Un po’ di storia. Negli anni ’80 prese il via a Modena una strutturata politica di interventi rivolti alla popolazione anziana anche con la creazione presso il Comune di un nuovo ufficio ”Attività promozionali anziani”. Questa attività di largo respiro vide la collaborazione istituzionale fra la Giunta Comunale di Modena (in particolare il vicesindaco B. Flori e l’assessore A. Sacchi) e l’Università di Modena, cioè la cattedra di Geriatria diretta dal prof. GP Vecchi. Il motto guida fu “Dare vita agli anni e non anni alla vita” da cui discendevano due importanti corollari, “Anziano non è sinonimo di Malattia” e “il territorio organizzato anche in strutture è sede e fattore di riattivazione/riabilitazione psico-fisica”. Per restringere il resoconto a quest’ultimo aspetto, è coerente l’avvio del progetto Casa Albergo Cialdini. In questa struttura si cercava di far convivere gli aspetti individuale-familiare con quello comunitario.
In particolare erano stati identificati da un lato uno spazio- la propria camera- dove la coppia di anziani autosufficienti potesse conservare non solo le suppellettili personali ma anche un ritmo relazionale privato, così da mimare la casa e dall’altro spazi e servizi comuni –il pranzo, le chiacchiere, l’ambulatorio- per facilitare il soddisfacimento delle altre esigenze quotidiane.
Progressivamente ci si rese conto che il ruolo dell’intervento pubblico non poteva limitarsi a realizzare soluzioni sempre più appaganti e qualificanti per gli anziani autosufficienti, ci si orientò dunque anche verso un’altra categoria più debole (ora è più consueto dire più fragile) quella dei “non autosufficienti” con la prima Casa di riposo Comunale “S. Giovanni Bosco”. Le strutture esistenti vennero poi via via convertite gradualmente per consentire la presenza, al loro interno, di una quota di anziani con problematiche complesse; la sesta struttura poi fu specificamente ideata per questo tipo di utenza.
“mi è familiare”
Quando pronunciamo questa frase in riferimento ad una persona o ad un ambiente ne connotiamo due componenti, la prima “conoscitiva”: sono sembianze o spazi le cui caratteristiche abbiamo in mente, sono nel magazzino della nostra memoria, ma, seconda componente, associamo alla parte conoscitiva una componente emotiva-affettiva, in genere positiva. Ma cosa succede quando le due componenti non si associano? Abbiamo la Sindrome di Capgras, o condizioni apparentate. Questa condizione si verifica quando le parti della corteccia cerebrale deputate al riconoscimento (visivo, uditivo etc.) perdono il collegamento strutturale con la parte del cervello che associa alla percezione “cognitiva” un’adeguata connotazione emotivo-affettiva. Questa dissociazione può essere dovuta a lesioni vascolari, traumatiche, degenerative e porta la persona colpita ad ammettere per esempio che chi ha di fronte è esattamente uguale al familiare (il padre, la moglie etc.) ma che non è lui, è un impostore e ciò conduce a sviluppare ansia, dubbi, rifiuti sino a interpretazioni deliranti di danno o raggiro (forse il familiare vero è stato rapito o ucciso da questa persona).
E’ purtroppo esperienza comune per i familiari di persone colpite da demenza sentirsi dire dal congiunto “portami a casa, questa non è casa mia”, magari dopo una breve assenza di ore o pochi giorni. Ed è frustrante e spesso senza successo, il tentativo di contrastare “cognitivamente” questo incaponimento, cercando di far “riconoscere” mobili ed arredi ben noti. Il sentirsi “ a casa” è dunque una percezione complessa fatta sia di aspetti cognitivi che di aspetti affettivi, non facile da evocare, magari proveniente da suoni, odori o altre componenti come la presenza di persone conosciute che ricompongono il senso di familiarità e un sentimento di piacevole abbandono, non di esplorazione affannata.
