L’inizio della parola caregiver evoca nella lingua italiana il vocabolo “caro” che sappiamo avere tanti significati: può riferirsi a una persona a cui si vuole bene, al genitore o parente stretto, ma anche a qualcosa che costa molto o che fa pagare molto.
Tenersi caro qualcuno è averne cura, ma “caro” può essere usato in tono ironico per esprimere fastidio e insofferenza. Questi contenuti appartengono al mondo del caregiver e se arriviamo a capire il significato anche per assonanza, se tra gli addetti ai lavori il termine caregiver è diventato consueto, più difficilmente chi vive questo ruolo parla di sé come di un caregiver.
“Ah, lei è la caregiver della signora Lia?”
“No, sono la figlia”
La giornata che si terrà a Carpi il 21 maggio 2011 interamente dedicata a tutti i caregiver familiari – la prima in Italia – sicuramente contribuirà a superare la scarsa visibilità dei soggetti e dei loro bisogni e a promuovere in modo più capillare il collegamento del termine anglosassone al ruolo svolto da tutti coloro che si prendono cura di un familiare diventato fragile e dipendente.
Chi incontra e ascolta i caregiver, consapevoli o meno di essere definiti così, incontra una molteplicità di bisogni legati al loro ruolo. Sono bisogni che appartengono alla sfera sociale, psicologica, etica. Sono fatiche quotidiane che riguardano l’assistenza diretta al malato, difficoltà economiche, relazioni con il mondo intricato dei servizi, fatto di reti spesso autoreferenziali o poco orientanti. E ancora la stanchezza nel gestire comportamenti illogici, difficili da comprendere, magari aggressivi dell’anziano demente, oppure quella che nasce da complicati rapporti con il resto della famiglia. Sono anche i vissuti di colpa, di inadeguatezza, quelli di solitudine davanti alle decisioni che implicano forti responsabilità.
Sovente la cura si protrae nel tempo, il caregiver vede aumentare il livello di stress per la dipendenza fisica e soprattutto psicologica del familiare che - dice Ploton - «genera una domanda più o meno avida, insistente, permanente, esigente»[i]. Chi si prende cura, allora, amplia i suoi compiti o quantitativamente o anche a livello di coinvolgimento emotivo, allontanandosi così da qualunque prospettiva di attenzione e cura di sé e di risposta anche minima ai propri bisogni. Giuliana Costa[ii] parla di “vulnerabilità da cura” che «non è l’esito della rottura, dell’assenza o dell’indebolimento spinto dei legami familiari, quanto il risultato di una loro tenuta ad oltranza, sia per fattori endogeni alle famiglie, sia per le condizioni di contesto in cui esse si trovano a fronteggiare gravi problemi di cura».
Nella nostra esperienza il caregiver è un membro della famiglia. Famiglia e cura sono un binomio inscindibile: si appartengono dall’origine ma quando guardiamo dentro la famiglia ci accorgiamo che spesso il caregiver è femmina e ciò viene dato per scontato. Joan Tronto[iii] sostiene invece che la cura è una preoccupazione centrale della vita umana, non una preoccupazione particolaristica delle donne, un tipo di questione morale secondaria o il lavoro delle persone socialmente più svantaggiate e aggiunge « è tempo di iniziare a cambiare le nostre istituzioni politiche e sociali per riflettere su questa verità».
La famiglia, o forse sarebbe meglio dire le famiglie[iv], sono anche risorsa, capitale sociale anche se poco considerato e poco valorizzato. Le famiglie, come risorsa per i propri membri, godono infatti di un apprezzamento molto teorico, spesso solo ideologico, quando non strumentale; ma di ciò che in esse accade, dei problemi quotidiani che devono affrontare, della solitudine, della stessa violenza che vi può nascere se ne sa ancora poco; così come poco si sa del potenziale di interdipendenza affettiva, di solidarietà e di sostegno che esse sanno produrre[v]. Se è vero infatti che le famiglie mettono in campo notevoli risorse - e ci riferiamo ad esempio all’assunzione di responsabilità nei confronti dei propri membri anziani malati con modalità relazionali legate al dono e allo scambio, alla capacità di fronteggiare le problematiche della cura in un continuum di mediazioni e adattamenti - è altrettanto vero che le risorse, se non sono ben gestite si esauriscono in breve tempo. I gruppi di automutuo aiuto di caregiver possono rappresentare una buona risposta a questi bisogni.
Taccani P., Giorgetti M., a cura di (2010), Lavoro di cura e auto mutuo aiuto. Gruppi per caregiver di anziani non auto-sufficienti, Scritti di Giorgetti M., Landini F., Maccalli I., Rocchetti D., Rozzi G., Taccani P., FrancoAngeli.
