni per limitare le sue stranezze.
    Menomale, penso io ! Se l’avessero inondata di Serenase o qualche altro antipsicotico, chissà se sarebbe ancora al mondo? Se sì, non avrebbe certamente la stessa grinta.
    Ed ecco che mi viene in mente la parola “vitalità”, intesa come quella energia fisica e morale che ci spinge a restare al mondo e a comportarci ognuno a modo proprio.
    Credo che il segreto di Casa Morando sia proprio il fatto di essere vitale: di permettere ad una persona di chiudersi in camera, di innaffiare i fiori, di accarezzare un gatto, di aiutare in cucina, di ballare, ridere scherzare, ma anche litigarsi, criticare, tenere i musi e tante altre cose. Credo anche che la vitalità possa essere contagiosa, così come il coronavirus.
    Maria Grazia, la Direttrice, coadiuvata da Angela, l’infermiera, nonostante i ridotti stimoli imposti dall’isolamento, hanno fatto il possibile affinché gli ospiti si mantenessero vitali e li hanno sempre resi partecipi di quanto stava accadendo nella convinzione che il senso di responsabilità non appartenga solo ai sani di mente e che questo sia indispensabile per affrontare nel migliore dei modi le situazioni di emergenza. Dal lavaggio delle mani, al distanziamento fisico, alla misurazione della temperatura, alla spiegazione del perché non si potevano fare entrare parenti e amici, ogni procedura ed ogni aggiornamento venivano esplicitati in modo semplice e chiaro ottenendo la collaborazione dei più, se non di tutti.
    Le risposte lo testimoniano, hanno riconosciuto il difficile periodo, hanno avuto paura, chi più chi meno, ma non se la sono passata troppo male e soprattutto si sono sentiti protetti.
    Il loro vissuto è per noi la migliore gratificazione.
    Grazie, Maria Grazia, Angela e tutti gli operatori!
    Un grazie di cuore anche al Presidente Francesco e ai consiglieri che ci permettono di realizzare ciò in cui crediamo.

  • L’Ageing e la Silver Economy Network ovvero l'invecchiamento e una nuova economia "d'argento"

    rita rambelliA causa dell'aumento dell’aspettativa di vita e della diminuzione dei tassi di natalità, la popolazione mondiale sta invecchiando e tutto l’insieme dei cambiamenti legati all’ Ageing (o invecchiamento), è una sfida ma anche un’opportunità di sviluppo, investimenti e crescita economica in continua evoluzione.
    Il segmento demografico over-60 continua ad espandersi, mentre la popolazione sotto i 14 anni si contrae; dalla prossima metà del secolo gli “anziani" supereranno ufficialmente i "giovani".
    Secondo le stime della ONU, il 10 % della popolazione mondiale nel 2000 era rappresentato dai 60+, questo segmento demografico rappresenterà complessiva-mente il 15% della popolazione entro il 2025 e il 21,8% entro il 2050, raggiungendo un valore lordo totale di oltre due miliardi di persone.

  • L’impegno di Bill Gates per diagnosticare meglio e più in fretta l'Alzheimer unendo la ricerca e il profitto

    rita rambelliContinua l’impegno di Bill Gates nella ricerca scientifica sull’Alzheimer, infatti lo scorso novembre il fondatore di Microsoft aveva investito in prima persona, donando 50 milioni di dollari al Dementia Discovery Fund (seguiti da altri 50 per startup del settore) e nel luglio scorso ha inoltre annunciato che si unirà ad altri imprenditori e filantropi per un investimento di oltre 30 milioni di dollari nel Diagnostics Accelerator, un nuovo fondo che supporterà la ricerca sulla diagnosi precoce della malattia. Dietro la sua scelta c’è anche una motivazione personale, come ha spiegato perché suo padre, 92 anni, soffre di Alzheimer.

  • L’utopia del realismo: “La povertà non è una mancanza di carattere, è una mancanza di denaro”

    rita rambelliRutger C. Bregman (nato nel 1988) è un giovanissimo storico e autore olandese che ha pubblicato quattro libri di storia, filosofia ed economia, tra cui l’ “Utopia del Realismo: come possiamo costruire il mondo ideale” , che è stato tradotto in venti lingue. L'edizione olandese di Utopia for Realists è diventata un bestseller nazionale e ha scatenato un movimento di base che ha fatto notizia internazionale. Il suo lavoro è apparso su The Washington Post e The Guardian e The BBC.
    “ Vorrei iniziare con una domanda semplice: perché i ceti svantaggiati prendono spesso decisioni svantaggiose? Lo so, è difficile rispondere: ma diamo un’occhiata ai dati. I poveri fanno più debiti, risparmiano meno, fumano di più, bevono di più, fanno meno esercizio e mangiano peggio. Perché?”

  • La Bôrga, colloqui ottocenteschi di Umberto Majoli

    rita rambelliRisistemando alcuni libri mi è tornato tra le mani un vecchio libro, La Bôrga, colloqui ottocenteschi ravennesi, scritto da Guido Umberto Majoli, grande studioso della storia di Ravenna, e pubblicato a Ravenna nel 1959, a sue spese, come dice lo stesso autore.
    Come negli altri libri dello stesso autore, il tema di fondo è la storia di Ravenna, ma in questo libro, ormai vecchio e solo, lui parla proprio con Lei, la sua cara Mamma Ravenna.
    Sono colloqui pieni di tenerezza e di nostalgia e ho pensato di condividerne con voi alcuni brani, anche perché questo libro non è più in vendita e difficilmente riuscireste a leggerlo.

  • La laboriosa ripresa dopo il lockdown

    Nell’ultima settimana di febbraio, quando la Lombardia è diventata “zona rossa”, anche l’Università della Terza Età ha dovuto chiudere i battenti. Si pensava inizialmente che la cosa non sarebbe durata molto ….
    - Forse un paio di settimane- ci dicevamo. Ma non è andata così e la nostra amata UTE non ha più ripreso le lezioni.
    Ora il periodo di isolamento totale è finito, ma per la nostra Associazione restano molte incognite. La prima riguarda la sede: i locali in cui si tengono le lezioni bisettimanali sono di proprietà della Fondazione “Casa Prina”, la RSA di Erba, la quale potrebbe avere bisogno della sala (che ha sempre messo a dell’UTE per una modica cifra annuale), per poter mettere in pratica le rigide regole governative sul distanziamento degli ospiti.
    Ammettendo comunque che potessimo disporne ancora, la sala non può certo contenere 70/80 persone (media delle presenze) assicurando le distanze di sicurezza. In città inoltre nessuna sala conferenze potrebbe offrirci questa possibilità.
    La seconda incognita riguarda i soci: la loro età va dai cinquanta agli oltre ottanta anni e nella nostra zona regna ancora molta paura; se in autunno ci fosse una recrudescenza dei contagi, quanti sarebbero disposti a iscriversi di nuovo?
    Ipotizzando la riapertura con un numero di iscritti sufficiente a consentire il proseguimento dell’attività, bisognerà pensare a cambiare tutta la gestione delle attività: si è pensato a turnazioni, all’uso delle registrazioni delle lezioni, o a iscrizioni suddivise per corsi; potremmo forse anche utilizzare le tecnologie per la didattica a distanza, (canali Facebook o Youtube, o videoconferenze) ma quanti anziani sarebbero in grado di utilizzarla? Molti di loro vedono nei computer delle diavolerie fatte apposta per emarginarli, per farli sentire inadeguati.
    Tutto questo rende il futuro dell’UTE molto incerto, ma credo che saremo in molti a cercare di fare il possibile perché questa associazione non muoia e continui ad offrire agli anziani di Erba e dintorni, come ha fatto per oltre 25 anni, un luogo di aggiornamento di notevole livello culturale e un’occasione preziosa di socializzazione.
    Non va meglio, tuttavia, per le altre realtà territoriali che si basano sul volontariato pensiamo solo agli oratori o ai centri estivi: si possono organizzare attività solo per piccoli gruppi, che non devono mai interagire tra di loro, ma per ogni gruppo sono necessari educatori e adulti responsabili. Dove trovare tutte queste persone, che siano anche qualificate per questi ruoli? La prima conseguenza è la lievitazione dei costi per le famiglie, che spesso non sono in grado di sostenerli e decidono perciò di non iscrivere i loro bambini, che passeranno un’estate davanti a TV, play-station e telefonini a giocare a distanza con amici virtuali.
    Le video conferenze, che hanno imperversato nei mesi scorsi, ora stanno lasciando il posto a timidi tentativi di riunioni in presenza, con misurazione delle temperature, mascherine, gel igienizzanti, sedie a debita distanza e tutto assume un’aria oltremodo surreale.

  • La lumaca di Sepulveda: ci vuole il tempo che ci vuole

    ida accorsiCi sono due modi di vivere il tempo; due modi che difficilmente si parlano. Un tempo lento in cui però ogni istante acquista il suo significato e il suo senso e un tempo veloce in cui si è sempre in attesa di quello che avverrà dopo e tutto sfugge ai nostri occhi, in cui ci perdiamo il bello che scorre davanti a noi, siamo disattenti a ciò che ci capita intorno, alle persone, alle relazioni.
    Alla lentezza come forme di ribellione è dedicata questa nota, perché:
    "Ci vuole il tempo che ci vuole".

  • La scuola siamo noi.

    diana catellaniAnche quest’anno il gruppo culturale cui appartengo si sta organizzando per realizzare una mostra.Scegliere il tema non è stato semplice.
    Cosa poteva essere di interesse comune in un periodo di pandemia? Gli argomenti erano veramente tanti, ma volevamo scegliere qualcosa che coinvolgesse tutte le persone di tutte le età.
    Discutendo tra di noi, a un certo punto è stata pronunciata la parola “scuola”….un attimo di riflessione ci ha fatto capire che poteva essere il tema giusto.
    Nella vita di ognuno di noi il periodo in cui eravamo scolari/studenti è stato molto importante: in qualunque modo lo si sia vissuto, da studenti modello o da scalda-banchi, restano legati a quegli anni ricordi indelebili che hanno sempre l’alone dorato della nostalgia per la nostra giovinezza.
    D’ altro canto, con la pandemia è stata sconvolta la nostra quotidianità, ma la scuola non è certo sfuggita alla bufera: l’imposizione del lockdown ha costretto gl’ insegnanti a inventarsi un nuovo modo di fare lezione, utilizzando tecnologie mai prima sperimentate.
    Anche alunni e genitori hanno dovuto velocemente attrezzarsi con cellulari e computer e imparare a gestirli.
    Tutti abbiamo percepito la fatica, e direi la sofferenza, di tutto il mondo della scuola e rendere omaggio ai sacrifici di operatori scolastici e ragazzi è sembrato un piccolo segno della nostra vicinanza. Il titolo che è venuto fuori quasi di getto è: “LA SCUOLA SIAMO NOI: dalla scuola dei nonni alla DAD”
    Abbiamo divulgato vari appelli per reperire documenti, oggetti, testimonianze, foto, disegni e stiamo cercando anche qualche vecchio banco, di quelli di legno a due posti con il foro per il calamaio e la scanalatura per le cannucce con pennino a inchiostro.
    Per ora è arrivata qualche testimonianza di insegnanti che hanno affrontato la DAD, di altri che hanno avuto esperienze nelle scuole italiane all’estero, nelle carceri, nelle scuole di italiano per stranieri e qualche pagella scolastica risalente a un secolo fa.
    Il pezzo più prezioso però, fino ad ora, è certamente l’annata 1957 completa del giornalino per ragazzi “LO SCOLARO”. Me lo ricordavo bene: mi ha fatto compagnia parecchie volte quando ero alle elementari: a quei tempi, per noi che abitavamo in un piccolo paese di campagna, che ben pochi stimoli poteva offrire, rappresentava una finestra sul mondo con le sue rubriche dedicate ai vari paesi, alle notizie di attualità, a rubriche di storia, di scienze naturali, di letteratura infantile. C’era poi una pagina dedicata alle lettere dei ragazzi/lettori in cui comparivano elaborati inviati dalle scuole. Sfogliare quel volume è stato fare un tuffo in quegli anni così lontani, ma ancora così vivi nella memoria.
    Come dicevo, ci è pervenuta la testimonianza di una giovane insegnante che ha affrontato la DAD con entusiasmo e creatività, ma io posso anche riportare l’esperienza indiretta vissuta dal mio nipotino di 7 anni, ora alla fine della prima elementare. Per lui il primo contatto con la scuola è stato molto triste nel periodo in cui ha potuto frequentare: dover portare la mascherina per tante ore, non potersi muovere liberamente, non potersi sgranchire le gambe durante l’intervallo gli ha dato un’idea piuttosto triste della scuola. Quando poi ha dovuto seguire da casa le lezioni davanti a un computer è stato in alcuni momenti interessante, ma in altri momenti, per lui così piccolo, piuttosto traumatico per la difficoltà di gestire il computer e le videochiamate.
    Penso che sia stato così per tutti e quindi contiamo sull’apporto delle testimonianze scritte e “pittoriche” anche dei bambini, vittime innocenti di questa lunga, pesante pandemia.

     

     

     

  • La terza età non è solo assistenza: dallo shopping al turismo in Italia vale 620 miliardi di euro!!

    rita rambelliCi sono molti modi di vivere la vecchiaia e se si ha la fortuna di essere in salute e con una buona pensione si può vedere la vecchiaia come un momento di grandi opportunità. Certo non tutti pensano di invecchiare come Baddie Winkle, la nonna che è diventata una webstar ha 88 anni e vanta più di due milioni di follower su Instagram. Merito della sua ironia e dei nipoti che le hanno aperto le porte della rete, rendendola una webstar. Baddie ha conquistato il popolo dei social grazie ai suoi scatti irriverenti, che sprizzano gioia di vivere e voglia di divertirsi. Non si nasconde e se da un lato si immortala mentre prende le pillole «cercando di allungarmi la vita», dall'altro non disdegna musica hip hop, gelati, sigarette e minigonne.
    Secondo i dati del Consiglio Superiore di sanità guadagniamo 3 mesi di vita media ogni anno e la vita media si è allungata di 10 anni negli ultimi 40 anni e soprattutto è importante sapere che quella che si allunga è la vita attiva, perché i 75enni oggi sono i 65enni di 40 anni fa.
    Questo fenomeno non ha confini geografici ma è iniziato nei paesi più industrializzati e si sta diffondendo in tutto il mondo.
    Il cambiamento più visibile è il tempo libero e tutto l’indotto che vi ruota intorno.

  • Le donne della mia infanzia

    diana catellaniTra le persone che hanno popolato la mia infanzia, ricordo in particolare le donne di famiglia e del vicinato.
    A quei tempi, in Emilia, a quarant’anni erano già considerate vecchie e il loro abbigliamento doveva essere adeguato a questa condizione, perciò si vestivano prevalentemente di colore scuro (tranne le ragazze più giovani), portavano generalmente un fazzolettone in testa (credo per motivi igienici) e un ampio grembiule sopra la gonna lunga.