Cà Nostra
Il progetto “Cà Nostra” cerca di tener conto della complessità e delle variegature del quadro clinico delle malattie dementigene. Per restare strettamente aderenti alla sua denominazione, si propone di rendere disponibile il più ampio spettro di condizioni che facciano sentire le persone a casa, magari in una casa di una volta, con la famiglia allargata, guidata dalla “rezdora”. Infatti, oltre ad uno spazio privato identificabile da suppellettili familiari, promuove la convivenza plurigenerazionale con persone familiari. Però ci sono anche spazi ed occasioni di socializzazione, come una volta quando si andava “a veg”. Si può dire che alla lontana mima la prima esperienza del Cialdini di tanti anni fa, con la sostanziale differenza che le persone sono “fragili” e che questa non è una struttura istituzionale. E’ necessario sottolineare che, dal punto di vista progettuale ed organizzativo è affatto originale, in quanto crea una condizione a cavaliere fra la casa di provenienza e la struttura.
Cà Nostra, cosa è
E’ un progetto sviluppato all’interno dell’Associazione G.P.Vecchi “ pro senectute et dementia“.
Realizzato grazie alla collaborazione di CSV, col ruolo di coordinatore del progetto, il Comune di Modena e AUSL, e altre associazioni di volontariato che a vario titolo si sono rese disponibili a collaborare.
L’idea è nata da esempi già funzionanti nei paesi del nord, dove la convivenza è frutto di collaborazione di famigliari e volontari, ma tutto sotto il controllo di Enti istituzionali.
La differenza di Cà Nostra è prevalentemente nella “ autogestione “. Ovvero nulla è frutto di un’erogazione istituzionale pubblica o privata, ma è tutto nella responsabilità e disponibilità dei famigliari degli ospiti.
Perché Cà Nostra
Le ragioni sono molteplici tutte nella direzione di migliorare la qualità della vita degli ospiti e dei loro famigliari. Tra queste emerge quella di superare il trauma del ricovero.
Infatti quando in famiglia sorge la necessità inderogabile di un ricovero in struttura, nel famigliare scattano tanti sensi di colpa che vanno dalla sensazione di avere fallito il proprio compito di assistenza e quello dell’abbandono del proprio caro. Mentre nel nostro caso si va nella direzione della domiciliarità e il “ ricovero” risulta essere più un trasloco piuttosto che un ricovero vero e proprio.
Altro vantaggio e quello di dare la possibilità all’ospite di socializzare e rompere l’isolamento che si può verificare al proprio domicilio.
Nel breve periodo di attività di Cà Nostra si è già avuto la possibilità di verificare miglioramenti dell’umore e del comportamento degli ospiti a dimostrazione che l’idea funziona.
Un famigliare racconta
Quando dopo la morte del papà nel 2012 abbiamo ereditato la parte “dolorosa” della mamma, cioè il carico della mamma con la sua evidente malattia cognitiva, è apparso subito palese a mia sorella e me che il problema era molto serio e di non facile gestione.
Eravamo ancora nella fase in cui mamma era spesso consapevole, a volte reattiva, ma altrettanto persa nei suoi pensieri e completamente dipendente da noi; talvolta aggressiva, con punte di ostinata lucidità che ci disorientavano.
L’incontro con l’Associazione G.P.Vecchi, casuale come spesso avviene nella vita, fu provvidenziale, soprattutto per me che da alcuni anni mi ero occupata di altri famigliari con gravi disturbi cognitivi. Infatti, durante il periodo di accudimento della nonna di mio marito e di mio suocero avevo cercato di usufruire di quanto sul territorio era disponibile: assistenti private - badanti- ricoveri temporanei in strutture, centro sociale, aderendo anche al progetto “università e anziani”. Accogliendo uno studente in cambio di una “presenza” in casa.
Tutto era stato apprezzato e utile, ma era gestito sull’emergenza. I medici incontrati allora mai ci informarono sulle tecniche da utilizzare in presenza di queste malattie: facevano il loro lavoro curando i nostri cari, senza spiegare che sarebbe stato necessario un approccio diverso al paziente. In Associazione invece ho ricevuto tantissime informazioni utili, che ho cercato di mettere in pratica ed abbiamo notato, fin dalle prime frequentazioni della mamma al TE PER DUE, che tornava a casa serena e stanca, ma non dava più quei segni di irrequietezza che aveva invece prima. Se ne stava tranquilla in poltrona a leggere il giornale senza affaccendarsi continuamente come faceva gli altri giorni quando non andavamo al TE PER DUE.
