Era proprio necessaria la pandemia da Coronavirus per comprendere il significato di parole come esclusione, separazione, confinamento, sequestro?
Mi chiedo con una amarezza che mi avvolge al punto da crearmi un dolore fisico di cui non so descrivere le caratteristiche.
Una generazione di vecchi se ne è andata via in un silenzio assordante, ora è la volta dei cosiddetti anziani giovani, della fascia di età dove rientro anch’io, domani chissà.
Al momento ho l’impressione che si sia imparato ben poco o, forse, quel poco che è parso evidente agli occhi di tanti, si scontra con gli interessi di coloro che avevano investito molto su quella segregazione (ecco un’altra parola da abolire) che, a mio parere, è il maggior danno della società intera.
È il pensiero, l’idea che si possano affrontare e ancor peggio risolvere i problemi separando gli uni dagli altri, che proprio non posso sopportare. Di esempi ce ne sono tanti e non c’è bisogno di ricordarli, considerato che hanno macchiato indelebilmente l’animo umano.
Oggi è la volta di separare le persone con tampone negativo al virus Sars- Cov-2 da quelle positive o dubbie o che possono diventarlo. Poco importa se la persona è affetta da altre malattie che si riacutizzano concomitantemente o da traumi: il tampone molecolare, a volte è sufficiente anche l’antigenico rapido, è l’unico parametro a fare la differenza destinando l’uno o l’altro ad un percorso diversificato.
Non fraintendetemi, comprendo bene l’importanza di evitare la diffusione del virus e gli sforzi effettuati per isolare gli infettati nel tentativo di curare al meglio e in fretta più persone possibili, comprendo gli errori, le omissioni, le difficoltà di gestione che hanno coinvolto l’intero pianeta, ma oggi, a distanza di un anno, credo che sia doveroso guardare in faccia la realtà e interrogarci sul perché in Italia oltre 100000 persone, la cui età mediana è 81 anni, siano morte per o col Covid.
L’Epicentro dell’Istituto Superiore di Sanità, dopo l’analisi delle cartelle cliniche dei deceduti pone l’accento sulle patologie preesistenti, in primo l’ipertensione arteriosa, la cardiopatia ischemica, lo scompenso cardiaco, la demenza, il cancro attivo e così via. Valuta anche le cause di ospedalizzazione di coloro che non ce l’hanno fatta: in oltre il 90% dei ricoveri erano menzionate condizioni o sintomi compatibili con Sars – Cov- 2, cita testualmente il rapporto. Le tabelle riportano le complicanze, le terapie usate, i tempi di ospedalizzazione, il confronto nei diversi mesi, dati interessanti, indubbiamente, per capire il da farsi e correggere il tiro se è il caso.
Io, invece, dal mio piccolo osservatorio di un Centro post acuti Covid di cui sono responsabile sanitario che ha visto ad oggi un migliaio di pazienti , prevalentemente anziani di cui oltre 800 definiti “a media intensità di cure”, pongo l’accento sul percorso di ognuno di loro e giungo a considerazioni che si discostano non poco da quelle ben più autorevoli declamate dai media quotidianamente.
È difficile tradurre in numeri o grafici i fattori psicologici conseguenti all’isolamento, all’allettamento protratto, non ultimo alla deprivazione dagli affetti, fattori fondamentali affinché ogni individuo possa affrontare al meglio le malattie, per cui vi racconterò alcune delle innumerevoli storie che ho potuto vivere in questo anno di pandemia, lasciandovi liberi di trarre le vostre considerazioni.
Andreina, 100 anni compiuti, una vecchina ancora attiva e capace di percorrere a piedi più di un km di strada, scale comprese, dopo un accesso al Pronto Soccorso per un fatto intercorrente apparentemente non grave e il riscontro di tampone positivo, è stata ricoverata in un reparto Covid dell’Ospedale nell’ASL di appartenenza. Non entro nei dettagli perché la sua storia è pubblicata online sul sito di Slow Medicine al quale rimando (Storie Slow – Dall’ideologia alla corsia- L’incantesimo della parola) ma arrivo direttamente all’amara conclusione. Dopo il ricovero, per un periodo peraltro nemmeno troppo lungo come spesso succede, si avvilisce, non mangia più, nessuno l’aiuta a scendere dal letto, ma nonostante tutto guarisce dall’evento acuto iniziale. Persiste però la positività del tampone e viene trasferita d’ufficio nel Centro da me diretto a 90 km di distanza, dove, comprendendo le sue esigenze, riusciamo a riabilitarla ma, ahimè, proprio quando si è ottenuto il primo tampone negativo, viene colta da un ictus cerebri che le toglie l’uso della parola e la capacità di muoversi. Verrà lo stesso trasferita presso il luogo di residenza, con la collaborazione di chi ha a cuore il malato e non la malattia, superando una serie infinita di ostacoli burocratici, solo per permettere ai familiari almeno di vederla attraverso un vetro. Qui il tempo ci è sfuggito di mano e io mi chiedo: Andreina è morta di Covid (per o con ha poca importanza) o per un percorso non consono ad una centenaria, spostata di qua e di là, come fosse un pacco postale di cui non si conosce bene l’indirizzo del destinatario?