  • Libri per l’infanzia – come cambiano i personaggi femminili

    ida accorsiDopo decenni di principesse che aspettano il principe azzurro e il suo bacio salvifico, sembra che qualcosa stia cambiando. Persino da Disney se ne sono accorti e qualche anno fa hanno prodotto Frozen, storia animata in cui il personaggio principale, Elsa, è sì una principessa, ma deve imparare a salvarsi da sola e a gestire il proprio potere magico. Ad aiutarla non c’è nessun principe, ma la sorella Anna Frozen.
    Un cambiamento abbastanza importante, anche perché era dai tempi di Mulan, la guerriera cinese che si travestiva da uomo per entrare nell’esercito, che un personaggio femminile così “forte” non faceva breccia nei cuori delle piccole spettatrici. Di mezzo c’era stata la principessa Merida di The Brave – Ribelle, il cui successo tuttavia non è paragonabile a quello di Elsa.
    Anche nei libri per ragazzi e bambini si sta dando sempre più spazio a storie di personaggi femminili che si salvano da soli. E spesso si riscrivono le storie di figure storiche: regine, principesse, ma anche pittrici, atlete…
    Negli Stati Uniti è stato pubblicato l’abbecedario Rad American Women: a ogni lettera corrisponde una donna americana che è entrata nella storia per le proprie gesta.
    Si passa dalla musica allo sport, fino ai diritti civili.

  • Magaria, una favola di Andrea Camilleri: una tenera immagine di un nonno che va a passeggio con la sua nipotina

    ida accorsiNon tutti lo sanno, ma Andrea Camilleri, uno dei più celebri scrittori italiani contemporanei, regista teatrale, autore di testi radiofonici e sceneggiature televisive, è anche scrittore di opere per i più piccoli: Topiopì, Il naso, I tacchini non ringraziano. Prima ancora di essere uno scrittore fu un giovane precoce lettore: iniziò, a leggere molto presto, prima grazie alla nonna Elvira e poi alla sua curiosità che lo portò a prendere e sfogliare i libri della biblioteca del papà.
    In un’intervista rilasciata a  La Repubblica ci racconta:
    " Mia nonna Elvira era saggia ed autorevole ed è stata la figura che ha aperto la mia fantasia.
    Parlava agli oggetti e agli animali come se fossero creature umane, e cambiava voce a seconda dell’oggetto, dicendomi:
    “Ma secondo te posso parlare al pianoforte come parlo alla saliera?”
    Aveva l’abitudine di inventarsi parole, e quando ancora non ero in grado di leggere mi raccontò tutt’intero - Alice nel paese delle meraviglie.- Fu il mio primo libro.”
    MAGARIA, è il primo racconto per bambini scritto da Andrea Camilleri ( nonno di sei nipoti) è una celebrazione della fantasia e della sua colorata terra, la Sicilia.

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  • Mai più la guerra

    diana catellaniSi avvicinava il centenario della fine della Grande Guerra e per questa ricorrenza il gruppo culturale cui appartengo aveva previsto di organizzare un evento che ricordasse a tutti come la pace non sia un bene così scontato.
    Volevamo rievocare i tempi in cui le cartoline di precetto seminavano periodicamente il panico nelle famiglie, che si vedevano strappare i propri figli con la prospettiva di non vederli più tornare.
    Ma quale evento poteva essere più efficace? Abbiamo deciso alla fine che si poteva organizzare una mostra di foto, cimeli, documenti, lettere di soldati di entrambe le guerre mondiali che hanno insanguinato il secolo scorso e di intitolarla “Mai più la guerra…”.

  • Maratona interrotta per Covid- cosa succederà?

    rosanna vaggeEra il 25 febbraio del 2020, quando, dopo una sospensione di quasi 3 anni a causa dell’alluvione, gli organizzatori avevano dato l’ok per riprendere a correre la faticosa maratona “Arco della vita” e fortunatamente avevano considerato valido il percorso precedente.
    L’articolo dal titolo “Maratona sospesa al km 9- si riprende a correre” pubblicato su questo stesso Blog racconta nei dettagli con quanto entusiasmo “Casa Morando” fosse ripartita, nella consapevolezza delle difficoltà insite in un territorio fragile quanto i suoi abitanti, ma con la volontà di perseguire l’ obiettivo di dare dignità alla vita e di rendere il più possibile concreta la parola inclusione.
    Il racconto che la mia mente aveva accantonato in un angolo recondito fino a dimenticarsene, concludeva con questa frase: “Ora si parte, dobbiamo riprendere un passo sostenuto senza esagerare. Non manca molto al ristoro del Km 10 e dobbiamo arrivarci in buone condizioni per acquisire ulteriore energia e, a testa alta, battere i pugni affinché Casa Morando diventi a pieno titolo una Residenza Protetta aperta”.
    La rileggo più volte, questa frase, e mi accorgo che il sentimento di amarezza misto ad avvilimento che di primo acchito mi ha invaso lascia il posto alla voglia di ricominciare, di raccogliere le forze, stringere i denti e andare avanti, anche se al ristoro previsto al Km 10 non siamo riusciti ad arrivarci.
    Proprio così, perché, dopo aver percorso poco più di 700 metri, la maratona è stata bruscamente interrotta per evitare la diffusione del contagio dell’infezione Covid-19 e tutti indistintamente siamo stati mandati a casa fino a data da stabilirsi. È infatti l’11 marzo del 2020 quando il Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità , Tedros Adhanom Ghebreyesus dichiara la pandemia da Coronavirus essendo in netto aumento i casi di infezione, più di 118.000 in ben 114 paesi, e già oltre 4000 le vittime.
    Un anno paradossale, interminabile e nello stesso tempo volato via, come sospeso nel nulla, privo di aspettative, di risorse, brulicante di dolore e sofferenza, incertezza, delusione, sfiducia e morte. Un anno di vita perso, monopolizzato da una particella invisibile capace di esaltare le meschinità insite nell’animo umano e indebolire fino ad annientare i pensieri più nobili.
    Un anno in cui gli anziani residenti di “Casa Morando” hanno subito le restrizioni imposte dalle autorità competenti: niente più shopping al mercato del venerdì di Chiavari, niente più lezioni di musica all’asilo della Scuola Maria Luigia, niente più visite dei parenti o rientri a casa, in famiglia, per il fine settimana. Un cambiamento radicale delle loro abitudini che, nonostante gli sforzi della direttrice Maria Grazia di rendere gioioso il periodo di reclusione offrendo preziosi momenti di svago all’interno della residenza, non ha certo giovato al loro benessere legato soprattutto al sentirsi liberi di scegliere come e dove muoversi, godere della musica, del ballo, delle feste a sorpresa, degli incontri con gli amici del Rotary, del calore insostituibile di un bacio e di un abbraccio.
    Ringraziando la buona sorte ed incrociando le dita, come la tradizione ci insegna, il virus non li ha colpiti e pure la seconda dose del vaccino Pfizer non ha provocato alcun effetto collaterale, nemmeno il minimo risentimento al braccio nel punto di iniezione. Sarà per il fatto che abbiamo cercato di esorcizzare la paura con allegria e creatività, complice un ambiente accogliente, reso vivace dall’andirivieni dei nostri gatti, il cui numero è salito a 6, dopo l’arrivo di Tinetta e l’adozione di due dei suoi cuccioli, Cesare e Topo. Poi ci sono Gertrude, Anita e Zoe che popolano il cortile antistante, ma non disdegnano affatto di entrare all’interno della casa per sgranocchiare ciò che resta nelle ciotole dei felini e ripulirle di tutto punto. Ed ora è arrivato anche Germano, un giovane e timido galletto dalle piume dorate che sveglia il circondario anticipando l’alba con il suo canto discreto, ma insistente. Gli ospiti sono felici di tanta animazione. “È questa la vita!” sostiene Rita dall’alto dei suoi 93 anni che non dimostra affatto né nel fisico né nella mente, “Svegliarsi con il suo canto è delizioso!”, mentre Carlo, dritto in piedi al centro della palestra e con il braccio alzato per richiamare l’attenzione, proclama a gran voce: “Evviva Germano, un gallo in mezzo alle galline ci voleva proprio!”.
    Concordo, penso io e le immagini che vi propongo testimoniano, più che le parole, l’atmosfera vivace , in armonia con la natura, che si respira in Casa Morando.
    Anita e ZoeGermano.1

    Cesare e Vittoria

     

     


    L’arrivo di un gallo ha sempre segnato una svolta importante nel percorso di vita degli ospiti. Il primo è stato un galletto di piccola taglia, vecchio e spennacchiato che abbiamo chiamato Ugo e che apparteneva a Rina, una anziana signora che i servizi sociali avevano ritenuto non più in grado di vivere autonomamente in casa propria e le avevano nominato un amministratore di sostegno per istituzionalizzarla. Rina era una donna di campagna, molto riservata, attaccata alle sue abitudini, indossava sempre il grembiule da cucina e non si separava mai da una borsa da spesa, sgualcita dal logorio del tempo. Si adattava male alla vita di comunità, si annoiava, non si sentiva utile ed allora abbiamo pensato che poter continuare ad accudire Ugo sarebbe stato per lei di grande conforto. Fu l’amministratore di sostegno in persona a consegnarcelo, rinchiuso in uno scatolone di cartone con i buchi, ma purtroppo visse solo pochi mesi lasciando vedove Teresa e Gilda, le due galline che solo Rina riusciva a confortare con le sue coccole. Poi fu la volta di Osvaldo, il più birichino perché di tanto in tanto rincorreva le persone che non le erano simpatiche cercando di speronarle. Osvaldo ci lasciò all’età di 5 anni, improvvisamente; noi ci preoccupammo pensando a qualche malattia fulminante, ma i veterinari dell’ASL ci rassicurarono sostenendo che avesse raggiunto la fine dei suoi giorni per anzianità. Nel frattempo era nato in casa Fortunello che, quando era ancora giovincello, si perse lungo il fiume Rupinaro e non fu mai più trovato. Da più di un anno, causa pandemia, Casa Morando era priva della sua mascotte e gli ospiti attendevano con gioia l’arrivo del promesso sposo di Gertrude, Anita e Zoe. I vicini un po’ meno, considerato che qualcuno si è già lamentato per il chicchirichì. Come può infastidire il canto di un gallo? Mi chiedo senza trovare risposta.

    La svolta segnata da Germano, sarà la ripresa della vita sociale per gli ospiti di Casa Morando che hanno tutti completato la vaccinazione anticovid in data 5 febbraio. Aspetteremo con pazienza i tempi previsti per la produzione degli anticorpi specifici che ci renderanno immuni dall‘attacco del fatidico virus e, una volta ottenuta la certificazione e l’autorizzazione dall’ASL, almeno verbale, con mascherine e tutte le precauzioni del caso, potremmo finalmente varcare il cancello della residenza, passeggiare per le strade del centro cittadino, ammirare le vetrine dei negozi , incontrare persone di tutte le età, chiacchierare con conoscenti, parenti, amici, sorridere alla vista dei bambini che corrono di qua e di là approfittando della zona pedonale del carruggio. E, perché no, salire orgogliosamente sul trenino turistico che fa il giro della città per festeggiare, anziché il Natale, come di consueto, la riacquistata libertà dopo la vaccinazione. Un modo divertente per promuovere la profilassi anti-Covid, ma soprattutto un invito alle istituzioni affinché riflettano sull’importanza dell’inclusione in tutto l’arco della vita.
    Così Nina, che è solita camminare a passo veloce nel giardino antistante per mantenersi in forma, si potrà comprare delle scarpe comode, misurandosele, perché quelle che il fratello le ha portato, pur essendo del suo numero, le vanno strette. In tempi di pandemia, purtroppo, per chi vive in comunità, non è permesso di uscire né in autonomia né tanto meno accompagnata, cosa che Nina, per l’amicizia che ci lega, ha accettato di buon grado riempiendosi i piedi di cerotti. Una accettazione che non sono riuscita a digerire e che mi ha lasciato l’impressione di tradire la sua fiducia perché, sarà per il mio spirito rivoluzionario o chissà per quale altra cosa, certe restrizioni a cascata, rigide e assurde, si collocano al di fuori del mio pensiero logico. E poi un buon paio di scarpe, capace di attutire il peso e di preservarti sani i tegumenti, è fondamentale per chi ama camminare o correre.
    Bruna, invece, ha continuato a uscire ogni mattina dalla residenza, mostrandosi del tutto indifferente alla normativa vigente, non perché non la conoscesse, legge due quotidiani al giorno, ma per convinzione: lei, codice 1721, erede degli Asburgo, non può essere toccata dal Coronavirus.
    cod. 1721È stata redarguita dai Carabinieri e minacciata di sanzioni allargate all’intera struttura con obbligo di sorveglianza, come chiaramente espresso nell’articolo sottostante pubblicato sul Secolo XIX in data 2 aprile 2020, ma ogni giorno dei mesi successivi fino ad oggi, ha continuato imperterrita a proseguire le sue abitudini. Per fortuna nessuno ha più osato fermarla.


    BrunaEd eccola, in una foto tratta da face book pubblicata da un passante incuriosito dal lento procedere dell’audace vecchina, carica di sacchetti all’apparenza pesantissimi, sacchetti dal contenuto misterioso che nessuno può sottrarle.

    Cosa succederà?
    Si riuscirà a ripartire?
    Considereranno valido il percorso precedente?
    Oppure annulleranno il tutto costringendoci a ricominciare dal Km 0 e chissà quando?
    Mi chiedo, colta da una emozione talmente forte da comprendere il tutto e il nulla. Cerco di analizzarla e mi accorgo che a mano a mano i sentimenti negativi come la rabbia, la delusione, l’indignazione, capaci di bloccare ogni movimento del corpo fino a paralizzarti, sfumano a poco a poco lasciando il posto ad una malinconica neutralità che si trasforma a breve in speranza, fiducia nelle proprie forze, certezza di non perdere mai di vista la meta.
    Sono stati necessari 10 anni per correre, tra una interruzione e l’altra 9,7 km della maratona “Arco della vita”, 10 anni in cui abbiamo acquisito la consapevolezza dei nostri limiti, ma anche delle nostre potenzialità, mentre l’esperienza ci ha addestrato alla pazienza, alla prudenza e al coraggio. Tutto ciò non può essere cancellato.
    Ora le nostre gambe fremono per ripartire, alla grande e non importa se ci daranno il via ufficiale, sapremo attendere e nel frattempo ci alleneremo duramente.
    Perché il diritto ad una vita e a una morte dignitosa non debba mai più essere calpestato.

  • Marco e Davide: a tu per tu con la madre e la sua demenza

    marco annicchiaricoMarco Annicchiarico- musicista, critico musicale, scrittore, ufficio stampa musicale

    davide fregniDavide Fregni- musicista-gestisce il Laboratorio di Musica Quodlibet- concertista e compositore

    Questa intervista, con altre che l’hanno preceduta, rientra in un tentativo di parlare delle demenze, qualunque siano le cause che le provocano, combattendo due convinzioni molto diffuse, anche per l’assenza al momento attuale sia di un’idea dell’origine della demenza, sia di una cura per rallentarla o contenerla se non guarirla. La prima ritiene che una volta emessa una diagnosi non ci sia più niente da fare, anche se la persona è ancora giovane e conserva molte facoltà. La seconda, da cui origina questa intervista, si sofferma sulle relazioni che s’instaurano tra il caregiver, la persona con demenza, il mondo circostante. Partiamo dalla vostra realtà. Un figlio, maschio che, per ragioni diverse e in contesti diversi si trova ad assistere la propria madre, in stato ormai avanzato, pare di capire, di demenza. Come si è giunti a questa situazione e quali scelte (anche obbligate) sono state fatte, qual è l’impegno?

