(In collaborazione con Claudio Bonivento)
Il 13 marzo 2017 nel quotidiano Il Piccolo di Trieste è comparso questo articolo di Giuseppe Palladini: Trovata morta a 7 mesi dalla scomparsa. Il corpo di Veronica Bencic individuato nei pressi di Re, in Piemonte. Da agosto si era persa ogni traccia dell’ottantatreenne.
Prima di allora, ma anche dopo e persino in questi giorni piovosi di maggio, le persone con problemi di demenza continuano a scomparire. Si perdono a volte in un drammatico istante di giustificabile assenza e disattenzione di chi è preposto alla loro cura e sopravvivenza, altre volte per una possibile e colpevole sottovalutazione da parte di medici sia nella diagnosi che nella esauriente e corretta informazione da fornire a chi gli sta vicino.
Udine, il 22 settembre 2018, al secondo FAR MIND, LA MENTE LONTANA organizzato da noi di Demaison ONLUS, abbiamo commentato alcuni pezzi significativi del film di Pupi Avati “Una sconfinata giovinezza” in un viaggio che è partito dagli inizi subdoli e inquietanti della perdita delle parole, con i “come si dice, come si chiama”, e poi, passando per la diagnosi di demenza, ha percorso le dinamiche della piccola famiglia costituita da lui e lei senza figli e della famiglia di lei, ha attraversato la scelta di amore di un accudimento famigliare, seppur problematico per l’aggravamento e la comparsa dei disturbi del comportamento, fino a giungere al suo amaro epilogo, la scomparsa del protagonista, una sparizione mediata dal suo passato traumatico di orfano dei genitori in età adolescenziale.
Gli SPARITI, forse meglio del termine “scomparsi” che ho usato fino a poco tempo fa, possono allontanarsi per vari motivi. Tra cui, appunto, la presenza di una demenza non diagnosticata, o "non capita" dai medici oppure dagli stessi familiari e dagli amici. Capita spesso in questo territorio della mente, dominato e intralciato da numerosi luoghi comuni e pregiudizi: il primo di questi è costruito su un malefico preconcetto relativo alla terza e quarta età, l'AGEISMO, quel “tanto è vecchio” che tutto giustifica. Anche una mancata diagnosi. Il secondo è favorito dall'idea malsana di "sapere tutto sulle demenze" e che quindi tutte siano "senili" (la demenza senile non esiste) o, bene che vada, tutte "Alzheimer" e che, comunque, abbiano come sintomi basilari l'abusato deficit di memoria per gli avvenimenti recenti.
C’è tanto altro. E di questo bisognerà discutere attraverso un personale Progetto SPARITI, costruendo migliore professionalità sanitaria, fornendo informazione e sostegno ai familiari, allargando le conoscenze dei cittadini nei quartieri e nelle città amiche della demenza. Appena sceso il sipario sulle ultime drammatiche scene del film, il mio amico Claudio ci ha emozionati tutti, costringendoci spontaneamente a rifugiarci nel più partecipe, rigoroso e commosso silenzio. Ci ha raccontato della mamma smarritasi in un bosco nell'agosto del 2016 mentre si trovava a Re in pellegrinaggio. Era andata a cogliere fiori di campo a pochi metri dell'albergo che ospitava lei e le altre persone, tra cui l’amica a cui era stata affidata e che, stremata dal caldo, era andata a riposare. Il suo corpo è stato trovato, appunto, a marzo del 2017.
Claudio ci ha consegnato un pezzo della storia di sua mamma e della sua vita non proprio facile. Potete leggerlo tra poche righe.
Non abbiamo registrato filmati di questa straordinaria partecipazione di Claudio al nostro FAR MIND, delle sue private confessioni, del suo e del nostro coinvolgimento: meglio così! Senza che ci fossimo messi d'accordo prima sui contenuti, senza che io ed altri lo interrompessimo, nella piena disponibilità di tempo e di cuore, Claudio ci ha regalato un'onda continua di forti turbamenti raccontandoci la sua amara esperienza. Lo stupore commosso ce lo siamo tenuti dentro, senza uso di orpelli tecnici che questa epoca ipermediatica che tutto fotografa, tutto riprende e posta nel web sembra maleficamente imporci. Lo teniamo per noi, nello spazio della memoria delle emozioni sane.