Erano i primi tempi in cui si parlava del progetto Ca’ nostra ed ho capito che nel nostro caso, questa soluzione avrebbe potuto essere molto efficace. Col passare del tempo anche noi abbiamo adottato e poi cambiato tante soluzioni, ad esempio ci siamo subito fatte aiutare da un’assistente. Con nostra madre, che a quei tempi non era proprio mansueta, l’assistente “dedicata” non era la soluzione adatta, tuttavia dovendo lavorare e avendo anche le nostre famiglie da seguire, non potevamo farne a meno perché mamma aveva bisogno di qualcuno che le preparasse la colazione, che la vestisse, che l’accompagnasse a prendere il giornale... Pur avendo trovato una persona brava ed attenta, il rapporto tra loro non era proprio buono. La mamma cercava sempre noi e solo saltuariamente era docile e raramente si lasciava aiutare senza reagire con aggressività. Spesso la trattava male o le diceva di andare a casa perché lei “non aveva bisogno di avvocati”. Col passare del tempo e il peggiorare della malattia si è reso necessario introdurla al Centro Diurno, che fino al mese scorso ha frequentato vicino a casa, dove veniva accompagnata dall’assistente e dove io la riprendevo nel pomeriggio. Con questa soluzione mamma ha dimostrato di essere molto serena, non ha mai cercato di opporsi o di tentare di andare a casa e risulta che partecipasse attivamente alle proposte di animazione. Dopo qualche tempo di frequentazione abbiamo deciso di portarla al Centro anche di sabato e domenica, inoltre abbiamo usufruito fin dallo scorso anno dei periodi di “sollievo” di 15 giorni o di qualche fine settimana con notte. In questi casi mamma restava a dormire fuori casa.
Parallelamente Ca’ nostra prendeva sempre più forma ed in cuor mio non vedevo l’ora che partisse.
Qualche volta mamma era caduta, apparentemente senza motivo. In quei casi abbiamo dovuto ricorrere ai ricoveri in ospedale per scoprire le cause delle cadute, con relativo appesantimento del lavoro di cura da parte di noi figlie, che cercavamo sempre di essere presenti il più possibile in ospedale per evitare di lasciarla sola.
Dopo ogni rientro a casa ci si poneva il problema della notte, al quale abbiamo inizialmente sopperito con turni. Successivamente ci è sembrato che la mamma potesse ancora dormire sola, con la vicinanza di mia sorella e cosi siamo andate avanti qualche mese, finchè il 19 maggio scorso abbiamo traslocato a Ca’ nostra.
A Ca’ nostra abbiamo portato qualche mobile di casa, i quadri, la macchina da cucire...
Ci sono per ora due mamme ed un papà.
Due assistenti conviventi e due ad ore, su turni dove due assistenti sono sempre presenti, giorno e notte. Noi famigliari andiamo e veniamo a nostro agio; la domenica “entriamo in turno” per il momento per alleggerire l’onere economico.
E’ una comunità famigliare dove stiamo cercando di ricreare il più possibile la dimensione della famiglia, dove episodi di wandering ed affaccendamento sono sostituiti da momenti di “attività” che stimolano le abilità residue o attività motorie adattate, e dove i nostri cari vengono coinvolti nell’ascolto della musica o nel canto.
Tutto questo è già cominciato. Noi famigliari ne siamo contenti e abbiamo già notato dei grandi miglioramenti. Tra loro comunicano, chiacchierano, i loro visi sono distesi… Mangiano bene (noi famigliari a turno facciamo la spesa), dormono. Abbiamo scelto per loro un unico medico di famiglia, con minor dispendio di energie per tutti.
Consapevoli che strada facendo incontreremo delle difficolta’, siamo sicuri che comunicando e condividendo i problemi e le esigenze li risolveremo uno ad uno.
Ora mi trovo in vacanza e per la prima volta dopo tanti anni non ho il senso di colpa di delegare in toto la cura della mamma a mia sorella e la certezza che la mamma sarà ben custodita.
( La raccolta di questo materiale è stata curata da Enio Concari. Hanno collaborato il professor Mirco Neri (componente del Consiglio dell'Ass. G.P.Vecchi e già Docente di Geriatria- Univ. Di Modena e Reggio E.) per i primi tre paragrafi, Concari per i due successivi, il racconto è della signora Laura Valentini, famigliare di un'ospite)