  • NESSUNO E’ SOLO, SE HAI BISOGNO CHIAMA!! Gli anziani soli al tempo del corona virus

    rita rambelliNoi non abbiamo vissuto una guerra, ma sicuramente ricorderemo tutti lo sconvolgimento sociale determinato dall’epidemia del virus COVID -19 che è scoppiata in Italia nel mese di febbraio. Oggi è il 19 marzo e come ci sta dicendo incessantemente la televisione dobbiamo “restare a casa” e uscire solamente per necessità improrogabili.
    Se guardo fuori dalla finestra, vedo il parco della Rocca Brancaleone, normalmente pieno di famiglie con bambini che adesso è deserto non si sente nessun rumore, uno spettacolo irreale che ricorda certi film di fantascienza sulle grandi catastrofi o guerre che potrebbero distruggere l’umanità…!!
    Mi rendo conto di essere una persona fortunata, non sono sola, c’è mio marito con il quale ho un ottimo rapporto da quasi 50 anni, ho una figlia che mi telefona ogni giorno, una nipote di 10 anni che ho visto crescere da quando è nata e con la quale in video chiamata facciamo conversazione e verifichiamo i compiti che la sua scuola elementare pubblica ogni giorno sul suo sito web.

  • O bevi o guidi e se hai bevuto prenditi un po’ di tempo!!

    rita rambelliSono passati circa vent’anni da quando non dormivo la notte e aspettavo il ritorno di mia figlia terrorizzata da quelle che chiamavamo le stragi del “sabato sera” .
    Sembravano problemi superati, ma in questo week-end di metà luglio, in uno sabato sera, ci sono stati 12 giovani morti in sei diversi incidenti causati da un mix micidiale di alcol, velocità, droghe e distrazione che hanno riportato alla luce il problema delle stragi di giovani vite.
    Cosa è successo? Eppure i tempi sono cambiati, c’è l’omicidio stradale, i limiti di alcolemia, le grandi discoteche sono ormai tutte chiuse, e i giovani di oggi non sembrano più interessati a fare tanti chilometri in macchina per andare in un locale alla moda.
    Forse è diminuita l’attenzione per la prevenzione della salute e per l’educazione stradale, e sono diminuiti anche i controlli perché, come afferma l’Associazione sostenitori della polizia stradale, ci sono sempre meno pattuglie per le strade, soprattutto di notte e di conseguenza sono drasticamente diminuiti i controlli sul livello di alcolemia.

  • Pensieri strampalati sulla Cura

    Ippocrate di Kos era indubbiamente un medico d’urgenza per il semplice motivo che allora il medico si prendeva cura delle persone che si ammalavano gravemente o che avevano avuto dei traumi.
    Certo le teorie scientifiche su cui si basava Ippocrate non erano paragonabili a quelle odierne, ma il pensiero fondamentale che lo ha portato ad essere considerato il padre della medicina è che la malattia e la salute di una persona non dipendono da agenti esterni o da superiori interventi divini, ma piuttosto da circostanze insite nella persona stessa.
    “La natura è il medico delle malattie … il medico deve solo seguirne gli insegnamenti”, un concetto che calza a pennello con le situazioni acute di grave criticità, traumatiche e non, di ogni tempo in cui la cura è finalizzata a potenziare quello che l’organismo mette già in atto per sopravvivere. Ovviamente ci vuole tempestività, oltre che essenzialità.
    Un altro concetto ippocratico che condivido in pieno è l’attenzione allo stile di vita del paziente e a tutti quegli elementi, dietetici, atmosferici, psicologici, sociali che contribuiscono a sconfiggere la malattia da cui la persona è affetta, una visione globale che oggi è ben poco se non per nulla praticata e tanto meno pensata. La frase a lui attribuita “Non mi interessa che tipo di malattia ha quell’uomo, ma che tipo di uomo ha quella malattia” esprime in modo inconfutabile il suo pensiero e sottolinea l’importanza della relazione medico- paziente nel processo di cura.
    Il dovere del medico è fare il bene del paziente e il dovere del malato è di accettarlo, un rapporto di tipo paternalistico, in cui la responsabilità morale del medico sta nella certezza che egli operi per il bene assoluto del malato. Un rapporto che oggi si è indubbiamente incrinato, ma che resta insito nell’animo umano perché basato sulla fiducia e sul rispetto reciproco.
    Ce lo spiega bene Amelia che aveva 102 anni compiuti quando, in occasione della presentazione di una relazione dal titolo “La cura Slow” nell’ottobre 2012 le chiesi un suo parere su come doveva essere un medico. La diapositiva sottostante riporta la sua testimonianza. AMELIA
    Amelia ora non c’è più, il tempo passa e le cose cambiano sotto i nostri occhi, senza quasi che ce ne accorgiamo.
    Indubbiamente, a partire dal XVI secolo, l’emancipazione della persona, frutto delle grandi rivoluzioni politico-religiose e dei grandi pensatori da Locke a Kant, nonché l’evoluzione tecnologica del XX secolo hanno trasformato a poco a poco il principio di beneficialità alla base del rapporto medico-paziente e influenzato grandemente l’epistemologia della medicina.
    Nel contempo la costruzione dell’Europa comunitaria con la miriade di regole settoriali, la nascita della Bioetica, tesa all’umanizzazione della medicina, l’affermazione dei principi di dignità umana e dei diritti fondamentali sanciti nella Convenzione di Oviedo (1997) e in tante altre dichiarazioni, sono tutti fattori che hanno contribuito al cambiamento culturale.
    Il medico gradualmente abbandona i panni autorevoli e impunibili del sacerdote della salute, per indossare quelli del tecnico che stipula un contratto con il proprio cliente.
    Si passa così dal “paternalismo medico” al principio di “autonomia” del paziente, fondato sul concetto di libertà e quindi di autodeterminazione nei confronti della propria salute e persino della propria vita. Il procedimento decisionale si sposta dal curante all’assistito, previa acquisizione delle informazioni necessarie e cambia il modo di giudicare sia civilmente che penalmente il vizio di informazione e il vizio di consenso.
    Il Codice deontologico del medico basato sull’antichissimo giuramento di Ippocrate è mantenuto ancora oggi come espressione di una autonomia normativa interna per i comportamenti virtuosi della categoria, ma l’evoluzione della medicina nei rapporti con la società, ha creato sempre più stretti rapporti tra il “bene sociale” e il “ruolo professionale” dei quali si è fatto carico il diritto, espropriando al Codice alcune regole o travasandole nel diritto civile o nel diritto penale, a causa della loro rilevanza per l’interesse comune o nei regolamenti amministrativi sempre più pervasivi della professione.
    La diapositiva sottostante, tratta da una relazione dal titolo “Sguardo antropologico” presentata a Chiavari nel 2011 riassume la complessità del sistema in cui siamo immersi, tale da renderlo simile ad una matassa aggrovigliata.

    MATASSA
    Il medico oggi ha a disposizione tecniche e strumenti che gli consentono di inseguire risultati un tempo impensabili, ma si trova a dover combattere con le forze di mercato, le esigenze amministrative e le pressioni sociali. Ecologia ed economia sono le due nuove discipline di cui la medicina attuale deve, spesso suo malgrado, tenere conto.
    Già nel 1910, il Dr. Abraham Flexner constatava che nelle 155 Scuole di Medicina allora esistenti negli Stati Uniti, la priorità della ricerca scientifico-tecnica stava per diventare l’unico metro di giudizio dei traguardi già raggiunti o da raggiungere, mentre stavano perdendo importanza la clinica, l’attenzione al rapporto medico-paziente e la considerazione dei problemi di salute pubblica.
    Ma non è tutto, infatti è accaduto che, come anticipato da Ivan Illich nel suo libro “Nemesi medica” del 1976, il concetto di morbosità si è esteso fino ad abbracciare i rischi prognosticati e la medicalizzazione della vita è diventata sempre più pregnante nella società.
    Così i medici, che per millenni hanno curato singoli individui gravemente malati, sono ora chiamati a curare individui sani che hanno una maggiore probabilità di contrarre una malattia negli anni o nei decenni a venire.
    Ma siamo proprio sicuri che prevenire sia sempre meglio che curare? Già nel 2008 autorevoli riviste come “The Lancet” si ponevano questa domanda e invitavano i clinici ad essere molto attenti ad eventuali conflitti di interessi.
    Oggi si discute sulla sovradiagnosi con le conseguenze che comporta ed è stata evidenziata la tendenza a incrementare le malattie inserendo nella classificazione nosografica alterazioni o anomalie subcliniche, se non addirittura fattori di rischio al solo scopo di trarne un profitto, fenomeno identificato con l’espressione inglese “disease mongering”.
    Nasce inoltre la prevenzione quaternaria che altro non è che la prevenzione della medicina non necessaria o della ipermedicalizzazione, ma di questa se ne parla ancora troppo poco.
    In un contesto così complesso è difficile per i medici intraprendere decisioni su uno o l’altro trattamento, imbrigliati come sono nel concetto dilagante che la cura migliore sia quella basata sui dati scientifici (da “Il malato immaginato. I rischi di una medicina senza limiti” Marco Bobbio, edizione 2010).
    La riflessione del collega cardiologo verte anche sul pericolo maggiore al quale può condurre il vortice della realtà di oggi, caratterizzato dalla sopravvalutazione della tecnologia, dal fervore dei “media”, dalla corsa sfrenata alla performance, dalla logica terrorizzante del rischio: perdere di vista il paziente, cioè l’essere umano che chiede aiuto, talvolta per problemi minimi, irrilevanti agli occhi del medico o pretende la pillola per poter realizzare i suoi sogni o confessa l’incapacità di rinunciare a ciò che ritiene la ragione della sua vita.
    Anche l’antropologo Andrea Drusini (Antrocom vol. 1 n° 2-2005) sottolinea che mai, come in questo periodo, la medicina ha esibito la sua potenza tecnologica e mai come ora ha attraversato una così profonda crisi di credibilità da parte dell’opinione pubblica. Poi si chiede: “Cosa ne è del rapporto medico paziente oggi, dove il laboratorio e la diagnostica strumentale sono diventati spesso i luoghi di un dialogo frammentario e frustante?"
    David Loxterkamp, medico di famiglia, in un bel articolo pubblicato su BMJ nel 2008, in cui utilizzando il fiume come metafora, definisce la relazione terapeutica l’incantesimo della speranza, sostiene che se tutto questo potesse essere ottenuto con una intervista computerizzata, con una checklist per il mantenimento del benessere e con le linee guida basate sulle prove di efficacia, i medici non sarebbero necessari.
    La diapositiva sottostante riporta alcuni passaggi del testo.
    IL FIUME
    L’arte del curare è indubbiamente mutevole ed espressione della cultura e della società, ma la profonda interazione tra psiche e soma è centrale in tutte le forme di terapia e in tutti i tempi e la relazione terapeuta – paziente rimane un elemento fondamentale per l’auspicato benessere di entrambi.
    Peccato che oggi la cura è stata assorbita dalla terapia scientifica fino a diventarne sinonimo: curare nel linguaggio attuale significa più o meno trattare la malattia con farmaci o comunque con strumenti tecnici. Stretto tra due opposti, l’oggettività generalizzante della malattia e la singolarità soggettiva del malato, il medico moderno ha scelto di considerare prioritaria la prima rispetto alla relazione, e su di essa infatti poggia quasi per intero il curriculum formativo del professionista.
    Sono parole di Giorgio Bert pronunciate nel 2011, quando è nata Slow Medicine, parole che avevo riportato pari pari in una relazione dal titolo “La cura slow” presentata nell’ottobre 2012 a Sestri Levante.
    L’emergenza Coronavirus ha esacerbato questa deriva riducendo ai minimi estremi la relazione con i pazienti e con i familiari e generando danni incalcolabili in quanto non misurabili che indubbiamente hanno influito sulla sopravvivenza. E i vecchi hanno avuto la peggio.
    La scienza e la tecnologia hanno dimostrato tutti i loro limiti.
    Giorgio Bert, in un recentissimo post su Facebook sottolinea che” i medici che hanno studiato e praticato la medicina nel secolo scorso sono stati convinti che è scientifico tutto ciò che può essere studiato mediante esperimenti e che quindi è continuamente sottoposto a verifiche e falsificazioni. Hanno altresì appreso che ci sono cose non sperimentabili, cioè “non scientifiche”, che tuttavia esistono. Covid ha seriamente messo in dubbio questa convinzione: ogni scienziato sembra poter dire qualsiasi cosa e il contrario di essa e parla, più che nei contesti scientifici, in Rete, sui giornali, in TV esprimendo abbastanza a casaccio narrazioni diverse, dati opinioni, ipotesi, pensate, previsioni … litigando e polemizzando. Ma allora la scienza esiste ancora? O è essa stessa una narrazione o meglio un guazzabuglio di narrazioni?” Si chiede con amara ironia.
    Non posso dargli torto.
    Ma non è tutto: le strategie finalizzate ad evitare la diffusione del contagio, basate sulle cosiddette evidenze scientifiche e sulle metodiche messe a punto per l’identificazione dei soggetti infettati e infettanti, hanno condotto all’isolamento di massa di esseri umani spesso ignari di quanto stava accadendo, privandoli di ogni libertà. L’autonomia e l’autodeterminazione delle persone sono svanite d’incanto in nome della salute pubblica e il dialogo medico-paziente, già così compromesso, è diventato ancor di più esasperato e conflittuale.
    Non si poteva far diversamente, può essere, ma almeno rendiamocene conto e cerchiamo di rimediare, tenendo a mente che la relazione terapeutica è l’incantesimo della speranza e, come dice il detto popolare, la speranza deve essere l’ultima a morire.

  • Piano per l’eliminazione delle barriere architettoniche, una legge mai rispettata

