Quale valore viene dato all’esperienza professionale, magari unita a un perdurante entusiasmo, a una continua e appassionata curiosità scientifica (anche se ora auto-limitata a un ristretto campo della propria specializzazione), al maggior tempo a disposizione da dedicare agli altri, ai propri pazienti?
È il tema che da qualche anno mi perseguita: il pensionamento visto, da altri e non certo da me, come una morte civile e professionale. Una rottamazione che non accetto perché da sempre ho odiato gli sprechi e tanto di più in questa epoca presente dominata dall' usa e getta. Mi ribello.
Vi racconto in breve. Malgrado i consigli di amici e familiari che mi incoraggiavano a godermi la vita, a 54 anni, era il 2000, ho deciso di andare in pensione dopo tre decenni di lavoro ospedaliero e di continuare a impegnarmi sul campo clinico (sociale e umano) che conosco meglio e che ancora mi suscita emozioni. Certo, fuori dall’ospedale è diverso il modo di lavorare, ma è diverso soprattutto per come ti vedono “gli altri” o almeno una parte di questi: gli informatori del farmaco, ad esempio.
Vado al dunque attraverso una lettera gentile giuntami in agosto da un padre impegnato a studiare al fine di poter collaborare coi neurologi che hanno in cura il figlio epilettico con una di quelle forme che si chiamano, fino a prova contraria, farmaco-resistenti, un genitore che si è sentito forse obbligato a difenderlo da una medicina sempre più frettolosa.
"Gentile dottor Schiavo, mi sono permesso di scrivere a un “ onesto artigiano della Neurologia”. Sono il padre di un giovane farmaco resistente – X – che continua ad avere crisi cicliche ogni 15-18 giorni dopo aver cambiato l’ennesimo farmaco. Ci siamo sempre affidati a epilettologi sia di X, che di Z, che ora la pensano in modo diverso sull'introduzione di un nuovo farmaco a quelli che già assume (Lamictal e Depakin) sospendendo il Keppra chi vorrebbe introdurre il Topamax e chi il Vimpat e ancora chi invece vorrebbe semplicemente aumentare il Depakin e altri il Lamictal … mi risulta che la co-somministrazione di due o più antiepilettici ad azione sodio bloccante, come la lamotrigina e la lacosamide, comporti un maggiore rischio di effetti secondari a tale meccanismo d’azione, quali senso di vertigine e disturbi della coordinazione. Comprende quindi il nostro imbarazzo nella scelta della terapia. Le allego una mia ipotesi che, se avrà tempo e voglia di leggerla, e mi farebbe piacere avere un suo illustre parere in merito. Buona giornata A".
L’allegato era ben fatto: l’ho stampato e tenuto con me per consultarlo in caso di necessità, malgrado non sia un epilettologo. Epilettologo, una piccola riflessione: molta gente non conosce esattamente di quali malattie si occupa un neurologo. Pensa che se si vede doppio (diplopia) si debba essere visti sempre da un oculista, se c’é un improvviso problema di forza o sensibilità a un braccio in pieno benessere raramente viene subito in mente un attacco ischemico cerebrale transitorio o ad altra patologia neurologica, e così via. Lo so perché somministro dei piccoli test alle persone che mi vengono a sentire alle università della terza età o luoghi di cultura simili. E comunque, malgrado la ridotta conoscenza del cittadino comune in tema di malattie neurologiche (e geriatriche!) esistono persino delle sotto (o sopra?) specializzazioni neurologiche!
Ho risposto così.
Gentile signor A, proprio perché ero o sono diventato nel tempo un "onesto artigiano della neurologia" devo risponderLe, e con vero dispiacere, che non seguo persone con epilessia soprattutto se complessa, resistente, dall'epoca del mio pensionamento dall'ospedale nel 2000.