Automutuo aiuto: le origini
L’automutuo aiuto è una cultura, una filosofia, un approccio sociale, una metodologia: l’automutuo aiuto è tutto questo. Nasce con l’uomo ed è addirittura osservabile nel regno animale dai membri più piccoli come le api, le formiche, i gabbiani, i castori a quelli più grandi come gli elefanti e le balene. Come concetto il mutuo aiuto trova il suo sviluppo proprio dal confronto/scontro con le teorie darwiniane che spiegavano l’evoluzione della specie sottolineando gli aspetti di lotta e di sopraffazione del più debole. Nel 1902 lo studioso russo esiliato in Inghilterra Pëtr Alekseevič Kropotkin colpito da queste teorie ne approfondì alcuni aspetti, sino a redigere un testo dal titolo “Mutual Aid” dove elaborò un’ipotesi differente, per quel che riguarda la specie umana: nessuna evoluzione sarebbe avvenuta, se negli uomini non ci fosse stata una predisposizione naturale a riunirsi e collaborare, sostenendosi reciprocamente, per far fronte ai problemi comuni.
Nella storia del lavoro sociale con i gruppi la prima citazione del mutuo aiuto, come concetto, si trova molto più tardi, nel 1961 a New York, negli studi di William Schwartz. Egli descrisse il gruppo come un’alleanza di individui che hanno bisogno l’uno dell’altro in modi e intensità diverse e che si aiutano reciprocamente lavorando su problemi comuni.
Ancora una tappa importante: nel 1965 Frank Riessman[vi] psicologo sociale, di New York come Schwartz, elaborò il concetto di helper therapy prendendo avvio dall’osservazione dei benefici psicologici ed emotivi per gli helper, ottenuti attraverso il lavoro di cura.
L’automutuo aiuto quindi è un processo caratterizzato dal fatto che ognuno è contemporaneamente fornitore e fruitore di aiuto. E perché sia possibile aiutare se stessi e gli altri occorre cercare e riconoscere le loro qualità, cercare e riconoscere le proprie risorse. Anche l’O.M.S. lo annovera tra gli strumenti di maggior interesse per ridare ai cittadini responsabilità e protagonismo, umanizzare l’assistenza socio-sanitaria, migliorare il benessere della comunità.
Per quanto riguarda i gruppi di automutuo aiuto è a tutti noto che la loro nascita si fa risalire negli USA agli anni ’30 con i gruppi AA, Alcoholics Anonymous che hanno poi trovato diffusione anche in Europa.
Automutuo aiuto: gruppi di caregiver
Come detto poco sopra quando si pensa ai gruppi di automutuo aiuto ci si riferisce a gruppi che si formano perché vi sono persone che riconoscono di avere un problema, cercano di affrontarlo, e ritengono di poterlo fare attraverso l’aiuto di altri che, come loro, lo stanno vivendo.[vii]
Venendo a parlare di familiari che curano anziani non autosufficienti non è del tutto semplice definire il “problema comune”. Semplificando possiamo indicarlo con il termine di lavoro di cura, ben sapendo che si tratta di una semplificazione. In realtà, come detto in premessa, il lavoro di cura non è di per se stesso un problema, lo può diventare a certe condizioni. Questo significa anche che gli obiettivi da raggiungere attraverso il percorso di gruppo di automutuo aiuto sono differenti, se ne possono presentare alcuni come più urgenti per un membro del gruppo e meno per altri. La nostra esperienza ci ha portato a definirne alcuni:
nel caso dei caregiver che si dedicano al lavoro di cura a tempo pieno, o quasi, la partecipazione a un gruppo raggiunge lo scopo di farli uscire dall’isolamentoanche fisico, dal chiuso delle mura di casa, a rompere il guscio della solitudine;
§ alcuni dei partecipanti la cui lungo-assistenza ha condotto a restringere sempre di più i momenti dedicati a se stessi, decidendo di partecipare al gruppo, riprendono in mano uno scampolo di tempo per sé,si prendono cura di se stessi;
§ il gruppo è un luogo che sollecita fortemente il confronto con l’esperienza di altri:questo significa che a ciascuno è data la possibilità di guardare i propri problemi da punti di vista diversi;
§ la disponibilità e l’ascolto attivo di tutti creano un clima in cui - quando la persona è disponibile a farlo - può esprimere il mondo delle sue emozioni, positive e negative: gratificazione, tenerezza, orgoglio, solidarietà, competenza, senso di lealtà, fierezza ma anche dolore, confusione, angoscia, paure, rabbia, impotenza, tristezza, conflittualità, stanchezza.
