Il diciannovesimo “Rapporto annuale” Istat su “La situazione del Paese al 2010” rivela che l’economia italiana arranca non riuscendo a recuperare il forte divario rispetto ai livelli dell’ultimo decennio del secolo scorso. Infatti, nel nostro Paese la crisi era iniziata ben prima del 2008, dato che tra il 2001 e il 2010 l’Italia ha realizzato la peggiore performance produttiva tra i Paesi dell’Unione Europea. Gli indicatori della crisi sono molteplici con ricadute negative sulla vita sociale e personale dei cittadini, in particolare giovani, donne e residenti al Sud del Paese.
Per cui chi somma queste tre caratteristiche é al più alto livello di rischio rispetto all’occupazione e alla condizione di povertà.
E quindi rispetto alla possibilità di esercitare una piena cittadinanza, che significa poter realizzare le proprie potenzialità e concorrere al «progresso materiale e spirituale della società», come recita la Costituzione (art 4).
La crisi economico-produttiva ha anzitutto delle ricadute inevitabili sui fenomeni di impoverimento della popolazione.
In Italia nel 2010 è in condizioni di povertà relativa[1], il 10,8% delle famiglie e il 13,1% della popolazione, vale a dire 2 milioni e 657 mila famiglie e quasi 8 milioni di cittadini. Una ricerca europea su reddito e condizioni di vita (EU-SILC 2010) rivela che 16 famiglie su 100 presentano tre o più indicatori di deprivazione rispetto a beni e servizi che rendono la vita dignitosa. Sono sulla corda del bisogno conclamato le famiglie numerose, con tre o più figli, con l’abitazione in affitto.
La situazione di crisi economica ha pesato anche sul complesso delle famiglie italiane che per sostenere i consumi - rimasti ad un livello inferiore al 2007 - hanno eroso parte del loro risparmio, il cui tasso è sceso al livello più basso tra tutte le grandi economie dell’area euro. La crisi fa venir meno anche l’immagine dell’italiano come previdente formica per la sua nota propensione al risparmio.
Gli effetti perversi della dinamica stagnante della produttività negli ultimi dieci anni oltre a ridurre i consumi, ha fatto aumentare il costo del lavoro e ha ridimensionato le entrate fiscali con ulteriore deterioramento dei conti pubblici. L’attuale crescita inflazionistica sta ulteriormente incrementando i prezzi dei beni di consumo, soprattutto per quanto riguarda i prodotti energetici e alimentari.
Le cose non vanno meglio se si guarda alla crisi dal versante del mercato del lavoro, oggi più debole e caratterizzato da minore qualità dell’occupazione. Tra il 2008 e il 2010 il numero di occupati è diminuito di 532 mila unità. I giovani (18-29 anni) sono stati i più penalizzati dalla recessione per cui nel 2010 era occupato un giovane su due nel Nord e meno di tre su dieci nel Mezzogiorno. L’incremento della disoccupazione ha riguardato tutte le classi di età e le aree territoriali trasformandosi, a partire dal biennio di recrudescenza della crisi (2008-2009), in disoccupazione di lunga durata. Tanto più in un Paese come il nostro dove il lavoro è poco mobile in assenza di una struttura di welfare diffuso in grado di proteggere i lavoratori dal rischio di ritrovarsi senza un’occupazione[2]. Le nuove assunzioni avvengono soprattutto con contratti part time, a termine e a orario ridotto, ed è diminuita la probabilità di passare da un lavoro atipico ad uno standard. Se un milione di giovani è occupato con contratti a tempo determinato e con collaborazioni (il 30,8%) sono ben 2,1 milioni i giovani che sono fuori dal circuito formativo e lavorativo. Siamo di fronte ad una struttura duale del mercato del lavoro, spaccato tra un’area di lavoro garantita ed una poco tutelata, con una frattura netta tra due generazioni e tra old enew workers. Avere un livello di istruzione più elevato non è un fattore protettivo per i giovani negli anni della recessione. Si tratta di un ulteriore elemento che penalizza la componente femminile, mediamente più istruita di quella maschile. La crisi, secondo i dati Istat, ha ampliato il divario tra l’Italia e l’Unione europea nella partecipazione delle donne al mercato del lavoro (tasso del 