Da Claudio
Ci sono film, libri, storie raccontate che risuonano nella nostra coscienza come se quell’esperienza l’avessimo vissuta di persona, storie che suscitano emozioni, sollecitano riflessioni, rievocano nella memoria ricordi.
Quando poi quel racconto riflette un’esperienza realmente vissuta, il salto nel passato è inevitabile e il ricordo si fa vivo, presente.
Tutto questo è accaduto e mi accade ogni volta che vedo il film di Pupi Avati, “Una sconfinata giovinezza”. Un film che racconta una storia che ricalca sotto moltissimi aspetti la vicenda della scomparsa di mia madre.
Come nel film, anche intorno alla sua storia si rincorrono emozioni contrastanti, come rabbia e tenerezza, sconforto e speranza, ma alla fine di tutto rimane il grande interrogativo su che cosa sia la demenza, come riconoscerla in tempo, come affrontarla.
Ogni volta che mi trovo a raccontare la storia di mia madre, si rinnova dentro di me un’emozione che riporta a galla il dolore di quell’esperienza. Potrebbe sembrare una contraddizione, ma parlare di lei mi fa sentire vivo, mi dà serenità, perché il dolore che sento è cosa molto diversa dallo stato di sofferenza iniziale.
Perché se è vero che non possiamo evitare il dolore e che il dolore è una parte dell’esperienza della vita, la sofferenza nasce dalla resistenza a quel dolore, dall’incapacità di accettarlo. La sofferenza è la migliore compagna del senso di vuoto che si viene a creare quando una persona importante viene a mancare.
E se l’esperienza della scomparsa di mia madre ha un senso, allora mi sento in obbligo di dare un senso, un significato a tutto questo, testimoniando e onorando la sua vita, perché - come disse qualcuno - ogni vita non raccontata è una vita destinata ad essere dimenticata.
Mi è stato chiesto di parlare di lei, e della sua vicenda e lo faccio prima di tutto per rendere onore alla sua persona e in secondo luogo alla sua memoria.
Onorarla anche nel senso cristiano del termine, onorare la sua vita interrotta, per celebrare il valore che rappresenta, per farne un culto (dal verbo coltivare che significa cura, dedizione).
La sua morte mi ha permesso di capire la sua vita, e in particolare le sofferenze che ha attraversato. E per spiegare la sua storia voglio partire dalla fine.
Mia madre è venuta ufficialmente a mancare nel marzo 2017 … dico ufficialmente perché mamma è scomparsa, sparita 7 mesi prima, a ferragosto.
Sono stati 7 mesi interminabili, carichi di angoscia, appesi a qualsiasi notizia che potesse alimentare una speranza.
Mia madre viene da una famiglia di campagna, da un piccolo paese nel cuore dell’Istria. Ha vissuto con i genitori e i suoi sei fratelli sino all’età di sei anni. Erano gli anni della guerra, dopo di che, a causa della povertà, è stata mandata a vivere presso una zia.
Mamma si chiamava Veronica ma nella nuova famiglia il suo nome non piaceva; perciò avevano deciso di chiamarla Maria perché il suo nome di battesimo sembrava poco umile, poco popolare; e così è stata chiamata per il resto della sua vita.
Questo le ha causato in più di qualche occasione dei disagi - come dire - identitari, non sapendo bene con quale nome definirsi.
A 17 anni è andata a servizio presso la famiglia dei miei nonni paterni a Capodistria e a 19 anni sposa mio padre, perché nella famiglia servivano braccia forti e a basso costo per il forno che la famiglia allora gestiva.
Alla mia nascita, tranne nei momenti dell’allattamento, mia madre venne obbligata a cedere la sua funzione di accudimento a mia nonna e alle altre donne della famiglia, che se è vero che mi hanno coperto di un grandissimo affetto, hanno però impedito a mia madre di vivere la sua maternità in senso pieno e completo.
