Stiamo vivendo tempi bui, si creano distanze tra i popoli e persino tra familiari.
E ora non ci si tocca per via del coronavirus…
Così ho deciso di iniziare il mio articolo con uno scritto, che potrei definire di segno opposto, dell’Ordine dei Medici di Torino a commento dello sfogo del direttore della prestigiosa rivista scientifica medica The Lancet, Richard Horton.
Il titolo è: Curato dalle macchine: se il direttore del Lancet è il paziente. TorinoMedica.com 17 Ottobre 2019. (1).
“Perché i medici non toccano più i pazienti? Avendo il privilegio di frequentare cliniche presso il Servizio sanitario nazionale del Regno Unito quasi ogni settimana da marzo di quest’anno, posso dire onestamente che in nessun momento nessun medico, chirurgo o anestesista, ha mai fatto nulla che si avvicinasse a un esame obiettivo”. (2)
Chi si pone questa domanda è il direttore di The Lancet, Richard Horton. Prosegue specificando che le sue non sono da intendere come osservazioni critiche, ma note utili a sottolineare come, “nella pratica odierna della medicina contemporanea l’esame obiettivo sembra essere diventato un anacronismo, qualcosa di clinicamente residuale”.
Dovremmo piangere o celebrare la fine del contatto fisico tra il medico e il malato?
“Per molti aspetti dovremmo rallegrarci. Ho attraversato un percorso fatto di risonanze magnetiche e PET-CT con contrasto, sottoposto a numerosi elettrocardiogrammi, esami ecografici ed ecocardiogrammi, sono stato perforato da aghi per biopsia e ho atteso in file interminabili che le provette si riempissero di sangue. Che bisogno c’è dei dottori? La precisione della moderna medicina tecnologica trionfa su tutto ciò che i nostri imperfetti sensi possono rilevare”.
Il colloquio descritto da Horton ha come coprotagonisti medici con l’occhio fisso al computer, che urlano in corridoio ai pazienti chiamandoli per nome, che si lamentano dell’organizzazione dell’ospedale, impassibili mentre comunicano al malato l’esito degli esami.
“Non c’è contatto. Anzi, il contrario. Separazione assoluta”.
Niente ricerca attenta di linfonodi ingrossati. Nessuno sente il polso radiale, brachiale, carotideo o altro. Nessuna auscultazione del cuore o del torace. Nessun esame addominale.
“Il sistema nervoso potrebbe semplicemente non esistere”, osserva Horton, concludendo che “evitare il tatto è una cattiva medicina” anche perché – come scrive Margaret Atwood, scrittrice canadese, autrice del romanzo distopico “Il racconto dell’ancella” – “il tocco viene prima della vista, prima del discorso. È la prima lingua e l’ultima, e dice sempre la verità”.
L’articolo del direttore di The Lancet è stato ampiamente ripreso, meritando oltre 500 tweet nei primi cinque giorni dalla pubblicazione. I lettori hanno sottolineato come l’importanza della relazione fisica medico-paziente non sia fondamentale per la diagnosi, quanto per l’instaurazione di un rapporto tra il curante e il suo assistito. In molti hanno commentato lapidariamente (“Make medicine human again”) mentre altri si sono spinti oltre, segnalando che anche in discipline come la fisioterapia il trattamento sia ormai affidato alle macchine invece che alle mani. Dispiace vedere solo un italiano – un oncologo – tra le persone che hanno commentato o rilanciato il tweet di Horton.
“Ho parlato con degli amici di quello che ho notato visitando da malato gli ospedali”, ha concluso Horton: “si sono sorpresi della mia sorpresa”.
