Ho già toccato questo argomento in un articolo comparso nel 2016 su www.perlungavita.it. Il titolo é: Gli abusi nascosti e il senso perduto di responsabilità, e magari merita di essere riletto subito dopo questo.
Il tema. Capita di ricevere rare ma consistenti reazioni di protesta che odorano di ostilità nei miei confronti al termine di una conferenza a comuni cittadini, oppure in risposta a quanto saltuariamente scrivo sul mio FB professionale commentando notizie utili alla gente e validate sotto il profilo scientifico.
Accade esclusivamente quando tratto il tema della formazione sanitaria del cittadino affinché possa collaborare in maniera responsabile e al meglio col medico, concordare con lui le norme di sana prevenzione e numerose altre sfaccettature e decisioni che riguardano la sua salute o dei suoi cari. Oppure contestarne l’operato nel caso esista una più che valida ragione, come potrebbe avvenire nell’epilogo sconosciuto del fatto accaduto che descriverò tra poco.
Ribadire la necessità che il paziente, il familiare, il cittadino debba documentarsi in modo responsabile ha provocato in occasioni diverse la medesima reazione, al grido di “è il mio medico che deve sapere, non è mio compito dovere studiare da medico”.
Vi racconto la storia: una signora di 74 anni ha avvertito una mattina al risveglio delle violente vertigini oggettive (la stanza che girava, soprattutto se si rimetteva sul fianco sinistro), gran malessere generale e vomito. Il medico le ha consigliato riposo, due bustine di Geffer al giorno ed un farmaco contenente 10 mg di Flunarizina la sera. Non ha specificato probabilmente la durata del trattamento... o forse la signora se lo è dimenticato (il medico non aveva lasciato una relazioncina scritta su come comportarsi coi farmaci). Comunque, dopo qualche giorno è migliorata ed ha ripreso una vita quasi regolare, evitando però movimenti bruschi della testa e di riposare sul fianco sinistro. Ha pure continuato ad assumere la Flunarizina la sera e di tanto in tanto una bustina di Geffer prima di cena.
Dopo circa due mesi dal fatto acuto ha iniziato ad apparire ai familiari più lenta nei movimenti, sempre più lenta. A questo aspetto si è aggiunta una lieve depressione dell’umore, qualche pensiero cattivo sulla sua vecchiaia presente e futura. E’ andata allora dal medico accompagnata da una delle figlie, Anna, la più battagliera, attenta e affettuosa, ma il professionista, dopo un’occhiata ha detto di non notare nulla di particolare a livello fisico. Ha consigliato di aggiungere 10 mg di Paroxetina, un antidepressivo che agisce sulla serotonina, da aumentare a 20 mg dopo una settimana.
Un mese dopo i movimenti della signora Veronica si erano fatti ancora più lenti, l’umore era restato identico e si erano pure aggiunti stanchezza e “sensazione di confusione in testa”.
“Aspettiamo ancora un po’ affinché l’antidepressivo faccia effetto”, aveva risposto al telefono il medico ad Anna.
E proprio subito dopo quella telefonata Anna era capitata ad un piccolo convegno organizzato dall’AUSER ed aveva ascoltato la mia relazione dal titolo stranissimo, “Ciabatte rosse”. La medicina di genere e le forme invisibili della violenza sulle donne... anziane", in cui ho spiegato le differenze uomo donna quando si parla di salute, commentando tra l’altro alcune storie di errori in medicina, di come dagli errori si dovrebbe imparare, umilmente, e terminando l’intervento con dati scientifici su malasanità e su alcuni effetti collaterali di certi farmaci se non utilizzati con appropriatezza, e infine di cultura sanitaria del cittadino e di responsabilità. Ricordo di averla vista agitarsi nella sua poltrona in quarta fila questionando con le due persone accanto. E così non mi sono stupito quando, finita la mia relazione con l’invito a “fare i bravi cittadini” documentandosi, studiando, frequentando i convegni formativi sulla salute, come stavano facendo loro in quel momento, lei ha alzato per prima la mano per commentare con modi piuttosto spicci e aggressivi:
- “Noi dobbiamo fidarci del nostro medico e non essere costretti ad imparare a fare i dottori!”