    rita rambelliIl 3 dicembre era il Giorno internazionale per i diritti con le persone con disabilità, diritti spesso dimenticati dalle amministrazioni italiane, nonostante le normative in merito risalgano a molti anni fa. 
    Secondo l’Istat ci sono 3,1 milioni di disabili in Italia, cioè il 5,2 per cento della popolazione. Fra 40 anni saranno oltre 4 milioni con un aumento del 25%. Uno dei temi più sfidanti in Italia è e sarà sempre di più garantire il diritto ad una mobilità sostenibile per tutti. Tra le tante esigenze per un’Italia nuova dopo la terribile pandemia che sta sconvolgendo il mondo, emerge quindi fortissima la necessità di politiche che favoriscano gli investimenti per realizzare interventi strutturali che mettano al centro la mobilità e l’accessibilità non tanto e solo per le persone disabili, ma per tutti: per le mamme incinte o per quelle che portano a passeggio un bambino in carrozzina, per un anziano con il deambulatore o per qualcuno che accidentalmente si è rotto una gamba, perché un luogo, pubblico o privato, che sia un ufficio o una casa, dovrebbe essere sempre accessibile in qualsiasi situazione!!
    Purtroppo però l’esperienza delle nostre città ci dimostra ogni giorno che il problema è scarsamente sentito e quindi anche difficilmente affrontato.
    Una delle mie sorelle (io ne ho 4) oltre vent’anni fa, in seguito ad una grave malattia, è rimasta fisicamente disabile al 100% e si muove solamente su una sedia a rotelle accompagnata da qualcuno di noi. Anche lei, come tutti noi, sente l’esigenza, a pieno diritto, di uscire di casa, e io sono sempre uscita con lei, per acquisti nei negozi, per un aperitivo al bar o un pranzo al ristorante, ma ogni volta è una notevole fatica fisica oltre ad uno stress psicologico per la paura che ti capiti qualcosa, qualsiasi cosa, che ti metta in difficoltà e nello stesso tempo faccia sentire mia sorella umiliata e a disagio.
    Impossibile girare sui marciapiedi, sempre pieni di biciclette, di motorini, di avvallamenti e spesso senza scivoli per salire e scendere. Può capitarti di tutto, di rimanere incastrati con una ruota, o di ritrovarsi con le mani sporche degli escrementi di un cane non raccolti da un proprietario maleducato che poi si attaccano alle ruote della carrozzina e tu te le ritrovi fra le mani senza neppure capire come è successo………!! Con preoccupazione mi domando come farò tra qualche anno quando non avrò più forze fisiche sufficienti per affrontare queste gincane.
    Scale e dislivelli, ma anche passaggi troppo stretti, pavimentazioni scivolose o sconnesse, bagni non attrezzati, vialetti esterni non riparati e mancanza di posti auto dedicati: le barriere architettoniche sono molto più varie e complesse di quel che normalmente la pubblica opinione è portata a pensare. Per le persone disabili o per coloro che hanno una limitata capacità motoria, come infortunati e anziani, le barriere architettoniche costituiscono un vero e proprio limite alla loro autonomia ma anche una situazione di disagio morale e psicologico che li fa sentire un peso per i familiari e per la società in generale.
    In Italia in base all'art. 32, commi 21 e 22 della legge 41 del 1986 aggiornati dall'art. 24, comma 9 della legge 104 del 92, gli Enti centrali e locali in base alle rispettive competenze sull’edificio o sullo spazio pubblico o sul percorso da adeguare, sono obbligati ad adottare ed aggiornare periodicamente - i Piani di Eliminazione delle Barriere Architettoniche “PEBA” - ma la loro realizzazione è stata attuata in pochissimi Comuni.
    Il Comune di Ravenna dove vivo, il 3 dicembre scorso, ha finalmente approvato il PEBA, il piano dell'eliminazione per le barriere architettoniche, uno degli strumenti tra i più attesi che è stato possibile portare a compimento grazie al sostengo di più Enti, Associazioni dei disabili, e portatori di interessi.
    Sono stati fatti numerosi incontri per dare la più ampia diffusione e condivisione delle decisioni ma il percorso non si è ovviamente concluso: si tratta del primo passo, propedeutico ad un percorso che a detta dei politici locali, richiederà almeno dieci anni per la sua realizzazione !! Tempi quindi molto lunghi per chi aspetta ormai da molti anni, ma almeno una speranza.
    Vivere in un ambiente rispettoso delle necessità di tutti fa la differenza tra una qualità della vita dignitosa e l’abbandono, tra l’integrazione nella società e l’isolamento, tra l’opportunità di godere dei propri diritti e il rimpiangerli.
    Questo auspicio per una città accessibile che tenga veramente conto dei diritti di tutti è la mia “letterina di Natale” alla fine di un anno terribile che ci ha messo tutti a dura prova!!

    BUONA SALUTE E BUON NATALE A TUTTI !!

     

  • Piccolo Blu e Piccolo Giallo

    ida accorsiEdito col titolo Little Blue and Little Yellow nel 1959, da una casa editrice statunitense, la Astor-Honor, che in quegli anni pubblicava classici e autori contemporanei, approda in Italia nel 1967 per Emme Edizioni primo libro di Leo Lionni (autore, pittore, grafico americano, ma italiano d’ adozione). Si presenta in una veste grafica molto curata, un vero gioiello visivo in cui si usa la teoria classica dei colori primari e il risultato della loro commistione, per sviluppare una straordinaria metafora educativa.
    Questo è un libro rivolto ai bambini più piccoli, a partire dai 3 anni, per giocare con l’arte e a mescolare i colori, realizzato con la tecnica del collage, usando delle macchie colorate disposte sulle pagine in modo da creare personaggi che si muovono ed entrano in relazione tra di loro. Piccolo blu e piccolo giallo è la storia semplice e commovente di un’amicizia che supera le differenze e abbatte i pregiudizi adulti.

  • Pinocchio il fascino di un burattino senza fili da pezzo di legno a bambino

    ida accorsi“C'era una volta...
    - Un re! - diranno subito i miei piccoli lettori.
    No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d'inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
    Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome Mastr’Antonio, se non che, tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura

  • Questi anziani che sorprendono!!!

    !Sabrina PoggiGli anziani sono un tesoro da custodire, perché sono coloro che ci tramandano i valori ed i ricordi. Pensiamo per lo più alle persone anziane come ad individui fragili, scarsamente tolleranti ai cambiamenti. Vari studi, tuttavia, dimostrano che sono molto più stabili dal punto di vista emotivo rispetto alle generazioni più giovani. Avete mai pensato che l’emergenza in atto potesse far emergere anche qualche aspetto positivo, parlando di Terza Età?!
    In RSA questi anziani ci sorprendono in ogni momento! Ci hanno dimostrato la loro straordinaria adattabilità, anche e soprattutto ora, con l’emergenza CoVid-19. La mancanza dei loro cari si sente in ogni momento, ma si sono da sempre dimostrati consapevoli della situazione, e, superato lo smarrimento iniziale, hanno affrontato con coraggio e tanta voglia di vivere questi mesi difficili.
    In Struttura sono state mantenute, con loro immenso piacere, attività che permettessero loro di rimanere attivi. Musica, balli, canti…Ma non solo! Chi ha i capelli tinti di bianco ha imparato anche a conoscere le nuove tecnologie: Whatsapp e Skype, per dialogare con i parenti a casa superando così in maniera virtuale le distanze imposte dalle direttive sanitarie anti-contagio, telefoni e tablet, per inviare/ricevere foto e video.
    Come avrete capito, a noi piace vedere e tentare di mostrare il bicchiere mezzo pieno. Vi scriviamo dalla nostra “isola felice”, Villa Serena, stavolta presentandovi i pensieri anche di chi sta “dall’altra parte”. Non sempre e solo noi caregiver, facciamo parlare un po' chi è l’”oggetto” della cura!
    Vi proponiamo, perciò, anche la visione di un nostro ospite e veterano, il signor Enrico, super-73enne, che collabora con noi educatori in un sacco di attività (Giornalino di Struttura, giornalino –ormai a distanza, purtroppo- con le classi quinte delle scuole qui accanto, tastierista per gli incontri di musicoterapia, e chi più ne ha più ne metta…!), che si è sentito di dire la sua sull’argomento:


    Vecchi Sabrina"Il vecchietto dove lo metto" cantava lustri fa Domenico Modugno. Ci si scherzava sopra, ma ora con questo "Corona", che ti dicono prediliga soprattutto quelli dai 70 anni in su, specie se non son delle rocce, non c'è più voglia di farlo! Anche se – essendo io nel comparto – mi rendo conto che il comune sentire, in questi tristi giorni, possa non essere edificante per i nonni, specie se un po' malandati. Ma attenzione, perché i tempi non sono più quelli di una volta!
    Oggi i vecchietti sventano le truffe e fanno arrestare i balordi, si cimentano con quello che la tecnologia mette loro a disposizione… la figura dell'anziano "sospettoso" che osserva strani oggetti illuminati e pieni di colore come i computers, sembra ormai essere in netta diminuzione…
    Il che smentisce intanto uno dei più diffusi stereotipi di noi senior, quello di una minore capacità di far fronte ai cambiamenti. L'uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia perché smette di giocare! Qui gli anziani pensano al futuro! In una struttura, dove parrebbe non ci siano aspettative, quelli che per fortuna stanno bene, e hanno la capacità di relazionarsi, non si lasciano sfuggire l'opportunità di nuove idee e proposte diverse per nuove attività.
    Finalmente l'anziano non si sente escluso, ma connesso con il mondo, anche se per il momento, a distanza. Senza mai dimenticare i quattro amici del bar, ovviamente!
    Ricordate anche che in RSA si vive meno quel senso di abbandono che colpisce chi vive solo a casa, forzatamente lontano dai suoi familiari, a causa delle restrizioni attuali…
    Ci teniamo impegnati, insomma, e resistiamo!!
    Da Enrico per ora è tutto…restate connessi…e alla prossima!!!

    Che dire: “Casa” sì… “di Riposo” decisamente no!
    Cari “nonni”, patrimonio dell’umanità, noi vi diciamo GRAZIE!
    Grazie ad una generazione contraddistinta da esperienza, comprensione, pazienza, resilienza, rispetto, in grado di conservare tutto questo fino a qui. Silenziosamente, umilmente, ma non per questo con meno forza.
    In questi tempi difficili, avete dato ancora una volta un insegnamento di vita a tutti noi, che non pensiamo a quanto siete stati limitati da questo nemico invisibile, che ci lamentiamo solo per la mancanza di un aperitivo, che abbiamo mille risorse per impiegare il nostro tempo libero, ma ci lamentiamo lo stesso, che non sopportiamo la benché minima limitazione a tutto ciò che in realtà è superfluo…a tutti noi, che, insomma, non abbiamo proprio niente da insegnarvi, ma solamente tutto da imparare!

    Enrico Secchi 
    ovvero
    "Lei non sa chi sono io!"

    Nella mia vita, tutto avrei immaginato, tranne che si volesse sapere qualcosa su di me.
    Enrico Secchi… un nome, una garanzia!
    Sono nato a Milano, addì 25 ottobre 1947, alle 5 del mattino. E pare fosse un sabato.
    Passati gli anni, un giorno, leggendo una copia del Corriere della Sera di quell'ormai lontano 25 ottobre, scoprii, per caso, che, proprio quel giorno, veniva firmata la Costituente! 
    Ne fui compiaciuto, e mi sentii come se una botta di energia positiva salisse in superficie da dentro.
    “Enrico”, dall'antico tedesco, significa “possente in Patria!” ed io mi sentii tale.
    Sfoglio spesso l'album dei ricordi di famiglia, e devo dire che, guardando le fotografie da bambino, ero veramente un bel pacioccone. Fronte alta, espressione imbronciata, sembrava che avessi già ben chiare tutte le caratteristiche tipiche dei nati sotto il segno dello scorpione: “Scrutare nel profondo, e scavare, scavare sino a trovare chissà quale tesoro! Ricordo che nell'ufficio dove lavoravo (un'importante azienda della Grande distribuzione), i miei colleghi avevano messo in bella mostra, una mia foto a otto mesi.
    Attratto irresistibilmente dalla musica, senza saper né leggere né scrivere, riconoscevo i dischi dal colore dell'etichetta, e il radiogrammofono era il mio compagno di giochi più fedele.
    La mia è stata una famiglia meravigliosa.
    Mia madre, una donna coraggiosa e fantastica, non si è mai arresa davanti a niente! Mi ha portato in braccio sino ai sette anni E anche quando i medici le dissero che a 13 anni sarei stato costretto su una sedia a rotelle, non si fece prendere dallo sconforto, ma mi portò da tutti i luminari della medicina dell'epoca. Quando i medici le dicevano di portarmi al mare, mi portava in montagna, e quando sarei dovuto andare in montagna, la mia mamma mi portava al mare!!! Ho avuto un'infanzia e una fanciullezza felici.
    EnricoCon un padre appassionato di musica lirica, ho avuto anche una discreta educazione musicale, e il mio strumento preferito in assoluto è il pianoforte. Ho potuto studiarlo non senza problemi e con diverse insegnanti che porto nel cuore. Ho un talento musicale innato che avrei potuto approfondire studiando un po' di più… purtroppo però, mi sono arenato.
    Dal marzo del 2002, vivo a Salice Terme e la mia nuova famiglia, è a Villa Serena, una casa di riposo per anziani, in cui ho fatto recapitare il mio pianoforte, al quale mi lega un rapporto affettivo, essendo stato un bel regalo di mia madre.
    Ogni mercoledì facciamo quattro passi tra le note, e con la mia musica, cerco di allietare gli ospiti che hanno voglia di cantare. La mia prima fan indiscussa, è Luciana. Ci siamo incontrati qui, e siamo diventati una coppia, come gli innamorati di Peinet!    
    Bello come il sole fino ai 25 anni, con un sorriso a trentadue denti, mi sono rovinato crescendo! Tanto che oggi, all'età di 73 anni compiuti, porto la dentiera e nelle foto sembro invecchiato anzitempo!
    Grazie alla collaborazione con le educatrici della struttura che mi ospita, Sabrina e Alida, ho dato vita al “Giornalino di Enrico” ed essendo un creativo, collaboro anche con le maestre di V elementare, della scuola antistante Villa Serena. Le maestre si ricordano di me anche a distanza di tempo, e i miei bambini, mi fanno sentire un giovane nonno.
    Mi tengo impegnato con mille piccoli grandi impegni e cerco di rendermi utile un po' dappertutto come posso…è questo il segreto per restare sempre giovani e per una vita “Serena”, proprio come la RSA in cui vivo!!!

    Ha collaborato alla stesura  Alida Nikaj, l'altra educatrice di "Villa Serena"

  • Racconti di vita

    rosanna vagge“Ti va di raccontarmi qualcosa della tua vita?” Chiedo a Pietro, seduto nel giardino della casa di riposo in un punto dove le correnti d’aria, incrociandosi, offrono un po’ di sollievo alla calura estiva.
    “Certamente, mi fa piacere” mi risponde sorridendo e così mi sistemo accanto a lui, con in mano la scheda narrativa ancora intonsa.
    Gli chiedo della sua famiglia di origine e Pietro, senza alcuna esitazione parla del padre Giacomo e della mamma Palmira, entrambi contadini, gran lavoratori, che , oltre l’orto e gli ulivi, accudivano anche tre vacche. Anche lui ha fatto il contadino e, nel poco tempo che gli rimaneva, persino lavorando di notte, ha aiutato amici e parenti a costruire case. Precisa che è un lavoro duro, soprattutto la raccolta delle olive e la produzione dell’olio, ma che la madre era sempre pronta a portare nei campi qualcosa da mangiare, come fagioli o zucchini bolliti, insieme ad un bel bicchiere di vino, e questo era davvero confortevole. Poi, puntando il dito indice verso di me e guardandomi fisso negli occhi, sentenzia con orgoglio: “Non si poteva dire: oggi non lavoro, altrimenti l’olio andava tutto in malora”.

  • Re Matteuccio I – Il Re Bambino (di Janusz Korczak)

    ida accorsiida accorsiDel suo autore (Janusz Korcak) ne avevo già parlato precedentemente, è senza dubbio una figura dalle mille sfaccettature. Medico, scrittore, militante sociale, intellettuale e soprattutto pedagogo, nato nel 1878 a Varsavia, suo nonno era medico, suo padre avvocato, lui scelse la strada del nonno e intraprese gli studi di medicina. Ben nota è la sua figura tra i pedagogisti grazie alla sua costante attenzione all’infanzia: dal 1912, assieme a Stefania Wilczyńska diresse la Casa degli Orfani, l’orfanotrofio ebraico di Varsavia; dal 1919 iniziò a collaborare con Maria Falska, con la quale organizzò l’orfanotrofio - La Nostra Casa - destinato all’accoglienza dei bambini polacchi. In entrambe le strutture i bambini erano attivamente coinvolti nell’organizzazione della loro vita (gestendo anche un giornale e un vero e proprio tribunale). La mattina del 5 agosto 1942 Korczak fu deportato nel campo di sterminio di Treblinka insieme a tutti gli ospiti della Casa degli Orfani; riconosciuto dagli ufficiali nemici venne trattenuto (era una personalità nota), ma si rifiutò di abbandonare i suoi bambini. 

