Moltissimi anni fa, sfogliando un rotocalco, mi sono imbattuta in una grande foto di gruppo in cui erano ritratti tutti gli interpreti di qualche telefilm o sceneggiato di successo dell’epoca, non ricordo quale. Ricordo però con estrema nitidezza quanto mi colpì il realizzare come tutte le attrici, indipendentemente dalla loro età, sembrassero coetanee. Ventenni, trentenni, cinquantenni: i loro volti erano tutti ugualmente sorridenti, freschi, giovanili. Nessuna ruga, nessun segno permetteva di identificare e distinguere le più giovani da quelle che avrebbero potuto essere le loro madri se non addirittura le loro nonne, salvo per l’età indicata tra parentesi dopo il nome, nella didascalia. Non saprei precisare se il merito, se così vogliamo chiamarlo, fosse del fotoritocco o della chirurgia estetica, ma so di aver pensato che non andava bene. Non mi piaceva l’idea che una donna di cinquanta o sessant’anni, con sul viso tutti i segni che cinquanta o sessant’anni di vita non possono che lasciare, si confrontasse con modelli come questi e finisse per sentirsi molto più vecchia di quello che era. A chi poteva giovare un messaggio del genere?
Tutto questo succedeva molto tempo prima che io cominciassi a interessarmi all’invecchiamento e alle questioni di genere ad esso connesse, ma al primo approccio con questi argomenti mi sono rammentata subito di quel piccolo episodio. Perché è scientificamente, e ampiamente, provato: sentirsi più vecchi di quanto si è proprio non fa bene. E non per modo di dire, dal momento che uno studio su età percepita e mortalità (Rippon and Steptoe, 2014 ) ha rilevato un più alto tasso di decessi proprio fra gli anziani che si percepivano più vecchi di quanto non fossero.
Difficile, se non impossibile, pensare di riuscire a sradicare meccanismi da cui traggono enorme profitto grandi multinazionali, in diversi settori produttivi; ugualmente, ritengo vada fatto ogni tentativo per aumentare la consapevolezza di questi fenomeni e delle implicazioni anche pesanti che possono comportare. Perché la sparizione delle donne che iniziano a mostrare una certa età dalla scena pubblica potrà anche essere puramente simbolica, ma i suoi effetti no: sono tutti reali.
Non è sempre facile accorgersene - perché il nostro sistema cognitivo opera al risparmio, ed è molto selettivo nell’accogliere informazioni dalla massa di stimoli da cui siamo costantemente bombardati - ma sui media la rappresentazione del mondo è quanto mai parziale e insincera, e la rappresentatività della popolazione non viene affatto rispettata. Nel nostro paese gli over50 costituiscono oltre il 42% della popolazione complessiva, e si tratta di donne in una maggioranza crescente man mano che l’età aumenta: nella fascia 50-54 le donne sono il 51,5% contro il 48,5% di uomini, ma ad esempio nella fascia 90-94 ecco che le donne diventano ben il 72,8% rispetto al 27,2% degli uomini (dati Istat 2015). Dove sono tutte queste donne nei media, nei programmi televisivi? Vediamo adeguatamente rappresentate in TV donne adulte portatrici di quell’autorevolezza, di quelle competenze che l’età e l’esperienza non possono che aver fatto loro acquisire? Queste donne, questi modelli mancano. Come mai?
Il “doppio standard dell’invecchiamento” è un fenomeno rilevato per la prima volta da Susan Sontag, nel 1972, e documentato poi da molte ricerche: una micidiale combinazione di due diversi pregiudizi, sessismo e ageism, che costringe le donne ad apparire giovani il più a lungo possibile. Secondo Sontag le donne anziane vengono percepite come meno attraenti degli uomini anziani, e bollate come “vecchie” molto prima e in misura più marcata dei loro coetanei uomini. Dagli anni Settanta ad oggi non è cambiato molto: durante le ultime Olimpiadi uno speaker della SBS, la tv sudcoreana, commentando l’età – 28 anni – di una judoka vietnamita, l’ha definita “vecchia, per una donna”. Il risultato di questa visione è che, pur costituendo la maggioranza della popolazione over65, le donne anziane sono svalorizzate e vengono ampiamente sottorappresentate in tutti i media. In televisione compaiono meno, sono rappresentate come più giovani delle loro controparti maschili e con capacità diminuite rispetto agli uomini, ritratti come ancora attivi. Scarseggiano dati italiani a riguardo ma il rapporto del 2013 della Commission on Older Women (istituita nel 2012 all’interno del partito laburista inglese) traccia un quadro sconsolante e documentatissimo che non c’è motivo di non considerare applicabile anche da noi: se già in TV le donne sono una chiara minoranza, in proporzione di 1:4 rispetto agli uomini, quando si parla di quelle con più di 50 la loro presenza svanisce del tutto.