Nella sua vita ha dovuto spesso ingoiare torti e umiliazioni, mascherando il dolore e manifestando una gioia coniugale talvolta poco veritiera, solo per rassicurare i famigliari.
È sempre stata devota alla Madonna, anche quando un tumore al cervello le portò via la figlia dell’età di 20 anni. Erano gli anni ‘80 e allora la medicina muoveva i primi passi in un campo così poco conosciuto come il glioma cerebrale infiltrante, un male devastante che portò alla morte di mia sorella dopo un progressivo disfacimento fisico e una progressiva perdita delle funzioni sensoriali dell’organismo.
L’accumulo di questo immenso dolore col tempo le ha prodotto stati depressivi, manie, fissazioni nelle quali metteva sotto accusa il mondo intero, di cui lei si sentiva vittima.
Col tempo è addirittura maturata il lei l’idea che mio padre avesse abusato di mia sorella, scaricandogli addosso le accuse più infamanti.
Negli ultimi anni poi, i segnali c’erano tutti ma non siamo stati capaci di riconoscerli: perdita della memoria e in particolare difficoltà nel ricordare le informazioni recenti, disturbi del linguaggio, aggressività, perdita di orientamento spaziale e temporale, fino alla progressiva perdita di autonomia; insomma, quello che generalmente viene definito come “demenza”.
A mia madre era stato diagnosticato un deficit cognitivo di cui troppo tardi abbiamo compreso la gravità, e la famiglia si è trovata impreparata ad affrontare la situazione. Nessuno ci ha fatto capire il significato e soprattutto le conseguenze di questa diagnosi.
Fino a quando, prima di partire per il suo ultimo e tanto agognato pellegrinaggio, ha disfatto più volte la valigia… perché dopo averla preparata non si rendeva conto di che cosa andasse a fare con quella valigia.
E così è partita con un gruppo di un’associazione religiosa di volontari verso il Santuario di Re, un paese ai confini con la Svizzera, affiancata da una persona che aveva il compito di assisterla.
Il giorno dopo il suo arrivo, a Ferragosto, dopo il pranzo, si è allontanata dalla casa albergo che la ospitava, una struttura gestita dalle suore. Il gruppo si è accorto della sua scomparsa solo alcune ore dopo, avvertendo le autorità solamente in serata. Inizialmente si è cercato all’interno della struttura; nel giardino, nelle stanze, nelle cucine, dalle cantine alle soffitte.
Le ricerche da parte dei soccorsi sono iniziate, quindi, solo il giorno dopo. Guardie forestali, polizia, sommozzatori, elicotteri, cani molecolari fatti venire da Torino. Tutto il paese ha partecipato alle ricerche dimostrando una solidarietà inaspettata e commovente.
Ma nei casi di scomparsa, come da protocollo, le ricerche da parte delle forze dell’ordine non possono durare più di 72 ore, dopo di che si interrompono. Vi lascio immaginare come aumenti l’angoscia alla notizia dell’interruzione delle ricerche.
Anch’io e la mia famiglia ci siamo messi subito dopo sulle tracce di mia mamma, affiggendo foto e appelli dappertutto nel paese, nelle stazioni ferroviarie vicine, lungo le strade e lungo i sentieri.
Ho contattato i testimoni che hanno confermato di aver visto una donna un po’ confusa, sudata, con un mazzo di fiori di campo, che chiedeva indicazioni per ritornare alla casa delle suore, distante da lì non più di un centinaio di metri.
Il caso è stato poi portato all’attenzione della stampa e della TV. In redazione sono arrivate telefonate che testimoniavano di presunte presenze in un luogo piuttosto che un altro, alimentando così speranze, illusioni e delusioni e infine sensi di colpa che generano sofferenza. Sofferenza causata dal fatto che quell’evento non avrebbe dovuto accadere. In quei momenti non sai più cosa fare. Ti aggrappi alla speranza, aspetti il miracolo che non arriva, ti logori per le parole dette e non dette, per le cose fatte e non fatte e hai bisogno di sentirti perdonare. Ma non c’è nessuno che lo fa. E allora, per me, la sola consolazione è stata quella di scriverle, di confessarmi con lei. Se ho ancora qualche minuto ve la vorrei leggere.