E così Lidia, di poco più di 70 anni che, essendo sola in quanto l’unico figlio risiede in un’altra città, ha scelto di vivere in una comunità alloggio per anziani autosufficienti dove viene infettata dal virus. La situazione appare subito critica, indispensabile il ricovero in terapia sub intensiva e, a breve, persino l’intubazione oro-tracheale per permetterle di respirare, ma la rianimazione non è attrezzata per i positivi per cui viene trasferita nell’Ospedale di un’altra città distante 120 km. Rimane intubata per un lungo periodo, in cui si susseguono l’uno dopo l’altro una serie di complicazione infettive, ma ce la fa, riescono a stubarla pur rimanendo la tracheotomia e la necessità di ossigeno. Nel frattempo si ottengono due tamponi negativi che sanciscono la guarigione virologica dall’infezione Sars- Cov- 2 e Lidia può fare ritorno nella Unità di terapia intensiva Covid-free della sua zona, dove approntano una PEG per alimentarla. Ma, ahimè, il controllo del tampone, effettuato dopo pochi giorni, risulta di nuovo positivo e così viene trasferita nel Centro post-acuti in condizioni ritenute stabili, ma con uno schema farmacologico talmente complesso da non riuscire a raccoglierlo in una sola schermata del pc.
Cos’altro potevano fare i colleghi rianimatori? Concordo sulla stabilità della patologia Covid correlata, a parte la fluttuazione dei tamponi alla quale siamo abituati e ormai non facciamo più alcun affidamento, ma non certo sulla stabilità delle malattie preesistenti, a partire da una funzione tiroidea fuori controllo, dalle infezioni ancora in atto, dall’anemia che ha richiesto emotrasfusioni, solo per citarne alcune. Lidia è vigile, non può parlare, ma, con il solo sguardo, trasmette tutta la sua sofferenza e sembra volerci dire che non ha più intenzione di andare avanti, in quel modo. Accenna un sorriso nel momento in cui Lorenzo, il più giovane medico del Centro, le parla del figlio e le promette che lo avremmo fatto entrare considerato che erano circa 3 mesi che non si potevano né vedere né sentire. E così avviene: il figlio si precipita all’alba della mattina seguente, ma Lidia se ne è già andata in silenzio, nella notte, senza il minimo cenno ad alcun cambiamento della sua situazione clinica definita stabile. Mi frullano in testa domande angoscianti, ma di una cosa sono certa, che, ancora una volta, il tempo, ci sia sfuggito di mano. E il tempo, nelle situazioni di emergenza, è vita.
Anche la storia di Adriana ha purtroppo un triste epilogo, dopo un lungo periodo di agonia.
Adriana è un’anziana signora, con alcuni problemi fisici ed un iniziale decadimento cognitivo che, nonostante l’autonomia limitata, vive serenamente con il marito al proprio domicilio, assistita da una badante e rallegrata dalla compagnia della figlia, molto presente nella sua vita affettiva. Cade in casa, viene condotta in Pronto Soccorso, per gli accertamenti, il tampone è negativo, poi si positivizza, viene ricoverata nel reparto di Geriatria Covid, non si alimenta, non beve, si disidrata, le infondono liquidi attraverso accessi vascolari periferici che continua a rimuoversi per cui reperiscono una vena centrale e attraverso questa l’alimentano. Quando decidono di trasferirla nel Centro post-acuti per la persistente positività del tampone, viene definita dai colleghi una malata terminale, nonostante gli esami laboratoristici evidenzino che il sodio ematico è rientrato nei limiti della norma e pertanto che la terapia reidratante è stata corretta. Adriana è stesa nel letto, non parla, non risponde, non reagisce nemmeno alle stimolazioni più intense, come a dire che non ha più voglia di vivere o forse si è semplicemente dimenticata di essere al mondo. Continuiamo a idratarla e sostenerla con le flebo ma, dai oggi, dai domani, non troviamo più vene accessibili, o sono ostruite o si rompono al minimo contatto con l’ago. Non ci resta che provare il tutto e per tutto: alzarla di peso e sistemarla in poltrona nella speranza che reagisca e si ricordi di essere viva. Lisa, la fisioterapista, con la sua voce possente che viene dal cuore, riesce a stabilire un contatto: risponde, si arrabbia persino, in un primo momento, ma apre gli occhi e pronuncia il suo nome. Nei giorni successivi migliora, mangia qualcosa, imboccata, mentre i tamponi sanciscono la guarigione virologica da un’infezione che non ha dato altro segno se non la positività del tampone. Ma il miracolo dura poco, ci sono le festività di Natale, il personale è ridotto, soprattutto mancano i fisioterapisti, nel Centro sono presenti oltre 60 pazienti ed è pressoché impossibile mobilizzarli tutti. Bastano pochi giorni che Adriana perde ogni motivazione, si lascia andare ed a breve si spegne. Non saprà mai che il marito è morto di Covid, ma sicuramente si è accorta che la figlia le è stata accanto nelle ultime ore di vita perché le stringeva la mano come a dire, perdonami, ma è giunta la mia ora, lasciami andare in pace. Ancora una volta lo scorrere inesorabile del tempo è stato il nostro nemico.