  • Riflessioni autunnali

    diana catellaniÈ da poco finita una calda, lunga estate che ha visto il nostro paese impegnato a proseguire la lunga battaglia contro la pandemia intrapresa con l’arrivo dei vaccini.
    Ora pare che il senso di responsabilità della maggior parte della popolazione italiana sia valso ad arginare i contagi, anche se il COVID19 non è certo stato ancora debellato.
    Parrebbe logico pensare che, visti i risultati, fosse ormai universalmente accettata l’idea dell’efficacia dei vaccini che la scienza ci ha messo provvidenzialmente a disposizione, invece no…. Tanti continuano a rifiutarli e ritengono una violazione della loro libertà l’adozione del green-pass, così vediamo le piazze invase da gente che ipotizza chissà quali macchinazioni e quali oscuri complotti dietro la pandemia e dietro l’invito a vaccinarsi.
    Tra questi, ormai universalmente definiti NO-VAX e NO-PASS, si mescolano dei facinorosi che approfittano di questa difficile situazione per infiltrarsi tra i dissidenti, aizzare la folla e compiere vandalismi e azioni di squadrismo che ci riportano con angoscia a episodi ben noti accaduti giusti un secolo fa.

    Sapevamo tutti che l’autunno sarebbe stato un momento difficile: molte aziende non sono riuscite a sopravvivere al lockdown e molti posti di lavoro sono andati perduti e, anche se la ripresa pare più forte delle previsioni, certo non potranno subito essere riassorbiti tutti quelli che sono stati espulsi dal mondo del lavoro.
    Per quelli che resteranno ai margini sarà un ben duro inverno…. Aumenterà il prezzo del gas e dell’elettricità, aumenta già vertiginosamente il prezzo delle materie prime ed è perciò ragionevole aspettarsi un consistente e generalizzato aumento del costo della vita, cosa che complicherà molto la vita anche di chi vive di pensione.

    In questo quadro piuttosto inquietante c’è però uno spiraglio di luce: noi dell’UTE potremo riprendere tutte le nostre attività quasi normalmente, anche se dovremo portare le mascherine, esibire il green-pass, disinfettare le mani all’ingresso
    e sottoporci alla misurazione della febbre.
    È una gran gioia per tutti potersi ritrovare, scambiare un saluto e qualche parola gentile con vecchi amici e conoscenze recenti; ogni inizio d’anno è sempre stato una festa per noi, ma questa volta sarà ancora più bello: la lontananza forzata, il lungo isolamento ci hanno fatto apprezzare molto di più la possibilità e la bellezza di ritrovarsi: prima ci sembrava cosa normale, dovuta, ora ci appare come una preziosa opportunità per rendere più belli questi mesi bui e freddi che ci attendono.

     

  • Roald Dahl: Il maestro dei racconti dell'orrore allegro

    ida accorsiI libri di Roald Dahl continuano a conquistare grandi e piccini con le loro bellissime storie. Lui stesso diceva: “Non ho niente da insegnare. Voglio soltanto divertire. Ma divertendosi con le mie storie i bimbi imparano la cosa più importante: il gusto della lettura”. Eppure, anche se è passato tanto tempo dalla pubblicazione del suo primo romanzo, I Gremlins nel 1943, Roald Dahl continua a essere amato dai bambini e dagli adulti di tutto il mondo e i suoi lettori sanno che, oltre alle risate e al divertimento, i suoi libri ci regalano bellissimi messaggi legati all’amore, all’amicizia e all’importanza della famiglia.
    Questo mese ho deciso di proporvi due dei suoi scritti, più conosciuti.

    LA FABBRICA DI CIOCCOLATO
    La fabbrica di cioccolato è fra i più famosi libri per ragazzi scritti da Roald Dahl. Il racconto è ispirato alla giovinezza di Dahl: quando frequentava la Repton School. La famosa ditta produttrice di cioccolato Cadbury spediva ai collegiali delle scatole piene di nuovi tipi di dolci e un foglietto per votare. I dolci preferiti venivano quindi immessi nel mercato.

  • Rodari e La Torta in cielo: un messaggio di pace

    ida accorsiIn questo racconto la fantasia di Gianni Rodari fa deragliare una storia di ordinaria fantascienza in una sarabanda di gioiose invenzioni, in un mondo dove tutto è davvero possibile, persino. che le armi atomiche si trasformino in gustose torte al cioccolato.
    Questo è uno dei romanzi brevi di Gianni Rodari, nato nella scuola elementare Collodi della borgata del Trullo a Roma tra gli scolari della insegnante Maria Luisa Bigiaretti, un'opera meno conosciuta ma molto divertente e che, come in tutte le sue opere, non manca mai un significato importante per i bambini ma soprattutto per gli adulti.
    Qui Rodari con questa torta gigante ridicolizza tutti problemi derivanti dalla politica del terrore, e presenta questa torta come soluzione risolutiva per sistemare la fame nel mondo. Una delle tematiche più care a Rodari, insieme al tema dell’educazione e della libertà, è soprattutto quella della pace. Nelle sue opere il pacifismo incontra quello che è il punto di vista dei bambini che da sempre sono i pacifisti per eccellenza: un messaggio di pace lanciato attraverso i bambini che con la loro ingenuità e spensieratezza mostrano al mondo come sia possibile vivere senza guerra.
    Le torte al posto delle bombe! una critica ai grandi politici internazionali che non pensano ai problemi economici e sociali, ma al potere... un libro ancora oggi attualissimo.

  • Sant'Alberto (RA): uno storia di solidarietà, coraggio e volontà per i vecchi del paese

    rita rambelliLe informazioni su Sant’Alberto di Ravenna dicono: Sant’Alberto è un piccolo centro urbano ai margini delle Valli di Comacchio, che sorge a circa 14 km dalla città di Ravenna, circondato dalla natura incontaminata del Parco del Delta del Po.
    Al 31.12.2016 risultano residenti a Sant’alberto 3.860 cittadini. In questa piccola realtà fu inaugurata nel 1941 da Don Giovanni Zalambani, una Casa di riposo per i “suoi” anziani, perché potessero trovare una casa lì, nel luogo dove erano vissuti. In questi settanta anni la storia è cresciuta e si è sviluppata in una realtà importante la “Casa Residenza per Anziani di Sant’Alberto”. Un centro multiservizi accreditati presso la Regione Emilia-Romagna, con una Casa Residenza che ospita 57 anziani, un Centro Diurno che ne ospita 13, una Casa Famiglia che ne ospita 5 e 5 appartamenti tutelati dove risiedono 6 persone; per un totale di 81 persone che risponde ai bisogni di questa straordinaria comunità.

  • Santa Lucia e i doni

    diana catellaniNella zona in cui sono nata e cresciuta io, ci pensava Santa Lucia a portare i doni e questo pare sia dovuto a un’antichissima usanza antecedente l’adozione del calendario gregoriano. A quei tempi il solstizio d’inverno era anticipato al 13 dicembre (e da qui il detto non veritiero che dice che la notte di Santa Lucia è la notte più lunga che ci sia). Era l’inizio del periodo più freddo dell’anno e per i più poveri era anche l’inizio delle sofferenze più penose per scarsità di viveri e di possibilità di riscaldarsi. Allora molte delle famiglie più abbienti solevano distribuire cibo e generi di conforto ai meno fortunati e, nel tempo, è rimasta in alcune zone dell’Italia del nord la tradizione di portare doni ai più piccoli.
    Oggi si incoraggiano i bambini a scrivere la loro letterina a Babbo Natale e li si guida a chiedere quello che poi effettivamente potranno ricevere. Quando ero piccola io, nella mia famiglia non si usava scrivere nessuna letterina, forse perché era assodato che non è che ci si potesse “allargare” tanto: Santa Lucia era povera e doveva accontentare tanti bambini anche più poveri di me.
    Io ero la più piccola della famiglia e l’unica che ancora riceveva regali in quell’occasione.
    La sera prima mettevo un recipiente con acqua e un po’ di fieno sul davanzale della finestra per l’asinello che aiutava la Santa a portare i doni.
    La raccomandazione dei grandi era quella di dormire presto e di non cercare di vedere cosa sarebbe accaduto quella notte o niente doni.
    Ricordo che tutto quel mistero mi metteva ansia e andavo a letto piuttosto agitata: - Chissà cosa avrei trovato svegliandomi? E se mi fossi svegliata mentre la Santa lasciava i suoi doni, cosa sarebbe successo?-
    Un po’ per l’agitazione e un po’ perché si andava a letto prestissimo, mi svegliavo anche prestissimo mentre fuori nevicava abbondantemente e i vetri alle finestre erano abbelliti dai ricami del gelo.
    Dormivo nella stessa grande stanza dove dormivano anche i miei genitori, che appena percepivano che mi ero svegliata, accendevano la luce e il mio sguardo correva subito ai piedi del letto.
    C’erano di solito poche semplici cose: un libricino o una bambolina, un paio di mandarini (che allora erano piuttosto rari sulla nostra tavola), qualche caramella, qualche cioccolatino, un pupazzetto di zucchero, un croccante.
    In particolare ricordo un libro di poche pagine, con la copertina lucida dove predominava l’azzurro; si intitolava “La storia più bella” e raccontava in poche frasi a piè di pagina la storia della nascita di Gesù. Io stavo imparando a leggere e l’ho sfogliato tantissime volte, gustando il piacere di poter decifrare da sola quelle scritte.
    Era tutto così magico! Era l’unica occasione in cui si ricevevano regali e questo faceva sì che quelle semplici cose assumessero un valore straordinario: pensavo veramente che venissero da molto lontano e che si fossero materializzate lì sulle mie coperte per chissà quale magia. Erano il mio piccolo tesoro, che cercavo di far durare il più a lungo possibile.
    Nella stanza faceva molto freddo e mia madre mi copriva le spalle con una mantellina di lana, mentre mi godevo quei momenti stando seduta sul letto.
    Poi bisognava comunque andare a scuola e allora portavo con me qualche caramella da mangiare durante la ricreazione e il libro da mostrare alla maestra.
    Infatti quella mattina in classe, l’insegnante non cominciava subito la lezione, ma passava tra i banchi chiedendo a ognuno cosa avessimo ricevuto in dono e io allora estraevo dalla cartella quel libro e ne ero molto orgogliosa.
    Oggi i miei nipotini ricevono regali ad ogni piè sospinto da nonni e zii e, pur aspettando con ansia i doni di Babbo Natale, non potranno mai provare con tanta intensità lo stupore e la gioia che provavo io.
    Noi bambini di allora avevamo molto poco, ma quel poco, atteso a lungo e a lungo desiderato, ci faceva sentire ricchi e appagati.

  • Sara Nardini: la terapia forestale aiuta sistema immunitario e prestazioni cognitive, abbassa ansia e depressione

     Sara NardiniSara Nardini-Psicologa clinica e di comunità, specializzata in Psicoterapia Ipnotica presso A.M.I.S.I. (Associazione Medica Italiana per lo Studio dell'Ipnosi), svolge attività libero professionale.
    È esperta di Aromaterapia ed oli essenziali, Terapie Egizio-Essene e Terapie Energetiche, Reiki, insegna Raja Yoga e Meditazione Trascendentale da oltre dieci anni. Ha coordinato il team vincitore del Premio Innovazione 2018 indetto dall'Ordine degli Psicologi del Veneto con il progetto "Breathe the Forest! Mindfulness in Forestoterapia con soggetti asmatici". Collabora con la Stazione di Terapia Forestale delle Valli del Natisone (Friuli).

    Dalla psicologia dell’anima alla terapia forestale, dalla pratica quotidiana per dare gioia ai suoi pazienti alla costruzione di percorsi “certificati” nelle foreste e nei boschi italiani. Ci può presentare questo suo universo e il filo conduttore, se c’è, tra anima – una struttura di coscienza come lei la chiama- e spiritualità, tra gli esercizi energetici della sua pratica professionale e le passeggiate nei boschi richiamando alcune azioni vitali della nostra esistenza: il respiro, il radicamento, la consapevolezza, l’ascolto?
    Parlando di spiritualità si dà spesso una connotazione prettamente religiosa a questo termine che, oltre ad essere trasversale a tutte le tradizioni, non può essere costretto all'interno di un sistema di dogmi, qualsiasi essi siano, bensì può e deve, a mio avviso, essere considerato in un'accezione più ampia: è spirituale tutto ciò che risuona in noi, nella parte più autentica e profonda della nostra coscienza e, in virtù di questo, ne promuove processi di crescita, trasformazione ed evoluzione.
    In molte tradizioni l'Anima è considerata come “soffio vitale”, principio divino e impulso di creazione e unione. È certamente la parte più armonica, luminosa e coerente della nostra coscienza, quella parte in cui risuona ciò che si “accorda” con il nostro “progetto di vita”, ciò che in qualche modo, anche soggettivamente, percepiamo e sperimentiamo come spirituale. Può quindi essere anche una guida, un Maestro, dal momento in cui ne prendiamo contatto, fino al momento in cui riusciremo a far sì che si manifesti liberamente, svelando, prima di tutto a noi stessi, chi noi siamo veramente. L'Anima è la nostra vera identità, è ciò che noi siamo in essenza, che per manifestarsi necessita di un enorme lavoro di pulizia, di ascolto e di riconoscimento, direi di “discriminazione”: come i cercatori d'oro possiamo imparare a setacciare la sabbia (disarmonia della Personalità -insieme di corpo fisico, emozioni e mente-) per conservare e valorizzare le pepite che brillano davvero, quelle qualità che ci contraddistinguono profondamente e che possiamo imparare a fare emergere. Saranno queste pepite a illuminare il nostro percorso di realizzazione e di gioia.
    Tutto questo è molto concreto: perché l'Anima si manifesti è necessario che si “incarni” e questo avviene quando siamo veramente presenti e consapevoli, in ogni momento della nostra vita. Per tale motivo l'ascolto del respiro e la ri-costituzione delle radici, che insieme rappresentano il nostro “essere nel mondo” sono il nostro punto di partenza, perché solo ponendo saldamente i nostri piedi a terra, autorizzandoci ad esistere, potremo alzare lo sguardo verso la gioia dei sensi, il piacere, che alimentano la volontà autentica (non del “dovere”, ma dell'essere) e poi l'Amore, vero ed unico obiettivo dell'esistenza.
    Il protocollo che propongo insieme alla collega, dott.ssa Marta Regina, per la Terapia Forestale tiene conto di questi capisaldi della Psicologia dell'Anima e offre loro una forma anche nella dimensione scientifica.

    In questo spazio parliamo di anziani, persone che giunte ad un certo periodo della loro vita, anche se in buone condizioni fisiche e cognitive si ritrovano in una società che troppo spesso li guarda con un occhio distratto: sono fantasmi, figure evanescenti con cui ci si rapporta poco, senza un’identità, che sembra svanire con il pensionamento.
    La loro solitudine non è solo fisica, ma è sociale, relazionale, da esclusione alla vita attiva del paese. Può trovare sbocchi diversi: un progressivo ripiegamento su stessi, con una decadenza psico-fisica accelerata ma altre volte innesta una riflessione più intima in cerca di valori e sensazioni più recondite.
    Quanto il suo percorso “verso l’anima” (1) con -come lei sottolinea- esercizi pratici, concreti, può essere un aiuto a vivere la vecchiaia con serenità, sicuramente la miglior medicina?
    Se la vecchiaia è anche un tempo di resoconti, in cui siamo costretti ad abbandonare certi ruoli, che spesso gravitavano intorno all'attività lavorativa, “Verso l'Anima” è un percorso che ci conduce a svelare l'illusione di quel senso di vuoto che a volte il cambiamento crea. Smantellare le sovrastrutture che ci hanno accompagnato per anni può essere spaventoso e disorientante, oppure una splendida e inattesa avventura, in cui il “vuoto” diventa “spazio” da esplorare in modo nuovo, allenando una diversa percezione di sé e del mondo, da riempire con straordinarie, nutrienti esperienze. Gli esercizi pratici hanno lo scopo di assaporare ciò che è presente, in modo semplice e concreto, perché la concretezza delle nostre percezioni e, di conseguenza delle nostre azioni è ciò che realmente cambia la qualità della nostra vita. La nostra realtà è condizionata dal modo in cui la percepiamo, ecco perché il lavoro sui sensi, sul riconoscimento di ciò che sperimentiamo e sulla trasformazione di ciò che riteniamo non essere buono per noi è così importante. Abbiamo sempre la possibilità di creare nuovi scenari, a volte anche solo spostando un pochino la nostra visuale: sarà sempre un'esperienza e ciò che è concreto è incontrovertibile, perfino per la mente più scettica. Assaporare, anche ciò che non ci piace, ci consente di muoverci verso il cambiamento e renderci conto che questo è possibile, pur nel piccolo della nostra quotidianità, è sempre fonte di gioia.