- “ Lei ha ragione, signora, e tuttavia “chi sa si salva, o salva un familiare o un amico”. Cioè, se da cittadini sapete qualcosa in più, potrete collaborare meglio col medico, oppure se costretti dalle circostanze, difendervi meglio”.
- “Ma lei perché non racconta queste cose ai suoi colleghi invece di costringere noi a studiare?”
- “Ci provo, accompagno le relazioni delle mie valutazioni fatte ai pazienti con degli allegati redatti da me o da medici autorevoli su quel problema, da leggere in famiglia e da consegnare ai loro medici. Questi scritti raccontano in modo comprensibile una malattia e come scegliere l’itinerario per una corretta diagnosi e per una terapia idonea; in alcuni casi invece elencano i nomi dei farmaci che danno problemi di memoria, o crisi epilettiche, o sincopi, oppure alterazioni del movimento come parkinsonismo ed anche reazioni più inquietanti del parkinsonismo, come l’acatisia o le distonie tardive irreversibili.
I familiari mi dicono che a volte i loro medici non li leggono. Ho cercato di stimolare l’ordine dei medici ad organizzare dei corsi, sto continuando a girare per la regione ed oltre con l’impegno di far conoscere il dramma delle malattie da farmaci negli anziani e, peggio ancora, nelle anziane che sono più suscettibili dei maschi agli eventi avversi. Ho scritto pure un libro e vari articoli sul tema, ho portato a termine da solo un progetto di supervisione in case di riposo il cui titolo finale, come ha ascoltato poco fa, è “La strage delle innocenti”. Forse sono odiato da un numero sostanzioso di colleghi! Che devo fare di più? Ho citato quelle iniziative che cercano di ricreare un nuovo rapporto collaborativo tra medici e cittadini... le trovate su un mio articolo che potete leggere sul sito www.perlungavita.it. Voi cittadini potete, forse dovete collaborare in un momento in cui il nostro welfare è traballante, attraverso un nuovo atteggiamento verso i medici, costruttivo. A meno che non vi troviate di fronte ad un professionista che non accetta questo vostro modo di procedere o vi maltratta se gli contestate un qualche (documentabile!) errore. In questo caso avete la responsabilità di difendervi, di contrattaccare...”.
- “Non può chiederci questo” sbuffò alzandosi e andando via.
- “Lei è libera, siete tutti liberi di fare come volete, ovviamente”.
Non lo nego: queste contestazioni mi intristiscono e mi strappano un po’ della mia senile energia.
- “Vedete”, ho aggiunto per gli altri, “se dal 1995 Repubblica divulga un inserto Salute (il martedì), e lo stesso fa da molti anni il Corriere della sera (la domenica) e così altri giornali e riviste, vi chiedo: questi articoli sono per noi medici? No, direi: sono per i cittadini! Su questo argomento resto fermo nella mia convinzione. La malasanità va combattuta da tutti. Con responsabilità”.
Ma vi racconto ora la seconda parte della serata: Anna capisce. Forse.
Apparentemente era uscita per un moto di protesta plateale contro la mia visione del problema, ma durante la pacata discussione successiva con il pubblico si percepiva a tratti la sua voce spesso concitata mentre parlava nel corridoio vicino con qualcuno o probabilmente al cellulare. Uno degli organizzatori era andato a intimarle di fare piano. Lei ha chiuso la conversazione (era telefonica, con il fratello, per farsi dare l’elenco dei farmaci della mamma... lo abbiamo capito dopo) ed è rientrata mettendosi accanto alla prima fila, in piedi. Non appena ha trovato spazio nella discussione generale, mi ha chiesto con modi più tranquilli rispetto a prima, circondata dal brusio generale di curiosità dei concittadini: “Ma Flunarizina, Geffer, Paroxetina possono rallentare i movimenti di una persona anziana?”
- “Tutti e tre” ho risposto, calmo, senza ombre di rivalsa o di soddisfazione. “E inoltre la Flunarizina può provocare anche depressione dell’umore. Quei farmaci erano elencati nelle diapositive che ho fatto scorrere abbastanza velocemente dicendovi che, se ne avevate bisogno, scrivendomi via mail, ve ne avrei inviato un elenco: si tratta dei farmaci imputabili in quel rallentamento dei movimenti, dei gesti automatici, della mimica, della voce, che viene chiamato con un appellativo scientifico magari difficile da imparare “parkinsonismo ipobradicinetico”, ovvero senza tremori. Ed ho imitato brevemente la camminata e la postura tipiche.