Riflettendo, anche prima, in quanto in reparto era stata introdotta già prima del 2000 la "superspecializzazione": oltre che lavorare in corsia, ognuno di noi era diventato responsabile di un ambulatorio dedicato a una delle patologie neurologiche di rilievo. Alcuni colleghi avevano scelto di impegnarsi nelle cefalee, nell’ictus cerebrale, nella sclerosi multipla, nelle malattie muscolari ecc. e almeno quattro, compresi i due "capi", l’ospedaliero e l’universitario, dell'epilessia. Io ho gestito per anni l’ambulatorio "Parkinson" e nel tempo ho ampliato inevitabilmente le mie competenze alle demenze, alla fragilità, alle malattie da farmaci negli anziani (e non anziani).
Mi tocca ammettere però di essere diventato un incompetente parziale in alcune patologie di mia competenza! Cosa voglio dire, precisando i confini della mia incompetenza. Così come avviene per i pazienti con sclerosi multipla e altre serie patologie neurologiche (miastenia, malattie muscolari, polineuropatie ed epilessie farmaco-resistenti, appunto), oramai sono solo in grado di diagnosticarle in un paziente “nuovo” ma non di gestirle per le fasi successive nel contesto del mio studio privato.
Cure in ospedale, in certi casi. Questo fenomeno dell’incompetenza si è accresciuto nel tempo per vari motivi, e uno appare particolarmente comprensibile e rimediabile attraverso un cambiamento di mentalità, non della mia: un motivo deriva dall’uso di diversi farmaci. Alcuni sono costosi e per varie ragioni somministrabili solamente in ospedale (vedi ad esempio quasi tutte le terapie per la sclerosi multipla), gli stessi o altri sono soggetti a un piano terapeutico ottenibile ovviamente solo in strutture pubbliche. Ma c'é un ulteriore aspetto e non é trascurabile: la medicina e l'esperienza coi nuovi farmaci si apprendono certamente dai libri, dalle riviste scientifiche, nei convegni e persino dagli informatori farmaceutici, ma anche dall'esperienza fatta sul campo e dalla collaborazione, unita ancora una volta all'esperienza, dei colleghi che si impegnano e lavorano con te.
Ho sempre amato lavorare con gli altri, ho imparato dai colleghi e da tutte le altre figure professionali che popolano il mondo dell’ospedale, e anche dai familiari e dai pazienti.
Negli ultimi anni, malgrado mi tenga aggiornato tramite il web e le riviste scientifiche, sono andato incontro a un inconveniente che riguarda i nuovi farmaci: l'assenza “fisica” (o chimica?) di campioni di quelli nuovi e nuovissimi per la cura dell'epilessia, persino per le cefalee, e ora anche della malattia di Parkinson, uno dei campi del mio interesse professionale.
I campioni dei farmaci. Da diversi anni, infatti, ricevo la visita di soli tre, forse quattro, informatori del farmaco. A cosa servono i campioni di un farmaco? Ad esempio a “provarlo” su un paziente valutando (mi si perdoni la semplificazione) 1° se è tollerato e 2° se “funziona”.
Un esempio. Prima che entrassero in commercio i generici, ovvero nei dieci anni in cui i prodotti originali hanno vissuto incontrastati, riuscivo con fatica a ottenere alcuni campioni dei farmaci per la cura delle demenze, i noti inibitori delle colinesterasi (rivastigmina, donepezil, galantamina) e la memantina: sono i farmaci “della memoria” che danno benefici per lo più modesti e temporanei e solamente in circa un quarto o un terzo dei casi di demenza di Alzheimer e in quella, terribile, a corpi di Lewy. Il campione serve a capire, gratuitamente per il paziente e la sua famiglia almeno nella fase iniziale, se quel medicamento é tollerato e se “funziona” in qualche modo. Se il paziente é “responder” i familiari possono proseguire la cura acquistandolo in farmacia in attesa di riceverlo gratuitamente (e tempestivamente, è augurabile) attraverso un piano terapeutico compilato dai colleghi responsabili degli ambulatori ex-UVA, ora CDCD nelle strutture pubbliche.