    Tra questi “esercizi” è entrata, solo in questi ultimi tempi, la “Terapia forestale”. Non è una nuova moda green, ma una pratica nata in Giappone con il nome “Shinrin-yoku – Immergersi nei boschi” letteralmente “bagno nel bosco” riconosciuta da quello Stato come “Terapia”. (2) “Lo Shinrin-yoku- dice Qing Li l’immunologo che ha scritto il manuale- è l’arte di comunicare con la natura attraverso i cinque sensi”. La “terapia forestale” ha avuto un riconoscimento scientifico anche in Italia dai risultati di una ricercacondotta da un gruppo di scienziati, ricercatori, professionisti sanitari che ha rilevato i dati dei “Composti organici volatili forestali e loro effetti sulla salute umana…” (3) Lei parla nel suo libro dello scarso utilizzo dei cinque sensi da parte delle persone, che procedono per automatismi. Questa esperienza di contatto con la natura con i cinque sensi quale benessere può offrirci sia sul piano fisico che psicologico?
    Gli studi da lei citati dimostrano come il bosco sia già di per sé terapeutico, abbassando in generale i livelli di stress e promuovendo, proprio grazie a composti volatili emessi dagli alberi e dal suolo, una maggiore attivazione del sistema immunitario (grazie all'azione delle cellule Natural Killer) e la salute di sistemi e apparati, come per esempio il sistema cardio-circolatorio. Dal punto di vista psicologico si sono osservati risultati importanti sull'abbassamento dei livelli di ansia e depressione, per esempio, oltre che sul miglioramento delle prestazioni cognitive (attenzione e concentrazione). È stato inoltre dimostrato che l'uso dei sensi nell'esperienza del bagno di foresta amplifica questi effetti.
    In un documento di prossima pubblicazione, frutto delle ricerche che fino ad ora abbiamo condotto, dimostreremo come, applicando il nostro protocollo e misurandone gli effetti attraverso la somministrazione del questionario POMS (Profile of Mood States, o “Profilo dell'Umore”) già adottato dal dott. Qing Li in Giappone, i livelli di ansia, depressione, rabbia, vigore, stanchezza e confusione migliorino come mai prima d'ora attestato in letteratura. Questo documento mette in rilievo l'importanza dell'accompagnamento, ossia del modo in cui le persone sono invitate alla consapevolezza di sé, dell'ambiente boschivo circostante, così ricco di stimoli e suggestioni. Le strategie che proponiamo, attraverso esercizi di esplorazione mediante i sensi e di meditazione, alternati a brevi interventi di profilo scientifico, guidano le persone in un sentiero fisico e metaforico insieme, in cui la relazione con l'ambiente e con gli elementi che lo costituiscono (acqua, pietra, albero, animale, ecc.) rappresenta un'occasione di incontro, principalmente con se stessi e di equilibrio tra le proprie componenti creativa e razionale. L'identificazione con la natura favorisce un riconoscimento della propria natura essenziale, l'Anima, che nel silenzio e nell'ascolto profondo di sé si accorda e risuona, in modo armonico, con tutto ciò che nel bosco ci circonda.

    Lei ha sperimentato e “certificato” con i suoi codici di lettura professionale unitamente a un ricercatore del CNR Francesco Meneguzzo, attivo nel CAI (Club Alpino italiano) percorsi di “terapia forestale” producendo anche materiale audiovisivo che è stato ripreso dalla trasmissione RAI "Buongiorno benessere", dalla rivista dei Medici di medicina generale (5) e da altre pubblicazioni. Il primo certificato è il “Parco del Respiro Fai della Paganella” in Trentino, ma altri sono ora sotto esame. Questa pratica itinerante, da psicologa dell’anima, con quali parole la consiglierebbe alle persone anziane?
    Quando ero bambina mia madre amava filosofare con me di spiritualità: mi raccontava le sue letture e condivideva con me il suo entusiasmo per ogni nuova scoperta che mi diceva in realtà non essere mai veramente “nuova”, poiché era piuttosto un “dare forma” a ciò che aveva sempre, in qualche modo, sentito.
    Con mio padre condividevo invece, già in tenera età, l'amore per il bosco, scoperto per la prima volta nelle Valli del Natisone, in provincia di Udine in cui ,fatalità, molti anni dopo ho iniziato a praticare la Terapia Forestale, in modo “serio”. Mio padre ha vissuto nel periodo della guerra, oggi ha 81 anni, e mi racconta sempre di quanto la terra a quell'epoca sia stata risorsa fondamentale per la sopravvivenza della sua famiglia. Attraverso le sue narrazioni credo di aver individuato e forse a mio modo stimolato in lui la consapevolezza dell'evoluzione del suo rapporto con la natura: da fonte di sostentamento a fonte di apprendimento, ispirazione e meraviglia. Ho vissuto con lui scoperte grandiose, ricavate da minuziose osservazioni del microcosmo del suo bosco/giardino/orto, attraverso le stagioni, i cicli, le condizioni avverse e le giornate soleggiate. Un microcosmo ricco di così tante varietà vegetali ed animali che non saprei elencarle, ma che lui conosce in modo così approfondito che, descrivendolo scherzosamente, lo definisco “l'uomo che chiama ogni filo d'erba per nome”.
    Condividiamo da tanti anni il suo magnifico microcosmo: lui per i suoi esperimenti ed io per innumerevoli terapie accolte con gioia dai miei pazienti, il cui setting si è agghindato di colori e profumi, a contatto con la terra, i fiori, gli alberi ed i loro abitanti. Solo ultimamente però mio padre mi ha “confessato”, quasi con stupore, che il suo amore e l'enorme rispetto per la natura hanno assunto un ruolo così rilevante nella sua vita, da essere “quasi religione”. Un giorno gli ho chiesto quale fosse il suo albero preferito: mi ha risposto “il ciliegio, perché è un albero allegro, curioso e soddisfa i desideri!”. Nessuna esitazione in questa risposta, offerta con l'immediatezza e la semplicità dei bambini che giocano. Ho trovato tanto di mio padre in quel ciliegio!
    Ho imparato che la spiritualità raccontata nei libri o per sentito dire non mi sarebbe mai bastata. Ho avuto bisogno di dare forma a mio modo, come prima di me hanno fatto i miei genitori a questo aspetto della vita che ne profuma ogni istante ed è forse grazie al loro esempio che ho scelto di approfondire l'arte dei discorsi metaforici, simbolici, all'interno del bosco, di per sé tanto suggestivo, sintetizzandoli in un percorso terapeutico.
    Il bosco è un'entità vivente estremamente complessa, i cui elementi sono in equilibrio dinamico fra loro. Ciascuno di questi elementi può risuonare in noi, in un processo di identificazione, apprendimento e trasformazione che non hanno mai fine, perché anche il nostro equilibrio è dinamico, in costante evoluzione. Riconoscersi in un albero che è sopravvissuto alle intemperie della vita, o in una cascata, che sceglie di far fluire tutto ciò che non serve con vivacità e allegria, o in una pietra, stabile e solenne, ci aiuta a raccontare a noi e agli altri la nostra storia. Le persone anziane hanno tante storie da raccontare a se stesse e agli altri: a se stesse, perché spesso i sacrifici, il dolore e la fatica, così come lo sguardo fanciullesco e meravigliato che si posa sulla vita sono dati per scontati e non valorizzati come strumenti di realizzazione personale e di crescita; agli altri perché in loro ci rispecchiamo, nel racconto ci sentiamo coinvolti e la condivisione unisce. Nel bosco è facile, perché ricco di immagini archetipiche che, in modo più o meno inconscio, ci richiama all'introspezione e al riconoscimento di noi stessi. E se questo ci portasse, piano piano, a cogliere aspetti diversi, oppure ad avere una considerazione più complessa, colorata e profumata della vita che abbiamo vissuto?

    Nel format di PLV l’ultima è sempre una domanda personale. Il suo percorso verso l’anima s’inoltra nella foresta.
    I benefici di salute che i dati scientifici della ricerca sopramenzionata hanno confermato sono arricchiti dai giovamenti psicologici e di salute mentale rilevati dalle vostre escursioni per selezionare le Stazioni di terapia forestale per il CAI. Su quali tracce intende muoversi nei prossimi mesi (COVID 19 permettendo) e ci saranno nuove ricerche e nuovi traguardi ?
    Certamente gli approfondimenti e le ricerche non mancheranno. Siamo in costante riflessione per migliorare ciò che proponiamo e cercheremo di procedere con questo atteggiamento.
    Cercheremo nuovi boschi e in ciascuno di essi, come sempre, il nostro protocollo si adatterà, per valorizzare sia ciò che incontreremo che la sensibilità di chi con noi parteciperà a questo incontro. Tuttavia, in modo coerente con quanto detto fino ad ora, il nostro primo obiettivo è la condivisione: desideriamo divulgare gli esiti delle nostre ricerche ed esperienze, sostenere la formazione dei professionisti che vogliono addentrarsi in questo nostro sentiero, al punto da perdersi, rispetto ai “soliti” riferimenti, per accompagnare con sicurezza altri viaggiatori in questa avventura. Ho sempre sostenuto che il miglior modo per ritrovare se stessi è perdersi nel bosco.
    L'aspetto della formazione è davvero molto importante se si decide di praticare la Terapia Forestale, che è una terapia a tutti gli effetti e che non ha nulla a che fare con una semplice passeggiata tra gli alberi. Credo sia molto importante, richiamare le persone ad un senso di responsabilità nei confronti di chi si affida alla nostra guida e anche nei confronti del bosco, che non è un business, ma un luogo sacro.
    Riteniamo sia giunto il tempo, come già avviene in Giappone, di considerare la Terapia Forestale, una pratica sanitaria, che possa essere riconosciuta dal Sistema Sanitario Nazionale e prescritta dai medici di base e dagli psicoterapeuti.
    Mi consenta una provocazione sul COVID 19, che lei ha citato, che sta conducendo molti di noi all'isolamento, in preda all'ansia e alla disperazione. Queste emozioni riducono l'attività del nostro sistema immunitario. La Terapia Forestale ha l'effetto opposto, consente il distanziamento di sicurezza ed è a disposizione di tutti.

    Bibliografia
    1. C. G. Jung. La realtà dell'anima. Bollati Boringhieri 1963
    2. Kabat-Zinn. Vivere momento per momento. Corbaccio 1990
    3. M. H. Erickson. La mia voce ti accompagnerà. Astrolabio Ubaldini 1983C. G. Jung. Psicologia e alchimia. Bollati Boringhieri 2006
    4. A. Bandura, A.C. Huston. Identification as a process of incidental learning. Journal of Abnormal and Social Psychology. 1961N
    5. isbet, E.K.; Zelenski, J.M.; Murphy, S.A. Happiness is in our nature: Exploring nature relatedness as a contributor to subjective well-being. J. Happiness Stud. 2011, 12, 303–322.
    6. Lara S. Franco et Al. 2017. A Review of the Benefits of Nature Experiences: More Than Meets the Eye. International Journal of Environmental Research and Public Health.
    7. T. Firrone. Dall'albero cosmico all'albero casa. Viaggio nel mondo di una straordinaria creatura. Aracne Editrice 2011.
    8. M. A. Gorzelak, A. K. Asay, B. J. Pickles, S. W. Simard. Inter-plant communication through mycorrhizal networks mediates complex adaptive behaviour in plant communities. 2015.

    ++++++++++

    Note 

    1)Sara Nardini
       VERSO L'ANIMA
       MANUALE DI EQUIPAGGIAMENTO PER VIAGGIATORI SPIRITUALI
       Anima Edizioni

    Verso lanima

     

     

     

     

     

     

     

    (2)Qing Li
    SHINRIN -YOKU
    IMMERGERSI NEI BOSCHI

    Il metodo giapponese per coltivare
    la felicità e vivere più a lungo
    Editore Rizzoli

    SHINRIN YOKU

  • Senza destino


    diana catellaniNell’avvicinarsi della “Giornata della Memoria” molte sono le occasioni che ci vengono offerte per riflettere su quanto è accaduto nel cuore dell’Europa nel corso del XX secolo appena trascorso.
    È nell’ambito di queste proposte che qualche giorno fa ho rivisto un film ungherese del 2005 che racconta le vicende di un ragazzo di Budapest durante la Seconda Guerra Mondiale.
    Gyuri è un ragazzino ebreo, che vive serenamente con la sua famiglia fino al giorno in cui suo padre riceve l’ordine di presentarsi per essere trasferito in un campo di lavoro. In quel momento di sconcerto e di smarrimento nessuno pare comprendere bene il significato di questa “chiamata”: accanto a chi pronostica, giustamente, le cose peggiori ricordando quanto era avvenuto in Polonia, c’è anche chi ironizza su questi timori dicendo che è assurdo ipotizzare sviluppi funesti.
    È così che Gyuri darà l’ultimo abbraccio a suo padre che non tornerà mai più dalla sua famiglia.
    Qualche tempo dopo, mentre Gyuri si reca al lavoro a bordo di un autobus, viene fatto scendere forzatamente in piena campagna perché porta la stella gialla sul petto. Insieme a lui molti altri ragazzi subiscono la stessa sorte. Nessuno sa il perché di questo fermo di polizia e tutti restano in angosciosa attesa di ordini: verranno inviati nei campi di lavoro.
    Contrariamente a quanto accade ai suoi giovani compagni di sventura, Gyuri riesce a superare la selezione che avviene all’arrivo ad Auschwitz, dove un terribile miasma dolciastro ammorba l’aria, poi da lì viene portato in altri campi dove conosce tutto l’orrore della schiavitù e della barbarie: i prigionieri vengono sottoposti a lavori estenuanti, scarsa nutrizione, mancanza di igiene, lunghe soste sotto la pioggia e al gelo. Gyuri, con l’aiuto di un adulto suo concittadino, detenuto da tempo, impara presto alcune strategie per sopravvivere, ma poi un’infezione a un ginocchio e la vita di stenti lo portano sull’orlo di una fossa comune, da cui verrà salvato all’ultimo momento dall’arrivo degli americani.
    Gyuri viene rifocillato e può intraprendere il cammino per tornare a casa, ma non trova più la sua famiglia; i vicini lo accolgono, ma restano molto infastiditi dalle sue domande su quanto è successo e presto lo invitano ad andarsene dalla madre, unica superstite.
    Sono le sequenze finali del film quelle che più invitano a riflettere: Gyuri pare dire che non è da attribuire al destino quanto è accaduto in quegli anni, ma alla sottovalutazione di segnali inequivocabili anche da parte degli stessi ebrei e all’inerzia e all’indifferenza di chi voltava la faccia per non vedere e non sentire.
    Anche nel “DIARIO” di Etty Hillesum, leggevo con incredulità come le chiamate ai campi di lavoro fossero accettate senza troppe ribellioni. Si può arrivare, in un mondo dai valori stravolti, a far sembrare “normale” ciò che è aberrante? Come si poteva accettare di vedere dei concittadini costretti a identificarsi come minoranza sgradita per mezzo di una stella sui vestiti? Come si poteva accettare che dei bambini venissero allontanati dalla scuola o che persone adulte perdessero il lavoro in base alla loro etnia? Come si poteva accettare di veder scomparire tante persone e non chiedersi cosa fosse accaduto?
    A prima vista sembra inspiegabile, ma poi sappiamo benissimo che anche oggi il mondo assiste indifferente a tanti orrori: la guerra in Yemen, in Siria, in Afghanistan, in Cecenia, le stragi ricorrenti in certi paesi africani, lo sfruttamento dei lavoratori stranieri (anche qui da noi), migranti inghiottiti dal mare o costretti a vivere all’addiaccio in pieno inverno ai confini dell’Europa, i bambini soldato, i bambini “di strada”, la morte per fame e per malattie banali di tanta gente nei paesi più poveri …. e noi cosa facciamo?
    Nel migliore dei casi, cerchiamo di far tacere la nostra coscienza sostenendo questa o quella organizzazione umanitaria, ma più spesso continuiamo a fingere di non sapere accontentandoci del nostro quieto vivere.
    Concludo queste righe, ricordando che anche a Fossoli, vicino al mio paese natale ci sono ancora le baracche del campo di concentramento in cui venivano rinchiusi gli ebrei, in attesa del trasferimento in Germania o altrove. Cinquemila persone transitarono dal campo di Fossoli e la gente assisteva indifferente...
    Da lì partì anche Primo Levi, che ricordando quei giorni scrisse questa poesia:

