L’intelligenza artificiale (IA) sta cambiando il paradigma culturale della medicina, i modelli algoritmici sono sempre più in grado di fornire risposte clinicamente importanti, soprattutto in contesti ad elevata complessità.
L’ambito della palliazione rappresenta un setting ottimale per l’implementazione di strumenti finalizzati a migliorare la condivisione delle scelte assistenziali e la relazione di cura tra medico, paziente e familiari. Le tecniche del cosiddetto machine learning possono stabilire una prognosi in maniera sempre più accurata e identificare i pazienti a maggiore rischio di declino funzionale o di mortalità a breve termine. Tecniche di natural language processing possono inoltre analizzare il linguaggio non strutturato, ad esempio le note cliniche inserite in cartella e i testi liberi, per identificare con maggiore efficacia i bisogni dei pazienti complessi.
Il livello di accuratezza non è peraltro sempre ottimale per cui rimane un’ampia dimensione di incertezza (1). Per esempio, una sopravvivenza media di 6 mesi può significare che qualcuno vivrà poche settimane, qualcun altro anni.
Tali strumenti, nonostante i limiti metodologici, che molto probabilmente verranno superati nei prossimi anni, sono già sul mercato e utilizzati anche come strumenti di gestione ospedaliera per ottimizzare le risorse, non sempre ad esclusivo vantaggio dei malati.
Riteniamo utile una riflessione sullo sfondo concettuale, sulla cornice relazionale e contestuale nella quale gli strumenti predittivo potrebbero essere utilizzati (2).
Il malato in fase avanzata e i familiari
Il tempo della comunicazione fra medico e paziente, secondo la legge 219/2017, è considerato tempo di cura, fondamentale per consentire al paziente di compiere scelte decisionali in condizioni non ancora compromesse dall’avanzare della malattia. Quello di essere informato è infatti un diritto primario del paziente, per riorganizzare la propria vita, dare il consenso alle cure, provvedere agli interessi morali ed economici propri e della famiglia (3).
La condivisione delle decisioni è uno strumento relazionale essenziale, basato sul confronto tra un esperto di conoscenze scientifiche (il medico) e un esperto della conoscenza di sé stesso (il paziente). Solo da tale confronto negoziale può derivare una decisione clinica condivisa, che non si deve basare né esclusivamente sui dati scientifici, spesso peraltro non disponibili, né sulla sola percezione soggettiva del paziente.
Soprattutto Il medico di medicina generale (MMG) ha un rapporto di fiducia con il malato maturato nel tempo, attraverso la continuità dell’assistenza (“tutto l’arco della vita”), conosce la capacità di adattamento del paziente (“coping”) e può identificare i bisogni e le soluzioni di volta in volta necessarie, con una visione multidisciplinare che utilizza competenze su vari piani, modulando le proprie funzioni e delegando su problemi specifici.
Il MMG conosce le dinamiche familiari e si prende cura di tutta la cosiddetta famiglia di curanti, intesa come l’insieme di familiari, parenti meno stretti, badanti, operatori sanitari non medici, consulenti profani che svolgono un ruolo determinante per l’assistenza del malato in fase avanzata. Il curante ha bisogno di loro per l’assistenza, le terapie, il sostegno al malato. Essi a loro volta esercitano una funzione di sorveglianza e condizionamento, con il rischio di possibili pressioni e invadenze. Nei confronti dei familiari, spesso suoi assistiti, il MMG ha inoltre dovere di cura nelle frequenti condizioni di stress, ansia, depressione. Il suo ruolo non finisce inoltre con la morte del paziente ma si estende alla prevenzione e alla cura delle patologie del lutto.
Informare i pazienti e i familiari sulla prognosi negativa significa esercitare al meglio la propria professionalità per “pesare” con attenzione la quantità e qualità di informazione da fornire, utilizzando un linguaggio comprensibile ed un approccio interattivo, per ottenere una conoscenza condivisa del problema e un impegno adeguato e responsabile da parte di tutti. La comunicazione può avere infatti un impatto devastante, sia per il diretto interessato, sia per i suoi cari. Come afferma Giuseppe Remuzzi “la verità può far male, ma il modo di dirla non deve far male per forza”(4).
Nell’ambito delle cure palliative tale negoziazione è particolarmente complessa, è infatti intenso il coinvolgimento emotivo, i disturbi spesso nosograficamente inusuali e compresenti, taluni inevitabili, è inoltre frequente il rapido peggioramento. Molto spesso il MMG si chiede se si sta rischiando l’accanimento palliativo (“la fuga nella tecnica”) e per chi è in realtà la terapia in certi momenti: per il paziente, per i familiari, per sé stesso?