"Vorrei potere fissare nella memoria la prima immagine che ho di te. Vorrei potermi vedere bambino, il bambino che tenevi fra le braccia, ma anche questa volta l'immagine mi sfugge. Altre figure si pongono fra noi, mi portano via da te e ti nascondono.
È incredibile quanto le esperienze e i ricordi dell’infanzia segnino le nostre vite. Quando si diventa adulti la visione delle cose cambia. La distanza dei ricordi mitiga le emozioni e qualche volta anche i sentimenti. Quando da bambino cadevo e correvo da te piangendo con le ginocchia sbucciate e sanguinanti, mi sentivo irriso mentre dicevi che le gambe non vanno in paradiso. Io, in quei momenti, avvilito, avvertivo la sensazione di essere poco importante per te e ne soffrivo.
Ora però, dopo tanto tempo, so che non era così, e lo sconforto di allora si è trasformato in compassione. Perché la vita è stata avara con te. Ciò nonostante mi hai dato tutto quello che sapevi dare, anche se in certi momenti non sempre era quello che desideravo.
Ma ora è bello ricordarti come ti hanno descritta quando sono venuto a cercarti: sudata, bagnata come un pulcino, con un mazzo di fiori di campo fra le braccia. Voglio sperare che nel luogo in cui ora ti trovi, tu possa sentirti bene. Perché ti confesso che, preso dai sensi di colpa, avevo pensato di portarti in un luogo protetto, dove avresti trovato persone come te, con gli stessi tuoi disagi, gli stessi tuoi problemi, ma ora so che l’avresti vissuta come una punizione, sarebbe stato come rinchiuderti in una prigione per anziani. Forse mi avresti rinfacciato una scelta che tu non avresti mai voluto, né per te, né per nessun altro.
Invece ti sei presa la libertà che ti è stata negata e te ne sei andata, da protagonista. La destinazione la conosci solo tu. Io posso solo lasciarti una candelina accesa, così che tu possa trovare la strada del ritorno, se mai, un giorno, vorrai tornare a casa. È questa la preghiera che faccio tutte le sere. Non è più la preghiera dei primi giorni della tua scomparsa, quando desideravo riaverti a tutti i costi, quando per aiutarti pensavo di affidarti ad una struttura protetta, anche a costo di farti pagare un prezzo per te troppo alto, e che avrebbe significato privarti della libertà, se non addirittura della dignità.
Ma se nel buio della notte vedi la luce di una candelina accesa e desideri tornare a casa, sappi che questa è la strada.
Ti scrivo, anche se non so dove sei, in quale parte del mondo ti trovi e temo che questa lettera resti ancora senza una risposta. Ma non vorrei finire mai di scriverla, perché sarebbe la fine della speranza che ancora mi sostiene. Trovo conforto nelle parole che ti scrivo, dedicandoti qualche minuto delle mie giornate vuote, in cerca di te, appeso ad un ricordo carico di nostalgia e rimorso, per quello che avrei potuto fare e non ho fatto.
I pochi, pochissimi resti di mia madre sono stati ritrovati nel corso di un pattugliamento della guardia forestale sette mesi più tardi, nei pressi di una radura, in un bosco non molto distante dal paese in cui si trovava prima della sua scomparsa."
Mia madre si è sempre sentita legata alla terra, alle piante, al ciclo delle stagioni. Solo così spiego il suo desiderio di addentrarsi nel bosco fino a perdersi.
Mi conforta il fatto che la sua vita sia stata restituita alla natura e che la sua morte abbia consentito la vita ad altre creature. Questo mi da pace. Mi da pace pensare che lei si sia donata per continuare a vivere, e non solo nel mio ricordo.