Potrei raccontarvi altre innumerevoli storie che ci ricordano come, in emergenza e urgenza, sono fondamentali due elementi: la tempestività e l’essenzialità, entrambi purtroppo difficili da attuarsi in un contesto come quello che stiamo vivendo per l’incapacità dell’organizzazione, definita da norme rigide e inconfutabili, di quella flessibilità necessaria per fare la cosa giusta, nel modo giusto e al momento giusto: quella che in parole più tecniche si chiama appropriatezza.
Dal mio piccolo osservatorio, ho provato ad analizzare la tipologia dei pazienti ricoverati in una giornata tipo, il 15 gennaio 2021, nel Centro post –acuti Covid a media intensità di cure ed i dati ottenuti hanno confermato che in non pochi casi, il Covid, di per sé, è il minore dei mali.
Su 63 pazienti presenti, di età media 82 anni, N. 29 (46%) erano autonomi precedentemente il ricovero, N.26, pari al 41%, vivevano al proprio domicilio con assistenza e solo 8 (12,7%) erano istituzionalizzati. La maggior parte (84%) proveniva dagli ospedali di tutta la Regione con prevalenza di quelli del capoluogo. Quello che è più sorprendente e deve far riflettere è che le cause che hanno condotto all’accesso in Ospedale non erano correlate al Covid in oltre l’81% dei casi, tra queste le fratture traumatiche erano prioritarie rispetto a eventi correlabili alle patologie preesistenti. E ancora un dato interessante relativo alla gravità dell’infezione è che il 46% dei pazienti con persistente tampone positivo era del tutto asintomatico, il 17,4% presentava una sintomatologia lieve e solo nel 36,5% era stata diagnosticata una polmonite interstiziale con insufficienza respiratoria di entità variabile.
Da ciò si evince che la necessità di iniziare tempestivamente un programma riabilitativo finalizzato al recupero dell’autonomia precedente l’ospedalizzazione, non sia un optional, ma un dovere istituzionale al quale non possiamo in alcun modo sottrarci. Senza considerare che coloro che ottengono la guarigione virologica prima che possa essere completato il percorso riabilitativo e che, nel contempo, non possono rientrare al proprio domicilio, devono essere trasferiti in altre sedi Covid-free dove, per disposizioni normative, devono stazionare per una settimana o anche due (la prudenza non è mai troppo) nei locali cosiddetti “buffer” in attesa della conferma della negatività del tampone. Una assurdità concettuale, prevista per ridurre la spesa sanitaria, che comporta conseguenze non di rado drammatiche per i pazienti che si trovano ad essere sballottati da un posto all’altro, in balia di altri volti sconosciuti, costretti a ritardare e/o interrompere il programma di recupero funzionale, sia motorio che psichico.
E già, la separazione è dettata, in primo, dal tampone molecolare: tutto il resto passa in secondo piano.
Non sono una economista ma mi verrebbe da dire, ricordando il grande Domenighetti, che il recupero dell’autonomia di una persona valga ben di più dei pochi euro di differenza tra il costo giornaliero di una struttura Covid e quelle no, dimenticando, ingenuamente, che i posti letto “sporchi” sono pagati dalla società, mentre quelli “puliti” sono a carico del paziente.
Mi fermo qui, ma ho molto ancora da raccontare, su questa strana esperienza che dura ormai da un anno e che non accenna a fermarsi, anche se sembra mutare nel tempo, di volta in volta.
C’è un aspetto comune che è predominante e presente in ogni essere umano, con mente lucida o deteriorata che sia: la necessità di essere ascoltato, considerato, visto, di intrecciare relazioni, di essere compreso nelle scelte e libero di decidere. Se poi chi si prende cura ha il volto coperto da maschera e visiera, poco importa, a questo ci si abitua, è però essenziale non sentirsi abbandonato e privato di ogni speranza.
Quindi, è il caso di dire: mai più separati!
Mai più separati
- Autore/rice Rosanna Vagge
- Categoria: Salute, Benessere, Scelte individuali