Fantastica Wendy Mitchell ospite a Pinerolo al convegno ECM della Comunità Valdese XSONE e la sera prima in una bella sala strapiena del municipio. Insieme a Marcello Galetti e ai suoi collaboratori, a Eloisa Stella di Novilunio.net (insostituibile presenza: ha svolto benissimo anche l’oneroso compito di far da traduttrice) avevamo preparato delle domande alle quali Wendy ha risposto puntualmente consentendoci di allargare lo sguardo e la nostra curiosità su ulteriori aspetti attraverso la sua esperienza.
Wendy Mitchell è una Persona di 63 che convive con una diagnosi di demenza di Alzheimer dall'età di 58 anni e vive in Gran Bretagna tuttora da sola, mantenendo una necessaria linea di vita dettata dalla routine: le giornate che iniziano con esercizi cognitivi al computer “per svegliarsi”, le faccende di tutti i giorni preservando l’ordine delle cose e tentando di ”mantenere ciò che già si sa”.
Viaggia e spesso lo fa anche da sola, almeno attraverso il suo Paese, aiutandosi con Google Maps ed una APP che la collega alle figlie. Viaggia perché ha sentito la necessità di reagire alla malattia dopo i primi momenti di sconforto, alla comunicazione della diagnosi (“questa è la fine” si è detta) e, successivamente, al suo primo impatto doloroso con un’altra Persona con demenza, il secondo gradino da superare, lo specchio della stessa malattia negli occhi di un altro. Ha reagito passando dalla condizione di donna fino a quel momento riservata e indipendente alla scelta generosa del ruolo di appassionata attivista in Minds and Voices. “In questo gruppo forse non abbiamo altro in comune se non la demenza, e tuttavia si è creata una famiglia. Tra noi ci sentiamo al sicuro…”.
Ha raccontato delle prime avvisaglie e di quando le ha comunicate al medico: “Ma sei troppo giovane per avere questi sintomi” le ha risposto!
Che dire? Una sorta di “ageismo al contrario”! Ne ho una personale esperienza, ci sono venuto a contatto quando ho incrociato le storie di Persone giovani con “demenza impossibile a 50 anni” e ne ho scritto su questo sito di recente raccontando tre storie (qui)
L’ageismo reale è invece l’altro pericolo concreto in questa nostra società giovanilista e drammaticamente impazza in campo medico: si applica, come modalità passiva ipocrita, superficiale, omissiva e comoda a spese degli anziani sulle ali del “è solo vecchio”, aiutata in questo compito malevolo da nichilismo… «non c’è niente da fare» e infine da fatalismo… «rassegnatevi, accettate lo stato delle cose». In questa epoca in cui nascono più vecchi che bambini tale atteggiamento rappresenta una forma di pregiudizio duro da combattere che vanifica gli sforzi di chi invece si impegna con scienza, coraggio e umanità, senza indulgere in atteggiamenti di accanimento e senza omissioni, nella sfida giornaliera del prendersi cura di un anziano.
Il termine è stato coniato nel 1967 da Robert Butler, direttore del National Institute on Aging di Baltimora (USA) per indicare la discriminazione dell’anziano basata semplicemente sul fattore età. Assieme al sessismo e al razzismo è uno dei 3 ismi del nostro tempo, da cui tuttavia differisce perché tutti noi saremo potenzialmente vittime dell’ageismo… se vivremo sufficientemente a lungo!
Nella mia personale lotta contro la zavorra dei luoghi comuni che imperversa tuttora nel territorio delle demenze ho voluto anche chiederle quali fossero stati i suoi sintomi premonitori, quelli che noi clinici chiamiamo, appunto, segni pre-clinici, ovvero quei segnali che si presentano, subdoli e poco conosciuti, prima dei sintomi classici: possono riguardare la cognitività, ma anche l’appetito, il gusto e le scelte alimentari, l’odorato, l’umore e il comportamento (l’apatia è il più frequente disturbo delle demenze e può precedere, appunto di mesi o qualche anno l’insorgenza del quadro clinico), il sonno e la sua complessa architettura, persino il peso corporeo…
Ha risposto raccontando di un episodio che le è accaduto mentre erano in corso i suoi travagliati accertamenti (la certezza, sempre relativa, della diagnosi è arrivata attraverso una SPECT cerebrale): un giorno, in ufficio, ha fatto fatica a ricordarsi dov’era e chi fossero “quelle persone”, i suoi colleghi di lavoro. Dimostra, questo racconto, come spesso sia accidentato il viaggio doloroso e incerto verso una diagnosi. Questo episodio dimostra che le fluttuazioni della componente cognitiva (attenzione, memoria, gnosia, prassia ecc. ecc.) sono una parte integrante in molti casi di demenza, in particolare in quella a corpi di Lewy, e sono presenti sostanzialmente nel decorso di ogni storia di demenza.
Wendy ci ha raccontato anche l’impatto della comunicazione della diagnosi nel proprio ambiente di lavoro: il suo superiore si è nascosto dietro un algido “quanto pensa di poter lavorare ancora qui?”. Fortunatamente, i colleghi di lavoro si sono riuniti e messi al suo fianco, confermando ancora una volta la rilevanza della preziosa rete sociale. Le hanno semplicemente risposto “Siamo con te, organizziamoci, dicci come possiamo aiutarti”.