§ il gruppo diventa un luogo in cui cresce la fiducia di ciascuno negli altrie in cui, in qualche misura, si può fare esercizio di autoformazione[viii]. Tutto ciò a patto che si realizzino le condizioni in cui non si è giudicati, squalificati, consigliati e indirizzati a forza, e dove, al tempo stesso, si impari a non giudicare, squalificare, a non fornire consigli non richiesti, a non mostrarsi “quelli con la verità in tasca”. Nel gruppo si può affrontare anche il tabù della perdita di capacità di tutelare una relazione sufficientemente buona tra chi cura e chi è curato: diventa possibile trovare le parole per dire del mal-trattamento agito o/e subito[ix].
§ il gruppo aiuta a far lievitare di volta in volta - attraverso l’approfondimento della conoscenza reciproca - il senso di solidarietà tra membriche in alcuni casi si concretizza in forme di aiuto e di scambio di tipo anche pratico.
Spesso in un gruppo si evidenzia che il coinvolgimento nel lavoro di cura è diventato per uno, o più membri, talmente forte da portare queste persone a lasciare totalmente sullo sfondo i propri bisogni, i desideri, a perdere i ruoli familiari e sociali di un tempo, sino a esprimere sintomi di vero e proprio esaurimento emozionale e fisico. Siamo soliti definire questo processo di fragilizzazione del caregiver alla luce del concetto di perdita della capacità di autotutela
Ripristinare condizioni minime di autotutela – nella vita di ciascuno – diventa allora uno degli obiettivi da raggiungere lungo il percorso del gruppo.
Non sono tuttavia gli interventi dei facilitatori(che, anzi, devono assumere molto cautamente questo problema per non trasformare l’esperienza di automutuo aiuto in altro) quanto l’ascolto attivo e gli interventi dei compagni di viaggio a portare concretamente quell’aiuto di cui le persone hanno bisogno. Abbiamo sentito caregiver intervenire con parole dettate dall’esperienza già attraversata, descrivere i propri sforzi per salvaguardare spazi della vita personale e familiare, offrire allo sguardo di tutti, con un’autocritica costruttiva, i loro comportamenti passati di negazione dei propri bisogni e le conseguenze che ne sono scaturite. A questo punto sono proprio loro a potersi permettere di avanzare piccoli suggerimenti, accompagnati dal calore della solidarietà tra pari, quindi non autoritari, né critici, né squalificanti. A volte chi è nell’impassesembra opporre un muro impenetrabile: “Se ti tuteli vuol dire che hai mollato” così aveva cominciato con l’affermare una moglie che da anni curava il coniuge malato di Alzheimer. Ma nel proseguire il percorso può avvenire che anche il partecipante più restio a pensare a se stesso, a “mollare” un pochino, riesca a compiere un piccolo passo e racconti, in uno degli incontri successivi, di aver preso un momento di respiro. Arrivano anche i ringraziamenti al gruppo per l’aiuto ricevuto.
È importante quindi, porre tra gli obiettivi quello di accrescere, anche di poco e per gradi, la capacità di autotutelarsidallo stress, da un coinvolgimento eccessivo. Il quando, il come, con che tempi, insieme a chi, sono tutte risposte che ciascun partecipante in genere troverà in modo personale, così da raggiungere soluzioni, magari minime, ma adatte a sé.
Gli obiettivi da raggiungere costituiscono parte degli elementi che caratterizzano questi gruppi insieme alla tipologia di aiuto e alla composizione cioè all’insieme di persone che condividono il problema della cura in una relazione orizzontale. Altri elementi sono la struttura e il modo di operare.
Nella nostra esperienza di facilitatori ci siamo confrontate con piccoli gruppi aperti echiusi. Per gruppi aperti si intendono quelli strutturati in modo da accogliere in qualunque momento nuovi partecipanti: si costruisce così un contesto al cui interno ci sono persone che hanno livelli di crescita e consapevolezza diversi. Si attiva così più facilmente il principio dell’helper therapy. I gruppi chiusi invece si costituiscono in modo temporalmente definito fin dall’inizio. In questo modo si attivano invece più facilmente processi di identificazione e coesione tra i partecipanti. La durata a volte è determinata da altri, come avviene quando un gruppo è voluto sin dall’inizio da una istituzione committente, oppure è determinata dal gruppo stesso che lo può stabilire a priori. I gruppi che abbiamo progettato con un termine per tutte le ragioni dette, arrivati alla fine in realtà hanno scelto di non sciogliersi e hanno proseguito in modo autonomo con la modalità che in letteratura è denominata self help puro. Per quanto riguarda la cadenza degli incontri ci è sembrato importante non attestarsi su schemi rigidi: a seconda dei gruppi, o in tempi diversi nello stesso gruppo, si è passati da una cadenza mensile a quella di un incontro ogni tre settimane. Ogni incontro dura due ore e, in funzione delle esigenze degli iscritti, è collocato nella fascia tardo-pomeridiana o serale. Questo spazio temporale risulta adeguato alle necessità di comunicazione – ascolto e parola – di gruppi formati da otto-dieci persone. È questa infatti la dimensione gruppale sperimentata con i caregiver. Il piccolo numero é stato di aiuto per far loro superare le paure nella narrazione degli eventi critici della loro esistenza, ma anche per esprimersi con il silenzio, le lacrime, il contatto di una mano. Dimensioni di gruppo come quelle indicate sembrano dunque facilitare lo scambio perché né troppo ampie da incutere timore nelle persone poco abituate a raccontare di sé, né così piccole da ridurre la ricchezza degli apporti e delle esperienze, o da indurre una sorta di ansia da prestazione.