46,1% nel 2010, 12 punti percentuali più basso di quello medio europeo, ancora più ridotto è quello delle madri), sia per la difficoltà delle italiane a conciliare l’attività lavorativa con l’impegno familiare[3] - la condizione di madre si associa ad una minore occupazione e conferma il tradizionale ruolo maschile di principale fornitore del reddito familiare - sia per gli ostacoli culturali che derivano da una concezione familistica del ruolo femminile. Le donne sono destinate ad un sovraccarico di lavoro di cura familiare per lo squilibrio nella distribuzione dei carichi di lavoro all’interno della coppia[4], senza poter contare su un sostegno esterno come attesta la carenza cronica di asili nido[5]. Questo spiega perché siano decisamente più le donne a scegliere volontariamente il part time (il 52,8% di esse vs il 35,7% dei maschi), che peraltro in epoca di crisi non significa sostenere carichi di lavoro meno impegnativi[6]. L’occupazione femminile cresce poi solo per le professioni a bassa qualifica nei servizi alle imprese, alle famiglie e alla persona, quindi in comparti di attività tradizionali che presentano orari di lavoro poco adatti alla conciliazione con i tempi di vita.
La disoccupazione o inoccupazione femminile deprime, sia il bilancio familiare - dato che con il secondo stipendio si può pagare un mutuo, la baby sitter o una donna a ore per il lavoro domestico - sia l’occupazione femminile di sostituzione, ovvero il lavoro domestico e di accudimento dei membri più fragili della famiglia che le madri, le mogli o le figlie occupate affidano quasi sempre ad altre donne.
Di quali aiuti dispone la famiglia in sofferenza per deprivazione da lavoro e da reddito? In Italia tre ammortizzatori sociali sembrano tenere nella crisi: la Cassa integrazione, che protegge gli adulti capofamiglia; la famiglia, che riesce per lo più a garantisce economicamente i figli in attesa che possano inserirsi nel mercato del lavoro; la rete informale di solidarietà, con l’aiuto offerto da chi si fa carico dei bisogni di persone non appartenenti alla propria famiglia (anche se parenti). Se la Cassa integrazione è uno strumento temporaneo ed eccezionale che aiuta a contenere gli effetti disastrosi della crisi, la famiglia e le reti informali di aiuto sono risorse essenziali e, in particolare, le reti informali perché nel loro agire si alimentano continuamente, per emulazione, e rappresentano il “capitale sociale” di una comunità, rendendola coesa e solidale.
Tuttavia i dati Istat segnalano la crisi delle stesse reti di aiuto informale, a sostegno di persone connotate da maggiore vulnerabilità. Tale sostegno è garantito dai care giver nel linguaggio inglese spesso lessicalmente più efficace del nostro. Basti pensare all’uso nostrano del termine “badante”, che ha una valenza negativa, perché minimizza le risorse e le potenzialità dell’assistito, ed appare inappropriato perché generalmente a questa figura viene richiesta anche la collaborazione alle faccende domestiche.
Se è vero che più persone oggi fanno parte della rete di care giver (il 26,8% del 2009 a fronte del 20,8% del 1983) è pur vero che esse hanno meno tempo da dedicare agli altri, un’età media più avanzata (50 anni) e si trovano di fronte di un maggior numero di persone/famiglie bisognose di aiuto e per un periodo più lungo dell’esistenza. Ciò comporta una netta riduzione delle famiglie che beneficiano del supporto delle reti informali (dal 23,3% del 1983 al 16,9% del 2009). L’Istat calcola che vi siano circa due milioni di individui, soprattutto anziani, che non trovano adeguata protezione all’interno della famiglia né possono avvalersi di aiuti esterni, pubblici o della rete informale.
Ricevono aiuto dai care giver soprattutto le donne con figli minori che lavorano - in supplenza a servizi pubblici carenti (asili nido, scuola a tempo pieno) e perché possano meglio conciliare il lavoro con la famiglia - meno gli anziani, soprattutto se l’impegno è costante nel tempo o senza respiro come nel caso dei non autosufficienti; per i quali la soluzione più diffusa è la prestazione remunerata della cosiddetta “badante”.