Forse, un po’ anche noi. Proprio il gruppo editoriale di The Lancet – di proprietà della più grande casa editrice scientifica del mondo – ha lanciato pochi mesi fa una nuova rivista, The Lancet Digital Medicine. Periodico che propone un flusso costante e intenso di contributi così che solo un lettore attento può riuscire realmente a distinguere la celebrazione dell’innovazione dalle prudenti riserve di chi conserva uno sguardo critico sulla e-health. In pochi altri ambiti come questo così alla moda finiscono con l’essere nascosti i risultati negativi della ricerca. Ne parla un commento uscito proprio su “The Lancet Digital Medicine” in questi giorni: “La letteratura scientifica è nota per essere incompleta perché gli studi negativi, cioè quelli che non confutano l’ipotesi nulla, sono pubblicati meno frequentemente. Ciò aumenta la complessità della valutazione delle prestazioni dell’intelligenza artificiale rispetto a quella dei clinici, poiché i risultati potrebbero essere distorti a favore di quei modelli di intelligenza artificiale che dimostrano di funzionare. È necessario invece che anche gli studi negativi siano pubblicati per bilanciare e rendere più credibile il quadro a disposizione dei professionisti sanitari e dei decisori”. (3) Autrice è Tessa S. Cook, della “Perelman School of medicine di Philadelphia”, che raccomanda dunque rigore: le aspettative nei confronti della tecnologia in sanità sono troppo elevate per poterci permettere di disilludere i cittadini.
Alcune mie riflessioni sui contenuti degli articoli, anche in relazione all’attuale momento che stiamo attraversando in Italia e nel mondo intero, l’epidemia da coronavirus e le avvertenze governative emanate, alcune relative alla “giusta distanza” interpersonale.
1. La prima però riguarda una frase scritta da Horton:
“Il sistema nervoso potrebbe semplicemente non esistere”.
Cavolo! Sono decenni che lo dico e l’ho scritto pure su queste pagine di PLV a gennaio e febbraio di quest’anno crudele.
A gennaio ho posto pure quattro quesiti e a febbraio ho elaborato le risposte a due di essi: uno riguardava sostanzialmente il tema “OSS ben formati potrebbero essere capaci nel distinguere una sincope con convulsioni da una crisi epilettica convulsiva generalizzata meglio dei medici?” Non è problema di poco conto! E l’altro: “Perché bisogna misurare la pressione arteriosa bilateralmente, almeno una tantum, e qualche volta anche in posizione supina e poi in piedi?”
Se vi preme la vostra salute leggete quei due numeri.
Oggi risponderò al primo quesito di gennaio, sempre al grido di “Chi sa si salva!”. Se sopravviverò, il mese prossimo completerò il mio articolo con la risposta del quarto quesito.
Ecco la domanda e pure la risposta nelle due diapositive:
Gli intervistati o i presenti ad una conferenza oppure ad una lezione, persone comuni, allievi OSS, altri professionisti della Salute medici compresi (molto dipende dal ruolo specialistico e da altro!) rispondono in netta maggioranza che si va dall’oculista.
In realtà, se la diplopia (veder doppio) scompare chiudendo alternativamente uno dei due occhi, il problema è quasi certamente neurologico! Vuol dire che esiste un deficit motorio di uno dei vari muscoli di uno dei due occhi, a sua volta determinabile anche da malattie di altre strutture gerarchicamente al di sopra del muscolo stesso: placca neuro-muscolare, nervo, nucleo del nervo e collegamenti in quella parte del cervello che si chiama tronco encefalico.
Complessa la neurologia, no?
La miastenia gravis, malattia autoimmune che ha colpito personaggi noti come il multimiliardario Onassis (i soldi non proteggono da patologie tremende, lo sappiamo) rappresenta una, dico solo una, delle diverse cause di una diplopia. Troverete quanto basta in internet sulla miastenia e su altre patologie in grado di “far vedere doppio” per deficit neurologico.
Mi tocca ammettere che, accanto alla neurologia, l’altra sconosciuta resta la geriatria. In conseguenza di ciò il mio ruolo di neurologo dei vecchi (non oso scrivere neurogeriatra in quanto specialista nella sola branca della neurologia) è particolarmente oscuro ai più!
2. La seconda riflessione. Gli idoli non siamo noi.
Sembra un titolo alla De Gregori e invece sono parole del neuroscienziato Giacomo Rizzolatti. Alla recente edizione de Il Volo di Pegaso ha ammesso che la scienza, almeno in Italia, appare sottovalutata. Gli idoli sono i calciatori o altri campioni sportivi, i musicisti, gli attori e le attrici; prevalgono altre figure professionali rispetto a medici e insegnanti, i quali, in definitiva, non godono di questo riconoscimento.