Alla nostra domanda “Cosa possono fare i servizi per aiutare una persona con demenza e la sua famiglia ad evitare la solitudine?” ci ha raccontato di una signora britannica che si era chiusa in casa e vi è rimasta per dieci anni, “perdendo ovviamente punti sotto il profilo cognitivo e non” perché, lo sappiamo da tempo, la solitudine è un fattore di rischio di demenza ma anche una conseguenza provocata dal disagio della malattia, e rappresenta sicuramente un elemento peggiorativo nel decorso della malattia stessa poiché priva chi ne è vittima (e la sua famiglia!) di quei ”piccoli guadagni”, apparentemente minuscoli e invece di notevole spessore e di conforto psicologico, che sono necessari al mantenimento di numerose capacità cognitive attraverso i contatti e gli stimoli sociali.
Questo è il logo del convegno (esplicito, no?) che ho organizzato a Udine nel novembre 2018 per discuterne in occasione della prima Giornata Nazionale Contro la Solitudine indetta da Marco Trabucchi e Diego De Leo. Ne ho scritto su PLV (qui e qui) .
Wendy ha aggiunto che nella zona in cui vive i servizi sono carenti per le persone “giovani” come lei: “Aspetto di compiere 65 anni per avere maggiori aiuti”. Quante sollecitazioni da queste sue parole! Insomma, combattere con una demenza da giovani non consente grandi aiuti da parte dei servizi…
A questo punto devo nuovamente sottolineare l’impegno brillante di Eloisa Stella nel campo psicosociale delle demenze e citare il suo resoconto del discorso di un’altra “giovane” con demenza, Kate Swaffer, Co-fondatrice e CEO di Dementia Alliance International (DAI).
Kate ha ricevuto la sua diagnosi di demenza nel 2008. All’epoca aveva poco meno di 50 anni.
Il discorso integrale di Kate Swaffer presentato a Milano nel settembre 2018 nel corso del convegno annuale della Federazione Alzheimer Italia ( a cui si riferisce la foto) può essere letto insieme ad altri utili riferimenti su www.novilunio.net.
Qui mi limito a rubarne qualche tratto che ho trovato terribilmente illuminante.
“Immagino che tra i presenti a questa conferenza di oggi ci siano diverse persone che si stanno chiedendo se ho veramente una demenza…
Per ora, la maggior parte delle mie disabilità cognitive e sensoriali dovute alla demenza sono invisibili; solo i miei amici più cari e i miei familiari sono in grado di cogliere i cambiamenti che vivo. In ogni caso, è difficile capire se una persona ha una demenza esattamente com’è difficile identificare in questa sala chi soffre di malattie cardiache, di diabete o di qualsiasi malattia cronica. Tanto più che non è nemmeno etico fare una diagnosi in pubblico.
Queste dinamiche sono probabilmente dovute al fatto che molti partono dal falso presupposto che le persone con demenza siano tutte uguali…
L’approccio stigmatizzante alla demenza sembra inoltre suggerire che siamo tutti uguali nel modo in cui si presenta la malattia a prescindere dall’età in cui riceviamo la diagnosi…
Ma soprattutto vorrei precisare che nessuno passa improvvisamente dalla fase della diagnosi alle fasi più avanzate di una demenza – specialmente quando si tratta di una diagnosi effettuata in una fase precoce della malattia…
Ai due incontri di Pinerolo è stata presente una delle figlie di Wendy, Sara. Ecco la sua esperienza di caregiver: “Non sostituitevi a loro. Il cappotto, ad esempio, se lo mette da sola e non devo essere io a ricordarglielo o ad aiutarla a indossare. Anche se si allungano i tempi…”.
Con lei si è discusso anche dei cambiamenti negli equilibri e dei ruoli familiari, della necessità di parlarsi. Parlarsi. E su questo aspetto, alla fine, è intervenuta Wendy con un messaggio conclusivo rigoroso e nello stesso tempo tenero e commovente: “In famiglia bisogna parlare ORA delle proprie difficoltà, dei programmi di vita, anche se le opinioni sono diverse. Bisogna parlare ORA per sottoscrivere, infine, i miei desideri per quando non riuscirò a comunicarli ai miei cari”.
Ci ha emozionati profondamente. Un tocco di umanità e di speranza, un segnale di vita che continua a scorrere malgrado la malattia, una finestra spalancata attraverso l'impegno per gli altri, un orto arricchito da interessi da coltivare per evitare di appassire, una battaglia che (in questo istante faccio una enorme fatica ad ammettere che prima o poi andrà persa), comunque, al momento sa di conquista.
N.B. Eloisa Stella col suo prezioso www.novilunio.net segnala tre articoli che ha tradotto dal blog di Wendy negli scorsi anni:
- https://novilunio.net/wendy-mitchell-una-lettera-alle-persone-al-potere/
- https://novilunio.net/diagnosi-di-demenza/
- https://novilunio.net/vivere-bene-con-la-demenza-i-consigli-di-wendy/
L'anno scorso Wendy ha pubblicato la bellissima autobiografia "Somebody I used to know" che Eloisa ha letto ed ha cercato di far tradurre a qualche editore italiano senza purtroppo ottenere alcun risultato…