In questa diapositiva che, con la genialità e la benevolenza di Altan mi accompagna da un bel po’ di anni, è impressa la sintesi dell’argomento di cui scriverò oggi, ed è un tema certamente non nuovo nei miei articoli che trovate su questo sito.
In pieno lockdown, era marzo del 2020, si è (forse) completato un ciclo di malattie da farmaci, tutto al femminile e in un’unica famiglia allargata.
Ho pensato di condensare tutte le mie risposte dettagliate scritte a penna sin dal lontano 1974, partendo dalla mia esperienza reale con diversi componenti della famiglia in questione, e di farlo attraverso una lettera indirizzata all’ultima vittima, alla signora Anna Lamento, che mi aveva contattato agli inizi dello scorso anno pre-pandemia per suoi problemi neurologici di salute. L’avevo conosciuta quando aveva accompagnato nell’ambulatorio della Neurologia di Udine sua nonna materna, esattamente nel 1974.
"Gentile Signora, desidero mettere su carta ancora una volta la vostra storia ora che la Sua vicenda di apparente malattia di Parkinson sembra per fortuna tramontata dopo il nostro incontro nel gennaio dello scorso anno.
Erano passati neanche due mesi da quella visita e, dalle sue parole per telefono (causa lockdown), confortate dalle immagini che Lei mi aveva inviato via WhatsApp, ho potuto concludere che con la sospensione delle bustine di Geffer, che Lei aveva assunto per almeno un anno, sono lentamente spariti i suoi terribili sintomi di “mummificazione”. Una parola pesante, mummificazione, ma ne abbiamo discusso, quasi sorridendo del termine che tante volte mi è toccato usare in questo territorio della fragilità fatto di persone anziane, di farmaci che se la prendono con la dopamina, proprio perché ero molto fiducioso che il suo rallentamento motorio, quel suo sentirsi legata, rigida nei movimenti, imbalsamata nella mimica facciale e persino nella parola, tutto questo, insomma, sarebbe svanito riducendo velocemente il farmaco fino a sospenderlo.
Lei era tornata ad essere quella mia coetanea con movimenti fluidi e giovanili che circa 47 anni fa condusse nell’ambulatorio di Neurologia di Udine sua nonna.
Ricorderà che la nonna aveva sintomi simili ai suoi di un anno fa; che eravate convinti in famiglia che avesse la malattia di Parkinson anche se non tremava (bravi!). Voi la chiamavate morbo, parola che non mi piaceva neanche allora. La giustificavate “con l’età”, circa 80 anni.
Ricucendo la storia, con un po’ di fatica (ma perché non vi preparate prima quando andate dal medico? Come a scuola!) ho scoperto che assumeva da circa un anno due o tre compresse di Vesalium al giorno per “problemi di stomaco”. Questo farmaco contiene come “ansiolitico”, purtroppo, quella carogna di Aloperidolo (si chiamava, in quei tempi senza generici, Serenase e Haldol, farmaco che sopravvive ancora nelle prescrizioni, malgrado tutto) noto per creare parkinsonismi ed altro ancora. Non è, dunque, un banale ansiolitico fatto di Valium o di una delle sue sorelle denominate benzodiazepine. Non che Valium & C. “facciano bene” ma almeno non creano quei problemi!
Pensi, qualche mente illuminata ha sospeso in Italia il Vesalium nel 1993!
Rammento ancora una sensazione spiacevole alla fine della mia visita: apparivate allarmate, vi si leggeva negli sguardi con cui vi interrogavate silenziosamente. Sembrava che Lei avrebbe preferito che la nonna avesse una “vera” malattia di Parkinson piuttosto che affrontare, pur col mio educato e collaborativo resoconto scritto, la reazione inviperita che presagivate da parte della vostra dottoressa di fronte alla possibilità che il responsabile di quei sintomi fosse un farmaco consigliato, e a lungo, da lei.
Della reazione della collega accennerò dopo, tuttavia rievoco con gioia, e sarà stato così anche per Lei, che la nonna si rimise in sesto in due-tre mesi con la graduale riduzione e poi la sospensione del farmaco, nel frattempo aiutati in questo percorso da una gastroscopia, un farmaco innocente ed una dieta idonea. La nonna tornò a curare l’orto (di cui ricordo gli omaggi!) e a usare la bicicletta. La sua morte, un bel po’ di anni dopo, nel sonno, fu accettata serenamente da voi tutti.
Verso il 1985 Lei arrivò in ambulatorio “da me” (in Neurologia, nell’attività ambulatoriale pubblica cercavamo di sostenere le preferenze dei cittadini, che quella volta non si chiamavano utenti…), stavolta con la sorella più giovane della nonna, l’ultima di sei figli: a causa di una depressione che sembrava legata proprio alla morte della sorella a cui era molto legata, la vostra dottoressa, sempre quella, le aveva dato Deanxit.
Ha il profumo dell’ansiolitico nel nome, ma anche questo non contiene un “normale” ansiolitico ma un amico dell’Aloperidolo, insomma un antipsicotico! Anche lei “mummificata” dopo un po’ di mesi di cura.
Nuovamente, mi toccò darvi la speranza che fosse in causa quel farmaco in tutto o in buona parte. Ci furono i soliti sguardi spauriti e qualche commento, stavolta esplicito: “Ma che dirà la dottoressa? Comincerà a gridare come la volta passata e a dire perentoriamente “Bene! Fate quello che vi dice lo specialista anche se io non concordo!”
Finì bene anche quella volta, Lei se lo ricorda. La zia non ebbe bisogno neanche di antidepressivi, tanto contenta era di essere tornata guizzante come prima.