Da sempre esiste il conflitto tra dire e non dire (5,6), soprattutto su “quando, quanto e come” dire. In generale la verità deve essere comunicata a chi lo chiede o quando è comunque necessario, ad esempio per evitare fraintendimenti in grado di condizionare il processo assistenziale. Gli effetti e la portata devono essere dilazionati e circoscritti, in modo da lasciare spazio ad altre autonome e competitive costruzioni del paziente che, anche se deboli sul piano scientifico e giudicabili a volte irrazionali, sono in realtà spesso utili come strategie di coping (7).
Alcune persone vogliono la verità, altre vogliono sentirsi dire che guariranno anche quando lo stadio della malattia è molto avanzato. Esiste una letteratura molto vasta, con opinioni contrastanti, frutto di contesti culturali diversi, anche se attualmente prevale la tendenza a dire la verità, talvolta con decisione, anche per motivi medico-legali. L’articolo 30 del codice deontologico peraltro tutela espressamente il rispetto della documentata volontà dell’assistito di non essere informato o di delegare ad un altro soggetto l’informazione.
Le perplessità del medico a dire la verità sono molteplici (vedi tabella 1).
Il concetto di verità inoltre non è assoluto, esistono diverse verità: del medico, del paziente, dei familiari, biologica, esistenziale…. La stessa verità scientifica è tale solo all’interno di un sistema di riferimento autoreferenziale, che tende a scotomizzare le variabili soggettive e di contesto. La diagnosi, verità per antonomasia per il medico, è solo UNA verità, non essendo in grado di descrivere il vissuto del paziente. Si deve quindi offrire al paziente la possibilità di fare domande e di esprimere le proprie preoccupazioni, per ricevere i necessari chiarimenti e contemporaneamente graduare le successive informazioni.
Spesso i pazienti temono non tanto il possibile esito infausto quanto il difficile percorso che sta per iniziare, il “come” morire più della morte stessa (8). La qualità di vita spesso conta più della quantità. Il medico deve quindi a sua volta porre domande, con sensibilità ed attenzione, cercare di comprendere le loro priorità, altrimenti la cura non è allineata ai veri bisogni. Medico e paziente devono trovarsi sulla stessa lunghezza d’onda, per realizzare il cosiddetto aligning, allineamento, definito da Maynard come processo mediante il quale vengono messe a fuoco le informazioni a partire da quanto il paziente già conosce.
Nella tabella 2 sono elencate alcune domande suggerite dal celebre chirurgo statunitense di origine indiana Atul Gawande in una lecture al congresso annuale della American Society of Clinical Oncology (9).
I malati hanno spesso paura di trovarsi soli, di perdere l’identità (“disintegrazione”), di morire soffrendo, soffocati, di perdere il controllo, di essere di peso alla famiglia. In maniera speculare, la “buona morte” significa adeguato controllo del dolore e dei sintomi, astensione dall’accanimento terapeutico, aiuto per alleviare il carico dei familiari, mantenimento del controllo per lasciare un “ultimo ricordo di sé”, rafforzamento dei legami con le persone care (10).
I familiari richiedono informazioni comprensibili sulla importanza dei sintomi, su come assistere il malato, sui servizi sanitari disponibili. Vogliono conoscere la possibile modalità di morte (“come mi accorgo che è morto?”), come riconoscerne l’imminenza, a chi rivolgersi in caso di emergenza (“se è notte, chi chiamo ?”) (11). Chiedono la prognosi probabile: “quanto vivrà ancora”, a volte con angoscia, a volte con auspici di liberazione, spesso percepiti con senso di colpa. Richiedono infine sostegno pratico e domestico, burocratico e amministrativo, psicosociale, economico, spirituale.
La pianificazione anticipata delle cure, idealmente concordata tra curante, paziente e specialista, dovrebbe essere anticipata al malato a grandi linee e formulata presentando le reali possibilità terapeutiche, il rapporto tra rischi e benefici e le incertezze, inevitabili nella pratica della medicina, anche tenendo conto degli oggettivi limiti predittivi del singolo caso. Quando le prospettive realistiche di evoluzione favorevole sono oggettivamente poco credibili, si deve comunque assicurare ogni sforzo per conservare qualche elemento di speranza e comunque garantire un buon controllo della sofferenza (12).