Una recente indagine dell’Istat su “conciliazione lavoro-famiglia” (II semestre 2010) segnala che le persone che si prendono regolarmente cura di bambini non conviventi con meno di 15 anni, sono l’8,5% delle donne tra i 15 e i 64 anni (1 milione 688 mila) e il 5% degli uomini (978 mila) di questa stessa età. Ovviamente l’incidenza maggiore si rileva tra i 55-64enni (il 17,5% delle donne e l’8,6% degli uomini), fascia di età in cui è più frequente che si tratti di nonni/e che si prendono cura dei nipoti[7]. Oltre 3 milioni e 300 mila persone riferiscono, invece, di aver assistito regolarmente adulti bisognosi di cure, ovvero malati, disabili o anziani: il 10,7% delle donne e il 6,2% degli uomini con una maggiore concentrazione nelle fasce di età più elevata (55-64 anni).
A sottolineare il ruolo degli anziani nel sostegno al welfare contribuisce una ricerca dello Spi-Cgil Emilia-Romagna condotta su 1.556 anziani tra i 60 e i 75 anni da cui si evince che il 79% di essi offre un aiuto informale a familiari, amici e vicini di casa dedicandovi in media 2 ore e mezza al giorno. Si tratta di una risorsa spontanea, in buone condizioni sia di salute che di livello socio-economico e con molto tempo libero, dato che l’87,1% è in pensione (il 12,5% sono casalinghe).
La rete informale è quindi di duplice tipo: quella di parentela, amicale o di buon vicinato, che è diventata più “stretta e lunga” e di poche persone (famiglie frammentate) e con meno tempo da dedicare, e quella del volontariato, con una componente più ridotta di care giver (il 6,6% del totale), ma più costante e organizzata.
In ogni caso il pilastro dell’aiuto informale è costituito dalle donne che garantiscono oltre i due terzi dell’impegno complessivo della rete, pari a 3 miliardi di ore spese complessivamente. Esse sono oggi tendenzialmente più istruite, di età più avanzata (crescono le ultra65enni, mentre per la classe femminile 45-64 anni cresce il carico di lavoro familiare, sia per la presenza maggiore di figli adulti in casa che per l’accudimento dei genitori anziani), sono fuori dal mondo del lavoro o vi operano in condizione privilegiata, dato che normalmente le donne occupate faticano a conciliare i tempi di lavoro con i tempi di vita, e quindi ad essere risorsa disponibile per i propri familiari o per un volontariato di prossimità. Purtroppo il recente provvedimento che eleva l’età lavorativa anche per le donne vanifica o ritarda l’utilizzo di questa risorsa informale per la cura di bambini e anziani costringendo ancor più le famiglie a fare ricorso, con maggiore spesa, a personale esterno come baby sitter e badanti. Al ridursi del welfare familiare e a fronte dei nuovi bisogni dei nuclei primari, frammentati e ridotti nei loro componenti, subentra inevitabilmente una crescita esponenziale di operatori domestici, soprattutto di origine immigrata, impegnati spesso senza garanzie contrattuali e tuttavia con un importante esborso delle famiglie italiane[8]. D’altra parte, la donna inoccupata o disoccupata difficilmente si può dedicare alla cura di altre persone, parenti o non, come i dati delle ricerche sui volontari dimostrano, perché sarà assorbita e disturbata dalla sua condizione di attesa e di ricerca del lavoro.
In definitiva il lavoro di cura è più gravoso e più prolungato per le donne e comporta nelle famiglie strategie di progressivo adattamento all’emergere di nuovi bisogni con la condivisione dell’aiuto con altre persone, care giver, volontariato, collaboratrici domestiche a pagamento, e possibilmente con il servizio pubblico.