Venne il turno di Sua mamma, nel 1995 aveva l’età mia di adesso, 76 anni, e da circa 10 anni assumeva la Flunarizina (che ha circa sei nomi commerciali, tanto per complicarci la vita, e complicarla ai pazienti dei medici della fretta), consigliata dalla dottoressa per capogiri non meglio precisati. Quella volta la prassi di riduzione e poi di sospensione del farmaco apportò solo qualche miglioramento. Ci trovavamo, quindi, in una condizione che vi ho riassunto anche in uno scritto che avevo preparato da tempo per i pazienti:
• la comparsa di parkinsonismo (o di altre espressioni cosiddette extrapiramidali, si chiamano EPS) dipende da diverse variabili. Può manifestarsi, ad esempio, dopo poche settimane o mesi per gli antipsicotici tradizionale (Aloperidolo & C.) e dopo alcuni mesi (4-9) per Flunarizina e simili. Tuttavia, non sono per nulla rari i casi a sviluppo clinico precoce;
• nella maggioranza dei casi la persona con parkinsonismo da farmaci, dopo settimane o mesi dalla sospensione del farmaco incriminato, torna alla normalità;
• in una piccola percentuale, il farmaco può rivelare la presenza di una malattia di Parkinson o di un parkinsonismo latente (ovvero, che si sarebbero sviluppati, a livello di sintomi, anni dopo). In questi casi possiamo assistere, dopo la sospensione del farmaco incriminato, ad una regressione parziale della sintomatologia parkinsoniana e, nel tempo, alla sua nuova progressione. Il farmaco incriminato non ha fatto altro che “anticipare”, slatentizzare, l’inizio clinico della sintomatologia parkinsoniana in un soggetto predisposto;
• oppure può accadere che, a distanza di qualche anno dalla regressione totale del parkinsonismo, questo ricompaia, stavolta senza alcun rapporto con farmaci sospetti. Anche in questo caso è suggestiva l’ipotesi che il farmaco abbia influito sulla predisposizione di quel paziente alla malattia di Parkinson o ad un parkinsonismo e che, anche in questo caso, abbia “anticipato” l’inizio biologico e clinico della malattia;
• appare ovvia l’affermazione che questi farmaci – di cui vi allego l’elenco - possono aggravare il quadro clinico di una malattia di Parkinson o di un parkinsonismo preesistenti. Non vanno pertanto proposti!
Per qualche anno la mamma rispose abbastanza bene ai farmaci che in un modo o nell’altro regalano dopamina a quel sistema funzionale senza incidere, purtroppo, sulla progressiva morte cellulare dei suoi neuroni. Poi ci fu una rovinosa caduta. Ricordo che la visitai in ortopedia: era in preda a un Delirium, uno stato “confusionale” eternamente e attualmente ancora sottovalutato e purtroppo frequente, a volte mortale. La mamma ne morì, infatti, complice uno scompenso cardiaco fatale.
Siamo nel 2000, l’anno in cui sono andato in pensione apparente (ho continuato a collaborare col reparto per circa 6 anni): stavolta è entrata in campo Sua cognata che, dopo avere ingurgitato per qualche mese (tre mesi?) una compressa di Maveral, uno dei primi farmaci ad agire sulla serotonina con azione antidepressiva, un parente stretto del Prozac, aveva iniziato non solo a rallentare il suo movimento, un po’ come è successo a voi, ma anche “a non stare ferma”, a dondolarsi di continuo sulle gambe, a sentirsi “ansiosa dentro”, ad alzarsi e sedersi dalla poltrona senza sosta per ore. Stavolta era in campo un medico di fiducia maschio, abbastanza testardo nell’insistere su quel farmaco e che con tutta evidenza non capiva molto di parkinsonismo e, soprattutto, di acatisia. Si chiama così quella condizione (qui) in Perlungavita.it
Solita procedura di lenta sospensione, qualche blanda benzodiazepina, e nuovamente il miracolo. Anche stavolta con dissolvimento della depressione, come se lo stress della sofferenza provata per mesi e l’essere tornata a vivere in condizioni migliori avesse “vaccinato” la cognata.
Vado ai giorni nostri.
Apparentemente incolpevole (“che vuoi che facciano due bustine al giorno contro certe difficoltà digestive!”), il Suo Geffer contiene Metoclopramide, ovvero il più famoso Plasil, che è un “derivato” di quello scaffale che comprende i suoi fratelli antipsicotici, come l’Aloperidolo.
Non ho notizie della reazione della Sua dottoressa alla buona novella della Sua guarigione. Nel gennaio del 2020, l’ultima volta in cui ci siamo visti in presenza, mi aveva detto che andava in pensione e che avreste finalmente cambiato medico di famiglia.
Si avvicina il 25 novembre, si tornerà a discutere di femminicidio violento, il fenomeno non è regredito, anzi.
Non si parlerà certamente del femminicidio nascosto, colpevolmente sottovalutato e taciuto da sempre, quello che capita alle “vecchie” per responsabilità di alcuni farmaci assunti in maniera inappropriata. È un argomento complesso, indiscutibilmente, con tutte quei nomi da imparare, con le innumerevoli controindicazioni e avvertenze da conoscere e studiare sui bugiardini.
“C’è pure scritto: in caso di… rivolgiti al tuo medico o al farmacista di fiducia. Perché allora dobbiamo preoccuparci noi semplici cittadini?”
Un pieno di ipocrisia, un passaggio di patata bollente da una mano atterrita all’altra: davvero si può pensare, oggi, che i medici o i farmacisti possano sapere “tutto” di questa fantasmagorica e complessa attrezzatura di molecole che la scienza ci ha fornito negli ultimi decenni?