    Il tramonto di Fossoli  
     
    Io so cosa vuol dire non tornare
    A traverso il filo spinato
    ho visto il sole scendere e morire;
    ho sentito lacerarmi la carne
    le parole del vecchio poeta:
    "Possono i soli cadere e tornare:
    a noi, quando la breve luce è spenta,
    una notte infinita è da dormire"
    P. Levi

     

     

     

  • Sopravvivere al COVID

    diana catellaniDiana UTEL’Università della Terza Età di Erba A.P.S. è una ricchezza per la città di Erba: da 27 anni ormai offre alla popolaziome adulta occasioni di incontro, di socialità, di aggiornamento culturale.
    Riesce a coinvolgere decine di docenti preparatissimi nelle discipline più varie: dalla storia alla letteratura, dalla fisica all’economia, dal diritto alla psicologia, dalla filosofia alla medicina.
    Il prestigio che la nostra UTE si è conquistata fa sì che sia frequentata anche da persone che provengono dai paesi circostanti.
    Tutto andava per il meglio e la nostra associazione aveva ottenuto anche un meritatissimo riconoscimento da parte delle autorità cittadine, che le hanno conferito l’Eufemino d’oro, onorificenza riservata a coloro che hanno contribuito a dare lustro alla città.
    Tutto andava per il meglio, dicevo, anche se la crisi economica aveva sensibilmente ridotto gli iscritti, perché molti anziani erano impegnati a dare una mano alle famiglie giovani nella cura dei più piccoli, ma poi è arrivato il COVID19….
    Anche per l’UTE, come per tante altre associazioni, è stato come essere travolti da un uragano: l’impossibilità di ritrovarsi nella nostra sede abituale ha imposto da subito l’interruzione delle lezioni e di ogni altra attività (le prove del coro e della compagnia teatrale, i corsi di inglese e di pittura, le gite e le visite a mostre e musei). Per mesi abbiamo solo potuto tenere contatti telefonici coi nostri soci che, chiusi in casa, soffrivano la solitudine e rimpiangevano i momenti di serenità passati insieme.
    Poi, ci siamo fatti coraggio e i volontari del Consiglio Direttivo si sono attivati per fare lezioni on line. Non è stato facile adeguarsi all’utilizzo delle tecnologie, ma con l’impegno di tanti si è riusciti a recuperare la maggior parte delle lezioni perdute. Purtroppo per molti anziani l’uso del computer o dello smartphone è ancora un tabù, non tanto perché non abbiano le capacità per servirsene, quanto per una immotivata paura di far brutte figure, di comnbinare guai, per una invincibile diffidenza per queste “diavolerie” moderne.
    Contrariamente a quanto è accaduto alla maggior parte delle Associazioni analoghe, siamo riusciti a mantenere viva la nostra UTE e, grazie anche ai social, a farla conoscere anche a persone più giovani, che attraverso i collegamenti on line hanno imparato ad apprezzare la nostra offerta culturale.
    Durante tutta l’estate, ci siamo lambiccati il cervello per trovare nuove sedi che consentissero la ripresa delle attività in presenza nel rispetto delle disposizioni anticovid (disponibilità dei posti al 50%), ma non si è potuto trovare niente di meglio che ipotizzare la divisioni in due gruppi degli associati, permettendo loro l’accesso in sede a turni alterni: il primo gruppo al martedì e la ripetizione della stessa lezione al venerdì per il secondo gruppo. Sarebbe stato difficilissimo gestire quella situazione: sarebbe stato possibile avere la disponibilità dei docenti, ancora impegnati nelle scuole, per due giorni a settimana?
    Ci stavamo impegnando a esplorare questa possibilità quando ci è venuto incontro il governo, con la modifica delle disposizioni riguardo alla capienza delle sale per attività culturali: finalmente si sarebbe potuto ricominciare con una programmazione normale.
    Ora l’UTE ha ripreso le sue attività. Per le disposizioni di legge, l’accesso è riservato ai possessori di green pass e dobbiamo registrare ogni volta le presenze; ciò comporta un notevole impegno, ma tutti sono contenti di poter ritrovare vecchi e nuovi amici.
    Gli iscritti sono diminuiti molto perché purtroppo il COVID ha colpito molto duramente la popolazione anziana qui da noi, come ovunque, inoltre non potendo più assicurare locali idonei ai gruppi delle attività complementari (coro, teatro, inglese, pittura), molti dei partecipanti ad esse non si sono più iscritti all’Associazione. Tuttavia ci sono molti nuovi soci, si può dire che ci sia quasi un ricambio generazionale: ci sono più uomini di prima e più donne appena entrate in età pensionabile.
    L’UTE di Erba ha avuto molti elogi da parte di docenti e autorità per essere riuscita a sopravvivere al COVID e a continuare con coraggio a offrire un punto di riferimento alla popolazione anziana del territorio.

  • Sulle ali della fantasia alla ricerca dell'isola che non c'è

    ida accorsiTerminato il ciclo delle scuole elementari mia nipote Ilaria, con i compagni della fantastica 5B come saggio conclusivo hanno presentato nel teatro locale il Musical " Peter Pan e l'isola che non c è “.
    Ammirevole è stato l’impegno, i ragazzi ce l'hanno messa tutta! Hanno provato e riprovato le parti, e così, alla soglia della scuola media, tra sogno e realtà, tra la spinta all'andare e la nostalgia del restare, cominceranno un nuovo cammino.

    Proprio pensando a questa loro ed esaltante esperienza, questa volta, vi racconto la storia di come è nata la favola di Peter Pan, l’affascinante ed eterno bambino e il sogno dell’infanzia che non vuole finire!
    “Seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino”, rispose Peter. “Che indirizzo bizzarro!”. Peter era mortificato. Per la prima volta si rese conto che, forse, il suo era proprio un indirizzo bizzarro". (1)

  • TIEDOLI DAY, per fare il punto sul progetto delle Case di Tiedoli

    rita rambelliIl Tiedoli Day, si è svolto sabato 7 luglio, grazie ad una iniziativa della Fondazione Tommasini e del Comune di Borgo Val di Taro, per fare il punto su un progetto nato 15 anni fa dalla volontà di Mario Tommasini, con l’obiettivo di ridare dignità alla vecchiaia, che deve essere riconsiderata come una fase importante della nostra vita. Tiedoli, una delle tredici frazioni del Comune di Borgotaro, nel 1938 aveva 900 abitanti, nel 1948 ne aveva 680, oltre a due scuole elementari, una bottega alimentare con un'osteria, un monopolio di stato e l’ufficio postale. Fino agli anni 30 del secolo scorso, c’era anche un caseificio sociale, uno dei primi in tutta la regione a produrre il Parmigiano Reggiano di montagna. Nel 2000, quando si iniziò a lavorare sul progetto delle Case, a Tiedoli erano rimasti ufficialmente 75 residenti, dei quali 46 di età superiore ai 65 anni, 9 oltre i 90. In realtà, stabilmente, non vi erano più di 35 abitanti. Questa era la situazione che trovò Mario Tommasini quando arrivò a Tiedoli nel 2000, già reduce da tante battaglie vinte in favore dei cosiddetti emarginati, per i quali operò tutta la vita: i malati di mente, gli orfani, i disabili, i carcerati, donando la speranza a tanti esclusi e dimenticati.

  • Tinetta e i suoi cinque figli

    rosanna vaggeIn un pomeriggio di una giornata di fine primavera, esattamente il 28 maggio dello scorso anno, giunse nel giardino di casa Morando un gattino, apparentemente giovane, ma piuttosto mal ridotto, magrissimo e molto spaventato. Dopo aver girovagato per qualche minuto nel cortile antistante, entrò all’interno della residenza e si rannicchiò in un angolo della sala da pranzo, seminascosto dalla carrozzina dove era seduta la centenaria Silvia e rimase a lungo in quella posizione, come fosse stremato da chissà quale viaggio.
    Non si lasciava avvicinare, ma, osservandolo meglio insieme alla direttrice Maria Grazia, decidemmo che molto probabilmente si trattava di una femmina che si era persa o forse era stata abbandonata e per questo appariva stanca e affamata. Dovevamo darle un nome e scegliemmo Tinetta, dal momento che ci sembrava zoppicasse e che meritasse che il fisioterapista la sottoponesse al test di Tinetti per valutare equilibrio e andatura. Forse non a caso era approdata in una casa di riposo.

  • Tornando in Villabianca.

    diana catellaniTempo fa, trovandomi nel mio paese natale, ho voluto passare per la via Villabianca, a Rolo, nel reggiano (La Piazza nella foto dove ho passato i primi anni della mia vita. Ho così ritrovato la vecchia casa in cui sono nata. Appariva restaurata di recente e all’ingresso del cortile c’era un cancello, che prima non esisteva, ma c’era ancora il rustico che tanto tempo fa ospitava il porcile, il pollaio e le gabbie dei conigli.
    Mi sono soffermata solo qualche minuto e mi si sono riaffacciati alla mente tanti ricordi.
    In quel cortile, mia madre attingeva l’acqua dal pozzo artesiano (non c’era acqua corrente in casa) e riempiva il mastello più grande per fare il bucato grosso. Lì, io passavo molte ore a giocare a palla contro il muro o a saltare la corda sotto lo sguardo indifferente delle galline.

  • Un anno di COVID. Vivere in solitudine con la mente e il cuore pieni di pensieri dolorosi

    diana catellaniE’ passato più di un anno da quando è cominciata la pandemia, che ha travolto e sconvolto la vita del mondo.
    In questo tempo, quante persone sono morte! Fortunatamente moltissime sono anche guarite e parlano del periodo in cui combattevano contro la malattia come del più terribile della loro vita.
    Durante la prima “ondata”, sentivo sì l’urlo straziante delle autoambulanze che lacerava il silenzio dei miei giorni e delle mie notti, ma nessuno dei miei conoscenti o dei miei familiari era stato colpito dal virus, quindi vivevo l’incubo della pandemia come un pericolo lontano, di cui mi arrivavano solo le notizie dei media. Avevamo inoltre un po’ tutti la speranza che i sacrifici imposti dal lockdown sarebbero serviti a sconfiggere la malattia e che presto tutto sarebbe stato solo un brutto ricordo.
    Poi è arrivata una seconda ondata … e un’altra ancora… e ho visto ammalarsi e anche morire persone a me vicine, alcune anche non anziane ,mentre notizie dolorose mi giungevano da parenti e familiari per vicissitudini varie e ho vissuto un autunno molto triste: a ogni squillo di telefono sentivo un tuffo al cuore e il primo pensiero era:- Cosa starà succedendo? Chi altro sta soffrendo?-
    Vivere in solitudine con la mente e il cuore pieni di pensieri dolorosi è stato veramente duro: non riuscivo più a sorridere… avevo dentro di me tante lacrime che non riuscivano a trovare una via di sfogo e mi appesantivano l’anima. Non potevo fare altro che pregare e sperare che tutti quelli che stavano soffrendo in vari modi potessero trovare sollievo e conforto.
    Per fortuna, potevo disporre dei mezzi tecnologici che mi consentivano di tenere i contatti con amici e familiari e di partecipare a videoconferenze di ogni genere. Inoltre, con gli amici dell’Università della Terza Età siamo riusciti anche a organizzare lezioni gratuite per i nostri soci e anche per tutti quelli che richiedevano di collegarsi. Per molti questa opportunità è stata occasione per imparare a usare computer e cellulari in modo più evoluto, riuscendo a rompere il proprio deprimente isolamento.
    Mi dava angoscia anche il constatare come qui, in Lombardia, l’assistenza ai malati fosse tanto carente: tante persone non venivano assistite per tempo e si aggravavano velocemente; era fortunato chi poteva essere ospedalizzato, ma chi rimaneva in casa era abbandonato a se stesso.
    Intanto si cominciava a parlare di vaccini, con le solite polemiche di chi proclamava la propria diffidenza e forse questo (insieme a tanta inefficienza) ha rallentato l’organizzazione dei centri vaccinali, che sono entrati in funzione solo da poco.
    Convinta che solo i vaccini possono aiutarci a uscire dalla pandemia, non capivo come, anche tra i miei conoscenti (anche anziani!!!), ci potessero essere persone contrarie a farsi vaccinare. Io invece aspettavo con ansia il momento di potermi prenotare e tale momento è finalmente arrivato anche per noi ultrasettantenni e, appena avutane notizia mi sono messa al computer (erano le due di notte del primo giorno utile) e ho potuto avere subito la conferma del mio appuntamento.
    Ho ricevuto la prima dose solo qualche giorno fa con uno dei vaccini più discussi, ma ero felice: poteva essere la prima tappa per riconquistarsi una vita più normale!

  • Un libro tornato "di moda": LA PESTE di A.Camus

    diana catellaniI giornali dicono che questa pandemia, ha indotto molta gente a comprare o a riprendere in mano il libro di Albert Camus "LA PESTE” e non me ne stupisco: è un romanzo bellissimo, scritto divinamente, e racconta bene molte situazioni che stiamo vivendo in questi giorni.
    La vicenda è ambientata ad Orano, in Algeria, e racconta come si manifesta una terribile epidemia di peste: i primi segni, ratti trovati morti per le strade, non vengono presi in considerazione da nessuno, poi cominciano a morire le persone: prima pochi casi con sintomi analoghi, poi il contagio dilaga.
    Il protagonista è un medico, il dr. Rieux, che per primo intuisce il dramma che si sta scatenando e che con i colleghi si sottopone a turni interminabili in ospedale, sperimentando lo strazio di non poter evitare la morte dei tanti che via via vengono colpiti. Interi quartieri vengono chiusi e chi è all’interno delle zone in quarantena si sente prigioniero e desideroso di allontanarsi e chi è rimasto separato dai propri affetti, si sente quasi “amputato” di una parte importante di sé e della sua vita (negli anni 40 del ‘900 non c’erano ancora le tecnologie che oggi ci consentono di comunicare con facilità con amici e parenti).