In generale la stima della aspettativa di vita tende alla sopravvalutazione, indipendentemente dal tipo di patologia e dall’abilità/esperienza del medico, anche se sono descritte possibili traiettorie di malattia (13), che tentano di descriverne l’evoluzione. Alcune possibili cause della sopravvalutazione sono la non risoluzione personale del problema da parte del medico e l’atteggiamento di protezione nei confronti del paziente.
I modelli predittivi della IA potranno in futuro aiutare a definire meglio una verità prognostica, ma nel singolo individuo rimane, almeno per ora, un ampio margine di incertezza. È pertanto necessario, e lo sarà sempre, un atteggiamento positivo, evitando di considerare passivamente e fatalisticamente la condizione del malato. Si devono fornire informazioni generiche, evitare previsioni specifiche e indicazioni temporali precise, anche quando fossero disponibili accurate. Il rischio è infatti la sensazione di inganno, di delusione ma anche di “lutto anticipatorio protratto”.
L’attenzione deve essere concentrata su problemi concreti, a breve termine, valorizzare punti di forza, capacità dimostrate in passato, trattare eventuali sintomi psichici, spesso sottovalutati in quanto considerati risposte fisiologiche e accettare il modello di malattia che il paziente costruisce nella sua fantasia, compresa la negazione dell’evidenza.
La morte e il morire
“Infermità, malattie ma anche la morte sono considerati incidenti biologici, evitabili, temporanei anacronismi lungo il regale percorso del progresso medico”. D. Callahan
Per l’uomo contemporaneo la morte è “nascosta”, “proibita”, “o-scena”, nel senso di fuori scena. Secondo P. Ariès, storico francese, il mondo occidentale è andato incontro ad un processo di progressiva “negazione della morte”: in passato la morte era” addomesticata”, di casa, naturale, condivisa nel contesto di vita, conclusione inevitabile del vivere e componente naturale della vita (13).
Nel contesto culturale attuale risulta impossibile parlarne: la morte è l’argomento tabù per eccellenza in una società tutta protesa a negarne l’esistenza e ad affermare il valore della energia fisica e dell’immortalità. Essa non è più considerata un evento puntuale, spesso improvviso, imprevedibile, ma un processo, gestibile dalla sanità, un nemico da combattere, ritardabile, modulabile, con modalità che spesso finiscono per diventare accanimento terapeutico.
Le reti protettive che un tempo accoglievano il morente, la famiglia numerosa, la comunità, il conforto della fede, sono venute progressivamente meno. La morte è stata delegata alla medicina, l’esperienza della fine ha una risposta tecnica ed espropriatrice, che può essere ulteriormente accentuata quando fossero diffusi e facilmente disponibili, anche nella pratica quotidiana, modelli predittivi in gradi di tradurre la sofferenza in dati matematici e di frapporsi nella gestione della esperienza più angosciante dell’uomo.
Il vissuto del medico
Il medico è anch’egli partecipe di questa visione culturale e il suo coinvolgimento, nonostante la tecnologia, ha un costo emotivo alto, modulato in funzione della soggettiva tolleranza verso l’incertezza, della capacità di elaborare la sofferenza, della diversa accettazione dei limiti, personali e in generale della professione.
Il medico si confronta inevitabilmente con la propria capacità di affrontare concettualmente la propria morte, una entità “irrappresentabile”, perché di fronte a tale pensiero ciascun uomo diventa ogni volta spettatore di una immaginazione impossibile.
Chi vive la propria morte come un tabù non può affrontare in maniera professionale quella di un malato terminale. Allo stesso modo, il curante che si sente “onnipotente” non può familiarizzare con la morte, perché la percepisce come un nemico da sconfiggere e ciò può generare un senso di disfatta, impotenza. Tale avversione, cognitivamente negata, si può esprimere spesso attraverso l’occultamento della verità o tramite l’incapacità o il disagio nella comunicazione.
Ci sono situazioni invece nelle quali la morte diventa non più un nemico da affrontare e battere ma un elemento di libertà, una affermazione di volontà del paziente che non ammette sotterfugi e mezze verità ma viene rivendicata lasciando il medico spiazzato e sconcertato.
I vissuti personali del medico possono associarsi a pensieri, emozioni condivise con il paziente, al ricordo di memorie sopite. Mettersi a confronto con i propri sentimenti, le proprie paure, può servire a conoscere meglio il proprio modo di agire e quindi a modificarlo, per trovare le giuste distanze e costruire relazioni terapeutiche più partecipi (14).
La non considerazione dei propri vissuti personali da parte del medico può indicare un utilizzo inconsapevole di meccanismi di difesa, con possibili distorsioni nella percezione della relazione che, a lungo termine, possono contribuire allo sviluppo di fenomeni di “burn out” da assuefazione affettiva.