Da pochi anni non posso fare questi esperimenti dettati anche dal buon senso clinico.
Sta accadendo qualcosa del genere con la L-DOPA (Sinemet ecc.): per un lungo periodo c’è stata una carenza di alcuni di questi farmaci ma di recente ho persino finito la scorta che tenevo con me per la perdurante assenza degli informatori delle tre molecole in campo. Uso queste compresse in un piccolo test che consiste semplicemente nel somministrarne una alla Persona con sospetta malattia di Parkinson o parkinsonismo e valutarne dopo 30-60 minuti la risposta clinica: la Persona risponde sotto il profilo motorio o no? Questo test rappresenta un veloce anche se grossolano espediente per capire se mi trovo di fronte ad una “vera” malattia di Parkinson (c’è una risposta motoria quasi sempre) oppure a un parkinsonismo di vario tipo, con esclusione di quello secondario a certi farmaci (la risposta motoria è debole o assente).
Uno di questi giorni andrò in reparto e chiederò a qualche giovane collega di avere pazienza e darmi qualche campione! Andrò a piatire (ho detto sempre pietire, ma era sbagliato!) un blister di Sinemet, qualche cerotto di Rivastigmina, una scatola di Donepezil e una di Memantina…
Mi perdoni il lungo sfogo. Non so come aiutarLa. Posso dirLe che il suo ragionamento scientifico non fa una pecca e che deve insistere su questa strada augurandomi che trovi per Suo figlio un medico esperto, capace di ascoltarLa, di leggere le Sue sacrosante osservazioni, di dedicarLe un po' di tempo in più, pazienza e coraggio... Un abbraccio. Ferdinando"
Riflessioni finali. Da circa venti anni sono iscritto all'Associazione Italiana di Psicogeriatria (AIP): in questa come in altre società scientifiche l'iscrizione a corsi e convegni prevede sconti - e tale attenzione rappresenta un aspetto positivo - per i giovani medici, ma non verso i medici anziani come me, ovvero coloro che stanno sopravvivendo per merito dei processi attuali che portano alla buona vecchiaia e che da professionisti esperti in gerontologia dell’AIP ben conosciamo. Forse, come professionisti vecchi siamo considerati ricchi?
Mancano geriatri, mancano medici con la sensibilità del geriatra, si continua a presumere che le dinamiche di salute (e sociali) degli anziani siano del tutto simili a quelle dei quarantenni. Uno Stato fatto di politici e non di statisti (lo statista programma il futuro, il politico solo l’immediato!) continua ad accettare nei corsi di specializzazione circa 165 geriatri l’anno, mentre i pediatri hanno diritto a 400 posti… in un paese in cui nascono più vecchi che bambini!!!
Anche per questo continuo a lavorare pur amando il tempo libero, il mare, la montagna, il lago e la pianura, il cinema e il teatro, l’arte e le passeggiate, il cibo e gli amici, il tepore degli affetti.
Sarà impossibile che accada in questi tempi di co-co-co e di salti smarriti da un lavoro a un altro, tuttavia necessari per sopravvivere dignitosamente, però… una volta il lavoro era uno e basta: macellaio, infermiere o panettiere, per tutta la vita! Ancora adesso, almeno dalle mie parti nel profondo sud, vengono affissi dei manifesti bianchi coi bordi neri che informano della scomparsa di qualcuno. Sotto il nome può comparire a volte il soprannome e il lavoro svolto, rappresentativo dell’identità sociale che non viene smarrita da pensionato e persino da morto.
Nel manifesto mio, ammesso che lo consenta adesso che sono in vita, potrebbe apparire “Neurologo dei vecchi. Fino all’ultimo”.È la mia vocazione, il mio mestiere, quello che ancora so fare, malgrado tutto, rendendomi utile per gli altri ed anche per me stesso, per non finire come certi pensionati che guardano quelli che lavorano nei piccoli cantieri e cui dedico questo articolo.