Sia il Geffer (metoclopramide, nome commerciale del più famoso Plasil) che la Flunarizina (generico a cui corrispondono altri sei nomi commerciali: Flugeral, Flunagen, Gradient, ecc.), nonché la Paroxetina (generico, con vari nomi commerciali: Sereupin, Daparox, Stiliden, ecc.) possono provocare quei sintomi se assunti per lungo tempo (termine abbastanza relativo...). Inoltre, la Paroxetina, come tutti quei farmaci del suo gruppo, gli SSRI, può indurre anche un abbassamento del sodio nel sangue che a sua volta può creare diversi sintomi tra cui la sensazione di “confusione in testa” e manifestazioni ancora più serie. E, lo ripeto, la Flunarizina può provocare anche depressione dell’umore.
Anna a quel punto ha raccontato tra le lacrime la vicenda di sua madre che ho descritto prima e subito dopo ha ringraziato ed è scappata via.
Non so cosa sia accaduto dopo, la storia è recente.
Qualche ulteriore commento, a mia discolpa. Ovvero: mi devo sentire colpevole per avere sollevato queste reazioni di protesta? Cerco aiuto da alcuni pareri autorevoli...
Lo stato assistenziale italiano, il welfare, conquistato nel XX secolo, è destinato a misurare e ridurre le proprie prestazioni sotto il peso della crisi economica attuale e dell’invecchiamento della popolazione e per ovviare alle carenze nell’area sanitaria si dovrà necessariamente realizzare un progressivo coinvolgimento dei professionisti del campo socio sanitario affinché tentino con tutte le loro forze di essere appropriati nelle diagnosi e nelle cure, attenti e precisi nella formazione dei cittadini con l’obiettivo di creare persone capaci di assumersi la responsabilità della salute propria e dei propri cari, evitando gli stili di vita nocivi (alimentazione scorretta, alcol, fumo, non aderenza alle terapie e alla collaborazione alla prevenzione, ecc.). Nel contempo, bisognerà trovare delle soluzioni per andare incontro a quei cittadini, più spesso anziani, che smettono di curarsi per mancanza di soldi.
Allarghiamo lo sguardo. Un editoriale del BMJ del 2013 dal titolo “Let the patient revolution begin” (Richards et al.) ha affermato che l’unica possibilità per migliorare l’assistenza sanitaria è rappresentata da una partnership tra medici e pazienti, perché questi ultimi, meglio dei medici, comprendono la realtà delle loro condizioni, l’impatto che la malattia e il suo trattamento hanno sulla loro vita e come i servizi potrebbero essere meglio progettati per aiutarli. Ma la partnership con i pazienti non deve essere vista come l’ultimo ritrovato per migliorare l’efficienza dei servizi sanitari perché, continua l’editoriale, rappresenta piuttosto un fondamentale cambiamento nella struttura di potere dell’assistenza sanitaria. Dobbiamo accettare il fatto che le competenze in materia di salute e di malattia risiedono tanto all’interno del ruolo medico quanto tra i professionisti non-medici che lavorano in ambito sanitario e sono vicini ai pazienti e alle loro famiglie, persino tra gli esperti di altri settori essenziali per migliorare la salute e l’indipendenza funzionale (la robotica, ad esempio) e infine tra i comuni cittadini che operano da volontari nella società civile.
Nella realtà, quindi, dovranno avere un compito da protagonisti, accanto alla figura sanitaria a suo modo centrale, il medico, le altrettanto essenziali figure dei professionisti non medici, fino ad arrivare al cittadino malato, alla sua famiglia ed al cittadino sano.
In questo scenario, ogni cittadino non dovrebbe smettere di informarsi adeguatamente, aiutato e stimolato a imparare, a leggere e ad ascoltare, almeno per una forma necessaria di autodifesa. Tuttavia, da una parte i dati sconvolgenti e recenti di un analfabetismo di ritorno in Italia abbinato ad informazioni non corrette (bufale) provenienti da certi siti non rendono per nulla allegri, mentre dall’altra una certa impenetrabilità nel ruolo del medico unita a qualche caso di comportamenti di superficialità dettati spesso dalla fretta prospettano un futuro in cui potrebbe prevalere, appunto, disinformazione e scarsa aderenza, e da queste anche la conseguente ridotta prevenzione e l’abbandono di terapie necessarie o di stili di vita corretti, fragilità, errori ed eventi avversi da farmaci, un circolo vizioso perverso di sofferenza inutile e di inutile consumo delle risorse sanitarie.