Come già accennato, nell’esperienza di chi scrive, sono presenti nel gruppo due facilitatori con il compito di aiutare il fluire delle parole, dei sentimenti, delle emozioni di ciascun partecipante. Il tema della conduzione è argomento di dibattito nei convegni e nei corsi di formazione, soprattutto per quanto riguarda “chi” deve svolgere il ruolo di facilitazione nei gruppi e quali “caratteristiche” deve presentare: devono essere professionisti o helper naturali? Nella nostra esperienza sono state sperimentate due modalità: con una coppia di facilitatori professionisti e con una coppia formata da un helper naturale e un professionista.
Infine un cenno sulle piccole regole che sono comunicate nel primo incontro. Ci riferiamo all’importanza della continuità di presenza perché si tratta di un cammino da fare insieme, del rispetto della riservatezza perché ciascuno mette nelle mani degli altri aspetti molto personali, dell’ascolto e della parola di tutti, della puntualità come segnale di rispetto reciproco.
Tante ancora sarebbero le cose da dire. Sono i racconti e le emozioni dei caregiver, sono le difficoltà dei professionisti nel processo di “despecializzazione”, il rapporto con il mondo formale dei servizi, la crescita del livello di empowerment e anche l’oltre con la nascita e lo sviluppo di nuovi progetti. Per tutto ciò rimandiamo ad altre letture[x] e concludiamo con le parole di Ines, caregiver della mamma gravemente malata, che descrive un incontro di automutuo aiuto:
Ci troviamo periodicamente in un ambiente accogliente e amichevole. Disponiamo le sedie in circolo e cominciamo a raccontare, chi vuole può anche solo ascoltare. Per favorire e proteggere la comunicazione, nei nostri incontri, è presente almeno un “facilitatore esperto”. Riusciamo così ad esprimere i nostri stati d’animo e impariamo a riservare qualche momento solo per noi e a riprenderci in mano, piano piano, la nostra vita. Agli incontri di automutuo aiuto spesso arriviamo stanchi e indeboliti ma, condividendo le ansie e le preoccupazioni con chi ha gli stessi problemi e trovando insieme le “strategie di sopravvivenza”, ci sentiamo più sereni, più ricaricati e meno soli ad affrontare i tanti aspetti della cura.
[i] Ploton L., La persona anziana. L’intervento medico e psicologico. I problemi delle demenze, Raffaello Cortina, Milano, 2003
[ii] Costa G., Quando qualcuno dipende da te. Per una sociologia della cura,Carocci, Roma, 2007.
[iii]Tronto J. C., (a cura di Facchi A.), Confini morali, un argomento politico per l’etica della cura, Diabasis, Reggio Emilia, 2006.
[iv] Cfr. Saraceno C., Naldini M., Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna, 2007.
[v] Taccani P., “Le politiche di sostegno per le reti informali”, in Gori C. (a cura di ), Le politiche per gli anziani non autosufficienti, FrancoAngeli, Milano, 2001.
[vi]Riessman F., “The Helper Therapy Principle”,in Social Work, vol. 10, 1965: 26-32.
[vii] Cfr. Taccani P. , Prendersi cura di un familiare anziano non autosufficiente, I Quaderni del Centro Maderna, Torino, 2000; Noventa A., Nava R., Oliva F., Self-Help. Promozione della salute e gruppi di mutuo aiuto, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1990; Silverman P., I gruppi di mutuo aiuto, Edizioni Erickson, Trento 1989; Tognetti Bordogna M. (a cura di), Promuovere i gruppi di self-help, Franco Angeli, Milano, 2002.
[viii]Taccani P., A piccoli passi. Lavoro di cura e autoformazione, in: "Adultità”, 10, 1999.
[ix]Caritas Ambrosiana, Ferite invisibili. Il mal-trattamento psicologico nella relazione tra caregiver e anziano, FrancoAngeli, Milano, 2011.
[x] Taccani P., Giorgetti M., a cura di (2010), Lavoro di cura e auto mutuo aiuto. Gruppi per caregiver di anziani non auto-sufficienti, FrancoAngeli