  • Un mese di solitudine

    diana catellaniEravamo circa a metà febbraio quando ci commuovevamo per le immagini che venivano da Wuhan: dai balconi dei palazzi la gente in quarantena si affacciava per gridare:- Forza Wuhan!!- mentre le loro voci rimbombavano nel silenzio irreale delle strade deserte.
    Allora pensavamo ancora che il problema fosse lontano da noi, che non ci avrebbe mai riguardato, ma la settimana successiva ecco la scoperta di un paziente affetto dal virus nel Lodigiano, cui sono seguiti i primi servizi giornalistici allarmati: si cominciava a capire che presto anche da noi sarebbero stati presi provvedimenti drastici.
    Il mio primo pensiero è stato: E se dovessi anche io restare in casa per molti giorni? Se dovessi ammalarmi? Così la mattina presto di sabato 22 febbraio sono andata al supermercato e ho comprato ciò che poteva rifornire il freezer che era quasi vuoto e altri generi a lunga conservazione: in caso fossi stata contagiata avrei potuto affrontare anche un lungo periodo di isolamento, avrei potuto resistere senza aver bisogno di chiedere aiuto. Subito dopo sono state annunciate le restrizioni col conseguente assalto ai supermercati, ma io ero già a posto e potevo pensare solo a come trascorrere queste giornate in solitudine.

  • Un omaggio a Rodari per ricordare il suo compleanno: Gelsomino nel paese dei bugiardi

    ida accorsiUna breve premessa prima di parlare del racconto. Il 23 ottobre 2020 Gianni Rodari avrebbe compiuto 100 anni! Un autore geniale, completo, narratore, giornalista e studioso, ma che fa parte di quella non grandissima schiera di Maestri che questo Paese, non onora come dovrebbe e che qualcuno vorrebbe dimenticare! Io, invece, (e non sono la sola, per fortuna,) lo voglio ricordare, perché è uno degli autori più importanti della nostra letteratura, che ha speso la sua vita per abbattere ogni barriera che limitasse la creatività, ogni muro che recintasse il pensiero, ogni luogo comune che mortificasse le parole.
    Abbiamo il dovere di raccontare Gianni Rodari alle generazioni che hanno la fortuna di poterlo leggere e la sfortuna di non poterlo conoscere. Lui diceva che: “Se una società basata sul mito della produttività (e sulla realtà del prodotto) ha bisogno di uomini a metà – fedeli esecutori, diligenti riproduttori, docili strumenti senza volontà – vuol dire che è fatta male e che bisogna cambiarla. Per cambiarla occorrono uomini creativi, che sappiano usare la loro immaginazione”. Queste sue parole sono state dette e pubblicate 46 anni fa e spiegano il perché è importante ricordarlo e raccontarlo con passione e gratitudine.
    “Gelsomino nel paese dei bugiardi” è stato pubblicato per la prima volta nel 1958 dagli Editori Riuniti con le illustrazioni di Raul Verdini e nel corso degli anni ha avuto innumerevoli ristampe; una significativa anticipazione del tema è contenuta nella filastrocca “Il paese dei bugiardi” scritta su “l’Unità” il 23 agosto 1956. In un paese dove per ordine del sovrano tutto funziona al contrario ed è proibito dire la verità, arriva Gelsomino dalla voce potentissima che con l’aiuto di simpatici amici sconfigge la prepotenza e fa trionfare la sincerità.
    In questo libro Rodari dà prova della sua straordinaria capacità di esplorare con occhio critico la realtà sociale e di muovere con brio e finezza di stile verso un universo fantastico costruito sull’altruismo, sulla generosità, sull’amicizia: Gelsomino con la sua voce e la sua simpatia ci invita a guardare con ottimismo al futuro. (consigliato ai ragazzi dai 7 anni.)

    La trama
    Fin da bambino Gelsomino ha avuto una brutta voce potentissima, che è stata per lui fonte di innumerevoli problemi: era capace di rompere i vetri delle finestre e le lavagne della scuola, di modificare le traiettorie del pallone durante le partite di calcio, di far cadere anzitempo i frutti dagli alberi. Per sfuggire alla cattiva fama che si è procurato presso i suoi concittadini, Gelsomino ormai giovanotto si trasferisce in un altro paese, dove le cose vanno a rovescio: i generi alimentari si vendono nelle cartolerie, si accetta in pagamento denaro falso e si rifiuta quello buono e nessuno chiama le cose con il loro nome. Qui fa la conoscenza di un gatto parlante con tre zampe, di nome Febo disegnato da una bambina con un gessetto su un muro, dal quale è stato liberato per un potente colpo della voce di Gelsomino. Zoppino gli spiega che Giacomone, il re di quel paese, prima di impadronirsi del trono era stato un pirata, e che per impedire che si parlasse delle sue precedenti imprese furfantesche aveva imposto ai suoi sudditi che nessuno dicesse più la verità, sotto pena di finire in prigione o in manicomio.
    Gelsomino entra in una cantina che ha trovato aperta per riposarsi. Zoppino, nel frattempo, prima ruba un avanzo di pesce alla vecchia gattara Zia Pannocchia, poi s'introduce alla reggia, dove scopre che i fluenti e ammirati capelli arancione di re Giacomone non sono altro che una parrucca, e che il sovrano è calvo. Non resiste alla tentazione di scrivere questa verità su un muro, dopodiché viene catturato da Zia Pannocchia che lo porta a casa, cucendolo ad una poltrona per punirlo del suo furto. Viene però liberato da Romoletta, la nipote della gattara che l'aveva disegnato, che lo conduce dal pittore Bananito per rifinirlo meglio ed evitare che il gesso di cui Zoppino è fatto si consumi. Bananito, che in ossequio alla legge della menzogna ha dipinto persone e oggetti dall'aspetto assurdo, in preda ad una crisi vorrebbe distruggere le sue opere, ma è fermato dall'improvvisa comparsa di Gelsomino, che cerca un posto dove nascondersi. Egli infatti era stato scoperto dal maestro Domisol, direttore del teatro cittadino, che notando la potenza della sua voce aveva pensato di farne una stella del bel canto, ma alla sua prima esibizione aveva demolito completamente il teatro.
    Zoppino consiglia a Bananito di limitarsi a togliere dai quadri i particolari ridondanti, anziché distruggerli, e si verifica un altro prodigio: le immagini così corrette si staccano dalle tele e diventano vere. Bananito per riconoscenza dipinge un'altra zampa a Zoppino. Zia Pannocchia e Romoletta sono arrestate e condotte in manicomio per aver insegnato ai gatti a miagolare ed anche Gelsomino è ricercato per aver distrutto il teatro. Egli fugge per i tetti assieme a Zoppino ma scivola e cade sul balcone di Benvenuto-Mai seduto, un cenciaiuolo dall'aspetto di un vecchietto di settantacinque anni ma che in realtà ne ha solo dieci perché invecchia ogni volta che si siede. Questi dà ricetto a Gelsomino finché non è guarito. Intanto Bananito ha ripreso il suo lavoro mettendosi a ricreare la realtà per strada. Viene prima imprigionato per aver dipinto delle immagini veritiere, ma poi è invitato a corte, dove re Giacomone spera che gli possa dipingere in testa dei capelli veri per poter rinunciare alla parrucca, e nominato ministro; tuttavia si rifiuta di dipingere dei cannoni e viene rinchiuso in manicomio, da dove Zoppino lo fa evadere con la complicità di Benvenuto, che per intrattenere una guardia si siede fino a morire di vecchiaia.
    Per liberare Zia Pannocchia e Romoletta, Gelsomino si mette a cantare di fronte al manicomio, provocandone la distruzione; la devastazione coinvolge anche il palazzo reale, dal quale fuggono la corte e lo stesso Giacomone in incognito, che si libera delle sue parrucche gettandole in un fiume. La popolazione, presso la quale il senso della verità non era ancora del tutto spento, è liberata dal regime delle bugie.
    Gelsomino riprende a studiare per diventare un vero cantante lirico, Zia Pannocchia diventa la direttrice di un istituto per gatti abbandonati e Romoletta studia da maestra. La guerra che Giacomone aveva dichiarato ad uno stato confinante contando sui cannoni che Bananito gli avrebbe dipinto viene convertita, su suggerimento di Gelsomino, in una partita di calcio.
    ***
    Tratto da pag. 63 del racconto: “Se un pittore sa il suo mestiere le cose belle diventano vere.”
    – Credevo, – mormorò tristemente Bananito, – credevo di essere un pittore.
    Ma sarà meglio che cambi mestiere.
    E sceglierò un mestiere col quale i colori c'entrino il meno possibile.
    Per esempio, farò il becchino, e avrò a che fare solo con il nero.
    – Anche nei cimiteri ci sono i fiori, – osservò Gelsomino.
    – Su questa terra, di nero proprio nero e soltanto nero non c'è niente.
    – Il carbone, – disse Zoppino.
    – Ma a dargli fuoco diventa rosso, bianco, azzurro.
    – L'inchiostro nero è nero e basta.
    – Ma con l'inchiostro nero si possono scrivere storie colorate e allegre.

     

    gelsomino paese bugiardi prima ed. 1958

  • Una nuova esperienza: ginnastica in piscina

    diana catellaniUna lezione tenuta tempo fa all’Università della Terza Età sui benefici della ginnastica in acqua mi aveva incuriosito e mi aveva fatto venire la voglia di interessarmi sugli eventuali corsi organizzati in città.
    Qualche giorno fa, una mia cara amica mi ha chiesto se fossi interessata al corso che stava cominciando nelle piscine comunali e subito ho deciso che dovevo approfittare di questa opportunità.
    Mi sono attrezzata con tutto quello che poteva essere utile, compreso il certificato medico attestante il mio buono stato di salute, ed eccomi pronta per il lunedì mattina.

  • Una sera d’autunno come tante…

    diana catellaniSono interminabili le sere di novembre: il buio arriva prestissimo e, dopo aver preparato la cena (si fa per dire, molto spesso apro il frigo alle 19 e tiro fuori qualcosa di veloce, o termino ciò che mi è avanzato a mezzogiorno e consumo il mio lauto pasto guardando il programma preserale), mi restano da riempire 4/5 ore di solitudine, dato che, andando a letto presto, finirei poi con lo svegliarmi nel cuore della notte senza poter più riaddormentarmi.
    Mi sono di grande aiuto il computer, che mi permette di collegarmi coi miei figli lontani o con gli amici reali e virtuali tramite i social-network, e la televisione.
    Da quando sono sola però non riesco più a seguire i talk-show che parlano di politica: mi innervosisco e non c’è nessuno con cui dividere la mia rabbia e la mia indignazione. Per questo preferisco sintonizzarmi sui canali che trasmettono vecchi film.
    Controllo prima di tutto il cast: la presenza di grandi attori è sempre una garanzia; poi leggo la trama: scarto senz’altro i film dalla comicità troppo facile, i film western, il genere horror e la fantascienza. Amo le storie vere o verosimili, che parlano di situazioni contemporanee o storiche e mi piacciono i gialli. Detto questo si può ben capire che, avendo una normalissima antenna e nessuna pay-tv, la rosa delle possibili scelte è molto ristretta.

  • Una soluzione alla crisi del lavoro:…”Metti la nonna in freezer !!!”

    rita rambelliÈ in pensione e guadagna 1.600 euro al mese come ha dichiarato un signore durante un'intervista al Corriere della sera tempo fa, ma con quei soldi aiuta anche i figli di 31 e 32 anni che vivono con lui: «lavorano part time in un call center, quindi per le statistiche non sono disoccupati. Ma in casa riescono a campare, fuori, da soli, non ce la fanno...».
    E’ una verità che spesso con i soldi della pensione in Italia ci vivono anche figli e nipoti, perché il lavoro per i giovani non si trova, gli asili dove lasciare i bambini nemmeno. Ed ecco che i nonni diventano factotum indispensabili.

  • Viola Ardone- Il treno dei bambini: un romanzo da una storia vera

    viola ardoneViola Ardone- Insegnante, autrice di romanzi e di manuali per la scuola, racconti in collaborazione con i ragazzi dell'Istituto Penale Minorile di Nisida nell’ambito di un progetto di scrittura

    Il suo libro “Il treno dei bambini” (Einaudi editore) link riprende un grande iniziativa di solidarietà tra Nord e Sud, organizzata dalle donne dell’UDI, del Partito Comunista dell’Emilia Romagna, da organizzazioni e tanti comitati locali, negli anni tra il 1945 e il 1952. Come raccontato nel libro di Giovanni Rinaldi “Il treno della felicità”  e nel documentario “Pasta nera” di Alessandro Piva, (https://www.youtube.com/watch?v=v5zph62IdCY) premiato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2012, decine di migliaia di bambini delle famiglie più disagiate e colpite dalla guerra -forse centomila- del Sud d’Italia, furono accolti in famiglie dell’Emilia Romagna e vi rimasero anche per due anni. La prima domanda è molto diretta: ci può raccontare come ne è venuta conoscenza e perché a distanza di tanti anni è stata attratta da questa storia tanto da scriverne un libro?
    La storia dei bambini dei treni era stata documentata, tra gli altri, da Rinaldi e Piva, però non era stata mai narrata in un romanzo. Quando ho scoperto questa vicenda, attraverso i racconti di un testimone, ne sono rimasta rapita ed ho subito intuito che non era solo del fatto storico che volevo scrivere ma delle storie umane che in quella avventura erano racchiuse. La cornice del romanzo è quindi storica ma le voci, le situazioni, i sentimenti e la trama sono opera di fantasia.

  • Vivere ai tempi del Covid-19. Consigli di psicologi e sociologi per superare al meglio questo periodo soprattutto per chi vive solo.

    rita rambelliL’obbligo di restare in casa ha destrutturato la nostra routine e soprattutto quando si vive da soli gli effetti dell’ansia e della preoccupazione si fanno sentire in modo crescente, perché le occasioni per confrontarsi e sfogarsi con qualcun altro sono inferiori a quelle di chi magari vive in una famiglia. Questa pandemia ci ha spiazzati modificando le nostre abitudini personali e professionali obbligandoci a lavorare con nuove metodologie e in molti casi obbligandoci ad imparare l’uso di sistemi che pur sapendo che esistevano no avevamo sentito il bisogno di usarli (Skype, zoom, WhatsApp, ecc.) perché potevamo incontrare le persone. In molti casi aumenta il livello di ansia di fronte all’incertezza e alla paura, oltre che della malattia, anche delle conseguenze sociali ed economiche che inevitabilmente sappiamo che arriveranno.

  • Wonder: un libro per adolescenti, ma anche per adulti

    ida accorsi“Non giudicare una persona dalla faccia”
    «Ognuno dovrebbe ricevere una standing ovation almeno una volta nella vita, perché tutti "vinciamo il mondo".Auggie»
    (R. J. Palacio,Wonder, Appendice)

    Wonder è il romanzo d'esordio di Raquel Jaramillo, pubblicato nel 2012 (Giunti editore) sotto lo pseudonimo di R. J. Palacio (1) e uscito in Italia nel 2013. È risultato finalista al Premio Andersen 2014.
    Il romanzo è ambientato a North River Heights, nel quartiere di Manhattan dove ci sono la casa e la scuola frequentata da August, Il protagonista soprannominato Auggie dove vive con la sua famiglia e la cagnolina Daisy.
    È un bambino intelligente, sensibile, divertente e coraggioso, nato con una tremenda deformazione facciale, la sindrome di Treacher-Collins, si trova ad affrontare con coraggio il mondo della scuola, dopo anni di protezione da parte della sua famiglia.