Ricordo che era il 1992 quando un gruppo dell’Università di Parma riferì di aver trovato nella corteccia premotoria dei macachi una nuova classe di cellule “sensibili al significato delle azioni”. Questi neuroni avevano la sorprendente capacità di attivarsi non solo quando una scimmia svolgeva un certo atto motorio, come afferrare un oggetto, ma anche quando vedeva un altro esemplare compiere lo stesso gesto. Rizzolatti e colleghi li hanno chiamato “neuroni specchio”. Ci servono enormemente per essere empatici e per altro ancora!
Potrebbe avverarsi il caso che con i fatti e gli esempi che stiamo vivendo in questi amari giorni, medici e altri professionisti non-medici della Salute ricevano finalmente (per gli insegnanti quanto bisognerà aspettare?) il giusto riconoscimento di “idoli”.
3. Torno al tema “Toccare”.
Pochi anni fa ho curato la presentazione del volume “Il corpo nella demenza. La terapia espressiva corporea integrata nella malattia di Alzheimer e nelle altre demenze” di Elena Sodano (Maggioli Editore).
Ha scritto Elena… “questi corpi lenti, corpi persi, corpi vuoti, corpi silenziosi che nel momento della diagnosi non vengono più tenuti in considerazione, come se diventassero evanescenti perché la malattia all’improvviso stacca ogni contatto fisico, emozionale, affettivo tenendo in considerazione solo lo studio e la somministrazione farmacologica di molecole che servono a sedare le condotte corporee imposte da un cervello che piano piano si deteriora”.
Ho scritto nella presentazione: “… mi rimetto alla scienza citando un esperto di fama mondiale, Fabrizio Benedetti, traendo dal suo “L’effetto placebo. Breve viaggio tra mente e corpo” (Carocci editore): “Oggi non vi sono dubbi, né per la scienza né per la filosofia, che il problema mente-corpo si identifichi con il problema mente-cervello… una delle discipline moderne che studia l’unità mente-cervello-corpo è la psico-neuro-endocrino-immunologia…”.
Toccare un corpo, accarezzarlo, abbracciarlo, provocano, tra l’altro, un aumento di ossitocina, la sostanza chimica basilare per la connessione sociale, un ormone che raggiunge attraverso il sangue e collega tra loro vari organi, un ormone della calma e della tranquillità, dell’armonia sociale, dell’intimità. Ma è anche un neurotrasmettitore del nostro sistema nervoso autonomo, quell’apparato complicato e diffuso nel nostro organismo che “non comandiamo”, che ci fa battere il cuore, aumentare la pressione, arrossire, sudare, come raccontano John Cacioppo (scomparso da poco) e William Patrick in “Solitudine. L'essere umano e il bisogno dell'altro” (Il Saggiatore) gettando le basi per lavori scientifici successivi che hanno confermato in che modo la solitudine (quella che definisco amara, non accettata, subìta) sia diventata uno dei nuovi fattori di rischio modificabili di svariate condizioni patologiche, demenze comprese.
Toccare un corpo, palpare l’addome o qualsiasi sua parte dolorante può lenire, appunto, un dolore ed essere nel contempo una determinante valida per una diagnosi. Tuttavia (e lo scritto di Horton lo conferma) oggi appare come una modalità impiegata progressivamente sempre meno dai miei colleghi, a beneficio di esami che dovrebbero offrirci una certezza maggiore (e una superiore copertura difensiva in caso di contenziosi legali…) ma che allontanano emotivamente i due protagonisti, il medico e il paziente che si rivolge a lui.