Può succedere invece che i pazienti sappiano più del medico.
What happens when patients know more than their doctors? recita il titolo di un bell’articolo di R. Snow et al. pubblicato su un BMJ del 2013. In realtà una sufficiente dose di buon senso e alcune conoscenze di tipo sanitario possono aiutare un cittadino nelle decisioni che coinvolgono se stesso o i propri cari. Un articolo di una anziana californiana dal nome italiano, Anna Petroni, pubblicato sull’autorevole JAMA Intern Med. ancora nel 2013, dal titolo When a patient chooses wisely, ci può illuminare ulteriormente sul tema della “scelta saggia” determinata dal semplice fatto che ogni paziente “si conosce meglio del medico”. Anna Petroni racconta che le erano stati proposti dall’ortopedico quattro interventi ai tendini di Achille e alle ginocchia. Ha fatto un semplice e solitario bilancio fra le problematiche derivanti dagli interventi e dal post-intervento, ovvero stress, anestesie, immobilizzazione forzata a letto dopo ogni singola operazione, pericoli di embolie e di altre complicazioni; le ha collegate al suo stato clinico (da anni cammina male aiutandosi con un deambulatore ed un uso saltuario della sedia a rotelle) e infine alla sua relazione con lo specialista, il quale non le aveva chiesto nulla del suo cuore, le cui magagne lei conosceva così bene! Fatte queste sagge considerazioni, ha deciso di non sottoporsi agli interventi chirurgici.
Slow Medicine e il progetto Choosing Wisely si prefiggono di ridurre le pratiche mediche ad alto rischio di inappropriatezza e di condividerle con i pazienti e i cittadini. C’è bisogno allora di una “rivoluzione”?
Una sorta di rivoluzione aveva preso le mosse da un seminario di 5 cinque giorni tenutosi nel 1998 a Salisburgo dal titolo Through the Patient’s Eyes (Attraverso gli occhi dei pazienti) con 64 partecipanti provenienti da 29 paesi (non c’erano italiani) ed espressione di mondi diversissimi: operatori sanitari, giornalisti, attivisti di diritti umani, accademici, insegnanti, gruppi di auto-aiuto, filantropi, artisti, esperti di diritto, autori di romanzi. Nel 2001 era stato dato alle stampe un documento che riassumeva le posizioni emerse da quello storico incontro, una filosofia disegnata con le poche ma sferzanti parole del titolo "Healthcare in a land called PeoplePower: nothing about me without me”. Nella mitica terra chiamata PeoplePower, l’assistenza è interamente condivisa con i pazienti perché “niente che mi riguarda può essere fatto senza di me”. Il più noto e illustre interprete dell’approccio “Patient-Centered” è stato Donald M. Berwick, autodefinitosi da questo punto di vista un “estremista”. Insomma, un eretico, come me!
Un’osservazione spesso fatta da medici, infermieri e altri operatori sanitari che seguono per lungo tempo pazienti con malattie croniche come diabete mellito, sclerosi multipla, malattia di Parkinson, artrite, epilessia e altre ancora è la seguente: “Il mio paziente conosce la sua malattia meglio di me”. La conoscenza e l’esperienza fatta dai pazienti sulla loro pelle è una risorsa troppo a lungo non sfruttata. È qualcosa che potrebbe essere di grande beneficio per la qualità dell’assistenza ai pazienti e in definitiva per la loro qualità della vita, ma che è stata troppo ignorata nel passato. Pazienti e familiari e le associazioni che li rappresentano devono collaborare sempre di più anche nel campo della programmazione della ricerca poiché chi meglio di un cittadino che quella malattia ce l’ha (o ce l’ha in casa!) può indirizzare le priorità di un’indagine scientifica, portare alla luce (a fin di bene) esperimenti fallimentari e taciuti sull’efficacia di terapie, oppure conflitti d’interesse di ricercatori che non sempre coincidono con il bene comune. Le associazioni di cittadini e pazienti devono evitare di essere strumentalizzate limitandole al compito di fonte di raccolta di denaro, imponendosi, invece, il compito di guadagnare un ruolo nella priorità delle ricerche. Per raggiungere questo equilibrio e lo scopo ultimo di aiutare coloro che soffrono di quella patologia che rappresentano, i pazienti e i cittadini vanno formati.