La scomparsa di malati così impegnativi e così poco “gratificanti” sul piano clinico può far provare al medico sentimenti di sollievo che provocano sensi di colpa, anche non espressi e percepiti consapevolmente.
Riflessioni conclusive
La comunicazione della prognosi nei malati gravi è da sempre un tema molto complesso: il tempo che rimane. chi può dirlo? Come si fa ad esserne sicuri nel singolo paziente? Quando parlarne? Le conseguenze della mancata informazione possono essere il ritardo nell’organizzazione delle cure palliative, la mancata preparazione emotiva al reciproco distacco con i familiari, la frettolosità nell’espressione delle ultime volontà.
Il miglioramento delle capacità predittive potrà permettere un potenziamento delle capacità prognostiche e anche una più accurata identificazione dei bisogni più complessi, spesso occulti, quelli che nemmeno il MMG, che ha costruito una storia a volte decennale con il paziente, è in grado di aspettarsi.
Il rischio è che non solo la morte stessa e il morire siano ormai di pertinenza della medicina, ma possano diventarlo anche i sentimenti delle persone, ad esempio il desiderio di mantenere nascoste certe verità, ai familiari e anche al medico, segreti che un impersonale calcolatore digitale potrebbe far emergere. Inoltre, anche se fossero disponibili score algoritmici precisi e affidabili, rimane il problema di sempre: dirlo o non dirlo?
Si rischia un riduzionismo perverso: la relazione medico-paziente, sfumata, fondata sul non detto, sull’implicito, su complicità e sguardi, può finire per essere guidata dalle macchine, i pazienti diventare entità classificate secondo codici prognostici, più o meno affidabili (e più o meno rimborsabili), titolari di interventi basati su fredde analisi costi-benefici ma non su una reale presa in carico per garantire una morte dignitosa. La stessa speranza potrebbe essere perduta su basi scientifiche. Il medico, conoscendo i dati sicuri sulla prognosi, anche involontariamente potrebbe comunicare al malato una verità che altrimenti avrebbe potuto celare con maggiore facilità a causa dell’incertezza delle modalità tradizionali di assessment.
I dati peraltro, anche quelli scientifici, non sono valori, qualunque intervento basato su di essi deve essere dotato di senso. I modelli predittivi potranno pertanto essere utili ma solo come strumento complementare e soprattutto opzionale per il medico, uno dei parametri di cui valutare l’utilità nelle diverse situazioni specifiche.
La premessa per il loro utilizzo è una accurata supervisione umana, di alta qualità, emergente da una sensibilizzazione alla comunicazione orientata ai bisogni dei malati e delle loro famiglie, per evitare di trasformare la fase terminale della vita in materiale per previsioni più o meno centrate, aggiungendo alle già consolidate tipologie di accanimento, diagnostico, terapeutico e palliativo, quello prognostico.
Bibliografia
1) Topol E. High-performance medicine: the convergence of human and artificial intelligence. Nature Medicine 2019; 25: 44-56
2) Marin M. Come comunicare una diagnosi grave. M.D. Medicinae Doctor 1996; 21: 16
3) Remuzzi G. La scelta. Perché è importante decidere come vorremmo morire. Sperling & Kupfer, 2015
4) Yourcenar M. Memorie di Adriano. Torino: Einaudi, 1988
5) Panti A. Il cittadino e la prognosi infausta. Informare o dissimulare? Toscana Medica, 1998
6) Longoni P, Pagliani S. La linea che guida il colloquio con chi è grave, congiunge verità e pietà. Occhio Clinico 2004; 7: 24-26
7) Rabow MW et al. Serving Patients Who May Die Soon and Their Families. JAMA. 2001;286(11):1377. doi:10.1001/jama.286.11.1377
8) Editoriale. La qualità di vita conta più della qualità della vita. Recenti Prog Med 2019; 110: 269-270
9) Ganzini L, Block S. Physician-Assisted Death — A Last Resort? N Engl J Med 2002; 346:1663-1665 DOI: 10.1056/NEJM200205233462113
10) Ramirez A et al. ABC of palliative care: The carers. BMJ 1998;316:208-11
11) Di Diodoro D. Cattive notizie ma con dolcezza. Occhio Clinico 1997; 4: 26
12) Scott A Murray et al. BMJ 2005;330:1007-1011
13) Ariès P, Storia della morte in occidente, 1978
14) Simionato C. Raccontare il cancro per dargli un senso. Janus 2006; 22: 76-78