Una persona che oggi ha 80 anni o più, basta riflettere, è passato da una condizione in cui il suo medico «sapeva un po’ di tutto» ad un’altra caratterizzata da superspecializzati che non solo non comunicano tra loro, ma spesso frammentano il corpo in una visione che parla agli organi e quasi mai all’organismo intero. Non solo! La frammentazione delle competenze sta comportando una diminuzione delle responsabilità, che di conseguenza si dissolvono all'interno del gruppo di medici coinvolti nella cura delle diverse patologie di un anziano fragile: emerge frequentemente una difficoltà nell’indicare quale sia il medico a cui spetti l'onere di tirare le fila degli accertamenti eseguiti e revisionare le numerose cure farmacologiche, chi sia in definitiva il direttore d’orchestra di una Persona Fragile”.
Toccare è l’unico modo per riconoscere l’esistenza fisica dell’altro. È di Walt Whitman. Lo cita in un bell’articolo su Repubblica dell'11 febbraio scorso Albert Miguel: L'empatia al tempo del contagio. Quasi alla fine l’autore ci richiama alla mente una canzone cantata da Diana Ross:… “reach out and touch somebody’s hand, make this world a better place, if you can”.
“Allunga la mano e tocca quella dell’altro, rendi questo mondo un posto migliore, se puoi.”
Non possiamo toccarci e abbracciarci da qualche giorno – oggi è il 10 marzo 2020 - e ne sento il peso. Condivido pienamente da siciliano, e per giunta di mare, emigrato in Friuli, quanto scrive Miguel sulla diversità di comportamenti in Argentina e in Canada, e in altre parti del mondo, in questo campo della prossemica. Abbracci “esagerati” o assenti.
Ripenso a certe contraddizioni apparenti: da due anni è stata creata dall’AIP la Giornata contro la Solitudine, ci si batte per porvi rimedio in molti modi e in tanti posti del mondo e del nostro Paese. Ora invece dobbiamo cercarla, applicarla, viverla per scampare alla pandemia virale!
Ma quando l’attuale dramma e le sue limitazioni varie, anche emotive, saranno finite mi iscriverò a quel gruppo che regala abbracci alla gente per strada! Prometto! Gli abbracci mancati saranno ampiamente recuperati!
Gran finale con domande professionali e nessun pentimento.
Posso dire che "ai miei tempi" c'erano delle pecore nere che inviavano d'urgenza Persone in PS e\o direttamente in Neurologia con diciture minime e lapidarie tipo "Sindrome vertiginosa di n.d.d." o semplicemente "Cefalea di n.d.d." e simili, senza ALZARE IL SEDERE DALLA SEDIA? (perdonatemi la volgarità, ma mi é sopraggiunta la rabbia dei tempi andati!)
E che non abbiamo fatto nulla per contenere questi esperti in superficialità, a parte alcuni di noi, odiatissimi di conseguenza, quando scrivevamo all'inizio della consulenza urgente "Il paziente afferma di non essere stato visitato dal proprio medico, ecc.?"
Lo hanno compreso i colleghi che le malattie che la medicina non ha sconfitto sono state cronicizzate e che diagnosi incerte sono denunciate dal 73% delle associazioni di pazienti con malattie croniche? Che il primo ostacolo sembrano essere proprio i medici che, a causa delle complessità delle patologie, spesso ne sottovalutano o non comprendono i sintomi (86%)?”
Sono domande in parte tratte dal XIV Rapporto nazionale sulle politiche della cronicità del Coordinamento nazionale delle associazioni dei malati cronici (Cnamc) di Cittadinanzattiva, presentato a Roma il 7 aprile 2016.
La COMPLESSITÀ È LA REGOLA QUANDO SI PARLA DI VECCHI e gli ospedali (ma non solo!) stanno diventando inadatti a gestire la complessità degli anziani.
Il "tocco" appare sempre più uno strumento necessario, almeno quanto la "parola" e ambedue devono arrivare a serena destinazione ben prima che si attivi la tecnologia. Ce ne ricorderemo quando, spero presto, tornerà la normalità?
Bibliografia
(1) Rivista online dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri della provincia di Torino a cura de Il Pensiero Scientifico Editore
(2) Horton R. Offline: Touch—the first language. The Lancet 2019; 394: 1310.
(3) Cook TS. Human versus machine in medicine: can scientific literature answer the question? The Lancet Digital Health 2019;1: e246-7.