Questa che è stata prospettata sembra proprio una rivoluzione. Nel mio minuscolo ambito, le ho persino dato un nome: “Da Tolomeo a Copernico”, per sottolineare che al centro del sistema dovrebbe stare il cittadino, mentre gli altri professionisti che hanno a che fare con la salute, medico compreso, sarebbero collocati attorno!
Una dichiarazione degli inizi del 2018, é il primo documento di consenso e raccomandazioni pratiche di prevenzione cardiovascolare della Società Italiana di Prevenzione Cardiovascolare (SIPREC). Lo riassumo.
Le malattie cardio (aggiungo: anche quelle neurovascolari e neurodegenerative) comportano un carico enorme sulla sostenibilità economica e sociale. La prevenzione è l’arma più importante per poter garantire ai cittadini il diritto costituzionale alla salute. Viene inoltre auspicata un’alleanza per la prevenzione tra medico e cittadino e un ennesimo richiamo: la prevenzione è anche una responsabilità individuale sulla quale medici e pazienti sono chiamati a impegnarsi ogni giorno, con l’obiettivo strategico dell’alleanza medico-cittadino per consentirci di vivere non solo più a lungo, ma riempiendo di salute gli anni che abbiamo davanti!
Il documento conclude: “... serve un lavoro collettivo che investa il mondo della scienza, della scuola, del lavoro, della politica, delle amministrazioni locali e persino delle industrie alimentari”.
Un’altra autorevole e utilissima citazione. Scrive Robert S. Kaplan et al. sul N Engl J Med 2016 (“Adding Value by Talking More) ”: “...l’alleanza medico\paziente produce risultati migliori mentre i processi di cura costano meno. Esiste un pregiudizio, ovvero esistono medici che disprezzano i colleghi umani... perché perdono tempo a comunicare con empatia e professionalità tecnica”.
Sono pienamente d’accordo con i colleghi quando sostengono che esiste ancora un altro pregiudizio: "... per le aziende socio-sanitarie, per i (cosiddetti) manager ospedalieri, questo è tempo perduto, privo di valore...”. Perché cosiddetti? Lavorano basandosi su prestazioni a tempo e non sulla qualità delle prestazioni stesse.
È un tema che affronterò in un prossimo articolo. Posso peraltro smentirli attraverso la personale esperienza ma soprattutto con un documento, la Carta di Firenze, redatta da alcuni dei principali esperti del settore medico-sanitario e presentata il 14 aprile 2005, che propone una serie di regole che devono stare alla base di un nuovo rapporto, non paternalistico, tra medico e paziente. Al Punto 5 afferma:..."Il tempo dedicato all'informazione, alla comunicazione e alla relazione è tempo di cura...”.
In conclusione: quelli che remano contro e che contestano chi desidera costruire una produttiva e “rivoluzionaria” relazione medico-paziente stanno dappertutto! Io continuo a lavorare dal basso e non sono più ricattabile.
L’ADNKronos Salute il 2 settembre 2016 scriveva a proposito di una proposta in Gran Bretagna: “Le visite dal medico durino 15 e non più 10 minuti! La durata delle visite dal medico di famiglia dovrebbe essere estesa da 10 a 15 minuti, perché sempre più pazienti hanno bisogno di più tempo per parlare con il loro 'camice bianco' di fiducia. Lo suggerisce la British Medical Association (BMA) affermando che attualmente il tempo medio dedicato dal medico a ogni paziente è di 10 minuti, ma aumentando la lunghezza delle visite del 50% migliorerebbe il processo decisionale e il servizio medico... ovvero, il rapporto medico\paziente migliorerebbe in seguito a:
Scelta informata dei mezzi diagnostici
... accuratezza della diagnosi
Scelta informata dei mezzi terapeutici
... aderenza alla cura
Soddisfazione del paziente
... possibile effetto placebo
Risparmio di risorse economiche da destinare ad altro!
I cittadini devono saperlo, o no?