Cosa fare di fronte a questo scenario e in epoca di scarse risorse economiche da parte degli enti locali? E’ necessario incentivare forme miste di aiuto per la cura e l’assistenza alle persone in stato di bisogno. Non è un caso che nel 2009 a fronte del 16,9% delle famiglie sostenute dalla rete informale, la percentuale di quante sono raggiunte da almeno un tipo di aiuto, compresi quelli a pagamento e di fonte pubblica, raggiungono il 27,7%, con una crescita nell’ultimo decennio del 4,6%. Nel nuovo welfare delle ristrettezze economiche, pubblico, privato e aiuto informale devono pertanto integrarsi e mettere in comune risorse. Ciò significa potenziare e non deprimere il sistema del welfare pubblico in quanto agli enti locali spetta di governare le risorse in campo e di garantire la loro qualificazione, non sottraendosi, ad esempio, dal promuovere la formazione dei lavoratori immigrati domestici o degli asili nido di condominio o di quartiere. L’Istat documenta che laddove il pubblico è efficiente anche il privato e il volontariato operano più efficacemente e gli stessi familiari, sostenuti nel loro carico di lavoro di cura, possono garantire meglio una vicinanza affettiva ai loro famigliari in stato di bisogno. Il rapporto sembra pertanto confermare che solo l’attuazione di una “sussidiarietà circolare”, basata sul sostegno reciproco tra pubblico e privato/volontariato, può oggi permettere un modello di Welfare sostenibile ed efficace.
[1] La povertà relativa è collegata al tenore di vita di ogni paese e colpisce tutti quei soggetti che non hanno la possibilità di godere di standard accettabili di vita propri della società in cui vivono; in termini monetari è considerata povera la famiglia di due persone che dispone di risorse economiche inferiori alla spesa media mensile pro-capite del paese che è di 983,01 euro nel 2009 a fronte dei 999,67 del 2008.
[2] Si fa riferimento all’attivazione di strumenti di sostegno al reddito, di orientamento, del potenziamento delle politiche attive del lavoro.
[3] Nel 2008-2009 circa 800 mila madri hanno dichiarato che nel corso della loro vita lavorativa sono state licenziate o sono state messe in condizione di doversi dimettere in occasione o a seguito di gravidanza. Si tratta dell’8,7% delle madri che lavorano o hanno lavorato in passato. Una recentissima ricerca ISTAT sul congedo parentale ha verificato che sono 702 mila le madri occupate che hanno dichiarato di aver interrotto temporaneamente dopo a nascita del figlio più piccolo l’attività lavorativa per almeno 1 mese (il 37,5% delle occupate che hanno figli con meno di 8 anni a fronte dell’1,5% dei padri), ma sono tanti i casi che non utilizzo del congedo facoltativo di maternità/paternità: si tratta di 2 milioni 754 mila padri occupati e di 1 milione 18 mila madri occupate.
[4] Nel 2008-2009 l’indice di asimmetria di genere del lavoro familiare indica che il 76,2% del lavoro familiare delle coppie è ancora a carico delle donne, valore di poco più basso di quello registrato nel periodo 2202-2003 (77,8%).
[5] Scarsa è la recettività ed accoglienza dei bambini in età 0-2 anni nei nidi d’infanzia italiani. Il rapporto tra i bambini accolti e quelli in età è di 9.9, cioè 1 su 10. Non è un caso che le donne che lavorano affidano i bambini nel 54,5% dei casi ai nonni e solo nel 12,1% al nido pubblico e nel 10,3% al nido privato (elaborazioni Ires su dati Istat e Cnel).
[6] «A fronte infatti di una generale contrazione degli orari di lavoro, i ritmi imposti dalla crisi sembrano spingere le organizzazioni a lavorare in maniera più intensa e schizofrenica per far fronte alle esigenze, spesso improvvise, che provengono dai mercati» in CENIS, Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2011, Roma, Franco Angeli, 2011, pag. 194.
[7] L’indagine Censis-La Repubblica del 2007 attesta che i nonni nel 35,8% dei casi si occupano direttamente dei nipoti.
[8] Sono «quasi un milione e mezzo le persone occupate presso le famiglie a garantire care a persone non autosufficienti, in gran parte anziani con un esborso annuale direttamente dalle tasche dei privati di quasi dieci miliardi di euro». Cfr. Censis, Il terzo settore e l’economia sociale non profit: prospettive nella crisi e per il dopo crisi, Roma, Cnel, 2010, pag. 55.