Anche Nancy Signorielli attesta una situazione di perdurante svantaggio: nel 2004 ha ottenuto gli stessi risultati di ricerche fatte negli anni 70, quando nel prime time televisivo a uno spettatore capitava di vedere un uomo anziani ogni 22 minuti ma una donna anziana solo ogni quattro o cinque ore. Secondo il Censis (2006), le donne anziane che compaiono in tv in Italia sono solo il 4,8%. Passando dal piccolo al grande schermo, il SAG - Screen Actor Guild, il sindacato degli attori – nei suoi report relativi agli anni 2007 e 2008 calcola che gli attori over40 hanno coperto il 40% di tutti i ruoli maschili, mentre le donne over40 hanno coperto solo il 26% di quelli femminili. Persino nei film Disney i personaggi anziani sono per lo più uomini (67% contro il 33%, quasi rovesciando le proporzioni reali), e non bastasse quelli positivi sono per il 71% maschili, e solo per il 46% femminili (Robinson et al, 2006).
Gli effetti irrealistici del doppio standard si estendono paradossalmente addirittura a pubblicazioni e prodotti diretti proprio alla popolazione anziana: le modelle che reclamizzano montascale o pannoloni sono sempre assai più giovani di quanto sarebbe logico aspettarsi, contribuendo alla sempre più diffusa convinzione che le donne invecchiando perdano completamente il loro valore sociale. Non vanno mostrate, perché non sono più belle. Gli standard di bellezza della nostra cultura si riferiscono infatti sempre alla giovinezza, e quanto più il valore di una persona viene riconosciuto in base ad attributi che diminuiscono con l’età, tanto più la vecchiaia verrà svalutata.
Per le donne, la cui vita è da sempre caratterizzata dall’enfasi sull’aspetto fisico, il fatto di essere meno rappresentate dai media in età anziana sancisce una quasi inesistenza che può avere conseguenze anche molto pesanti. L’immagine del corpo è infatti una cognizione, una parte imprescindibile del concetto di sé e base del nostro senso identità (Chrisler, 2007). Il risultato della svalutazione del corpo femminile che invecchia è non soltanto una maggiore ansia verso l’età, ma anche una minor fiducia nelle proprie capacità cognitive (Schefer e Shippee, 2010). Percepirsi più vecchi della propria età può significare uno stato di salute peggiore (Boehmer, 2007), e percepirsi come meno attraenti può comportare un declino del desiderio e della frequenza dell’attività sessuale (Koch et al., 2005). Inevitabile che sempre più donne ricorrano ad ogni mezzo per apparire più giovani, finendo per cadere in un vero paradosso: l’uso del trucco e dell’artificio solo per cercare di sembrare “naturali”, naturalmente giovanili. Tutto ciò crea dissonanza, conflitto, contraddizione. L’incapacità di accettare il proprio invecchiamento aumenta il ricorso ai interventi di bellezza che stanno diventano sempre più invasivi e snaturanti, e arrivano a riguardare collo, mani, organi genitali. Ma anche gli interventi apparentemente più blandi non sono mai del tutto privi di rischi, come nel caso del botulino: un “bisturi” selettivo che blocca la comunicazione nervosa a livello delle sinapsi, causando la paralisi del muscolo e la cui azione miorilassante persiste per molto tempo. Un tempo si riteneva che gli effetti della tossina botulinica rimanessero molto localizzati, ma si è visto invece che il botulino può avere effetti transitori anche a distanza dal sito di somministrazione, a livello del sistema nervoso centrale (Antonucci et al, 2008).
“A condannare la vecchiaia alla bruttezza non sono gli anni in sé, bensì l’abbandono dell’idea di carattere. Non riusciamo a immaginare la bellezza della vecchiaia, perché guardiamo soltanto con gli occhi della fisiologia.”, scrive Hillman ne “La forza del carattere”. La mancanza di un immaginario collettivo in cui una donna anziana possa continuare ad essere bella e attraente può generare mostri. Come la linea di make-up Geo-Girl, che propone cosmetici con componenti “antinvecchiamento” pensati per pelli giovani, ossia quelle di bambine dagli 8 ai 12 anni! Non è mai troppo presto per l’horror senectutis, per l’orrore per la vecchiaia. E sono fortemente preoccupanti i risultati di una ricerca (Christler, 2007) che ha documentato come alcune donne nell’affrontare un intervento al cuore fossero più preoccupate per le cicatrici che avrebbe comportato che per i rischi intrinsechi dell’operazione.
L’industria di bellezza ha insomma gioco facile nell’incoraggiare la paura di invecchiare. Con una donna che si piace così com’è, anche con le rughe, tutti – se non lei stessa - hanno poco da guadagnare. Solo in questi ultimi anni la necessità di ingraziarsi un target di popolazione così ampio e con disponibilità economiche anche rilevanti com’è quello delle baby boomers ha fatto sì che sui media cominciassero finalmente ad apparire modelle di una certa età, che restano però sempre bellissime e molto glamour. Un modello in cui è difficile riconoscersi. Difatti in uno studio del London College of Fashion (2016) è stato chiesto a più di 500 donne da 40 a 89 anni il loro punto di vista su moda e prodotti di bellezza dedicati alla loro fascia di età, e il risultato è che 9 donne su 10 si sentono ignorate e non rappresentate, e chiedono di vedere un maggior numero di modelle più vecchie in questi annunci. Non dare attenzione a queste richieste sarebbe una vera follia, considerato che sono le donne tra i 50 e i 70 le maggiori acquirenti di prodotti che “ringiovaniscono”.
Cosa possiamo fare per limitare i danni di questi messaggi? Più di quanto può sembrare: le donne anziane sono moltissime, e saranno sempre di più. Bisogna cominciare a fare squadra, a essere consapevoli del proprio peso economico e imparare a usarlo. E imparare a riconoscere e a disattivare i pregiudizi in base ai quali le donne non più giovani vengono rese invisibili, un fenomeno su cui in Italia c’è pochissima attenzione. Perché basta fare una ricerca su Google per rendersi conto della differenza: con “older women and media” tutti i risultati sono incentrati sulla loro sottorappresentazione, sugli stereotipi, l’influenza del genere, mentre con “donne anziane e media” la maggioranza degli esiti sono consigli per mantenere il più a lungo possibile la bellezza (quale acconciatura è più adatta alle donne mature?), o annunci di incontri.
Ancora, non bisogna farsi scoraggiare, non bisogna soccombere a un destino che non è per forza ineluttabile. C’è stato un grande cambiamento nell’attuale generazione di donne anziane. Sono molto più in salute delle loro madri, hanno maggior istruzione e qualifiche. Se ciò nonostante la tendenza è quella di farle scomparire, non è detto che si debba sempre subirla. La giornalista inglese Miriam O’Reilly, rimossa dalla conduzione del suo show (per essere sostituita da ben 3 under 40) dopo essere stata invano invitata a “fare qualcosa per le sue rughe e a tingersi i capelli di nero”, nel 2011 ha vinto il processo intentato contro la BBC per discriminazione di genere e di età.
Ogni occasione può essere buona per darsi visibilità, per promuovere e contribuire iniziative come “Look at me! Project, Images of Women & Ageing” (The University of Sheffield, 2011), una collezione di fotografie e lavori artistici fatti da donne anziane per segnalare la mancanza di una loro rappresentazione nei media. Internet può essere una formidabile piattaforma di informazione e promozione. Ma soprattutto l’obiettivo a cui puntare e da coltivare, ognuno anche solo nel proprio piccolo, è un concetto di bellezza che non sia soltanto l’inarrivabile standard imposto dai media. Riappropriamoci di un’idea di bellezza come unicità, come personalità, come benessere, efficienza, salute. Guardiamo al nostro corpo che invecchia non solo come un’interfaccia con l’esterno che dev’essere innanzitutto sempre gradevole ma come una macchina la cui funzionalità non può che essere la nostra vera priorità. Teniamolo in esercizio, nutriamolo con cura e, non ultimo, usiamolo con gioia.